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Con un’esperienza di 8 anni come project manager e copywriter in agenzia, si occupa di comunicazione, progetta strategie e scrive per il web. 
Dal 2018 è redattrice de “Il Giornale del Cibo” e si interessa di cultura e storia dell’alimentazione.
Nel 2019 ha realizzato e condotto la trasmissione radiofonica “Sale in zucca” dedicata all’origine dei modi di dire della lingua italiana per l’emittente bolognese Radio Città Fujiko.
Ha studiato Lettere Moderne e Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna e per qualche tempo ha vissuto a Londra e Poughkeepsie (NY). Quella dei suoi tre cognomi è una storia lunga quasi quanto la sua firma, ma il sangue blu non c’entra niente!

Giulia Petruzzelli

Con un’esperienza di 8 anni come project manager e copywriter in agenzia, si occupa di comunicazione, progetta strategie e scrive per il web. Dal 2018 è redattrice de “Il Giornale del Cibo” e si interessa di cultura e storia dell’alimentazione. Nel 2019 ha realizzato e condotto la trasmissione radiofonica “Sale in zucca” dedicata all’origine dei modi di dire della lingua italiana per l’emittente bolognese Radio Città Fujiko. Ha studiato Lettere Moderne e Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna e per qualche tempo ha vissuto a Londra e Poughkeepsie (NY). Quella dei suoi tre cognomi è una storia lunga quasi quanto la sua firma, ma il sangue blu non c’entra niente!

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Informazione senza filtro

Dietro il cibo c’è molto di più di quanto riportato per legge in etichetta: è tempo di spostare l’attenzione sui grandi volumi e sui grandi numeri e capire i meccanismi dietro alla produzione del nostro pane quotidiano.

Numero 104 - Mangiare per credere


<p>In Italia si comincia a parlarne, ma lei, in Germania, l’ha frequentata vent’anni fa e per questo suo ruolo da pioniera è nota ancor oggi. È la <strong>pastora italo-tedesca Cheyenne Daprà</strong>, la prima donna ad aver seguito la scuola di formazione nazionale per accedere a questa professione, superando l’esame di fine corso che constava in una transumanza nella Foresta Nera. Aveva 27 anni. Con lei un suo compagno di classe, una roulotte, ottocento pecore e un carrettino per caricare gli agnellini nati durante il viaggio.</p>



<p>La sua specialità è la cura e il mantenimento del territorio con le sue pecore, con le quali ha a lungo lavorato per molti Comuni di montagna in Trentino, e allo scadere del mandato nell’amministrazione, spiega, un reimpiego non manca mai, grazie alla sua competenza estesa alla transumanza. Oggi è infatti pastora e “<strong>influencer di gregge</strong>”, come è stata definita su Instagram. Il suo titolo e la sua esperienza, le consentirebbero inoltre di diventare <strong>mastro pastore</strong>, cioè di poter formare altri professionisti del campo. Se ci fosse una scuola nazionale, però, che invece non c’è.</p>



<p>Cosa comporta questo? “È un po’ <strong>come se il nostro mestiere non fosse riconosciuto</strong>”, dice Cheyenne. “Non essendoci una scuola non c’è titolo. Come se fossimo delegittimati, diciamo. Eppure c’è necessità di farlo, e ci sono molti giovani interessati al settore della pastorizia. Inutile dire che il lavoro richiede spirito di sacrificio, per prendersi un po’ di vacanza serve una grande pianificazione perché gli animali hanno bisogno di cibo e cure ogni giorno e necessita quindi un collega che ti sostituisca, ma personalmente non rimpiango niente della mia scelta. Anzi. Mi sento fortunata per aver capito sin da giovanissima quale era il mio lavoro”.</p>



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<h2 id="h-perch-i-giovani-scelgono-la-pastorizia-mestiere-antico-e-necessario">Perché i giovani scelgono la pastorizia, mestiere antico e necessario</h2>



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<p>Un sentire sempre più diffuso, il suo, anche se non sempre altrettanto immediato. Sono infatti numerosissimi i <strong>giovani</strong>, soprattutto donne, che a un certo punto hanno rovesciato il proprio stile di vita. Alcuni di loro hanno una laurea in tasca, hanno lasciato laboratori scientifici all’interno di centri oncologici, hanno abbandonato studi dentistici e di architettura, studi di grafica, centri di bellezza, e sono <strong>passati alla pastorizia</strong>, concentrandosi sempre su specie autoctone.</p>



<p>Hanno scelto la strada delle transumanze o dell’allevamento stanziale, insieme ai coniugi e ai figli che sono nati e cresciuti tra i colori e con i tempi della natura e degli animali. Altri si sono specializzati come allevatori in stabulazione libera al pascolo (cioè allevatori che portano gli animali allo stato brado, per sei mesi in montagna e per altri sei in pianura), o di vacche e capre da alpeggio. O ancora, nella transumanza motorizzata (cioè non a piedi ma attraverso il trasporto con autocarri, pratica cui si è dovuto fare spesso ricorso durante il lockdown per non alimentare assembramenti). C’è poi chi ha scelto l’allevamento bio di alta montagna, chi la produzione del formaggio di malga, chi la transumanza come valore turistico.</p>



<p>Le loro storie, alcune note, altre del tutto inedite, si snodano letteralmente lungo tutto lo stivale, mosse da un’unica forza comune: la passione. Per la terra, per l’ambiente, per gli animali. A volte dietro c’è una storia di tradizione di famiglia; più spesso la voglia di fare <strong>un mestiere cruciale per la sopravvivenza dell’uomo</strong>, eppure in qualche modo ignorato, sebbene mai come nel nostro tempo la ricerca di cibo davvero sano prodotto nel rispetto dei cicli della natura sia spasmodica.</p>



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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Remigio.jpg"><img width="1024" height="647" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Remigio-1024x647.jpg" alt="" class="wp-image-45124" /></a></figure>



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<h2 id="h-da-scienze-alimentari-all-allevamento-in-montagna">Da Scienze Alimentari all’allevamento in montagna</h2>



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<p>“Se soltanto mio marito e io avessimo avuto alcune informazioni dodici anni fa, quando abbiamo cominciato, quanto tempo ed energie avremmo risparmiato”.</p>



<p>Così parla oggi <strong>Laura Masciocchi</strong>, che una dozzina di anni fa, con in tasca una laurea in Scienze Alimentari, è partita dalla sua Varese affacciata sul Lago Maggiore per un tirocinio estivo in un’azienda casearia di montagna. Qui si è innamorata del <strong>formaggio</strong>. Per imparare a farlo si è inscritta all’Università dei Mestieri di Moretta (CN), dove si è innamorata di <strong>Enrico</strong>, diventato suo marito. Ora vive con lui e i loro piccoli, Leandro, di quattro anni e mezzo, e Remigio, di venti mesi, a&nbsp;Pez di Ragoli, piccolissimo centro abitato nelle Valli Giudicarie in Trentino. Uno scampolo di paradiso condiviso con qualche centinaio di abitanti e tanti servizi a misura d’uomo.</p>



<p>La coppia racconta la trasversalità di questa professione, che li vede <strong>pastori ma anche imprenditori agricoli</strong>. “Abbiamo imparato molto negli anni – dice Laura – consultandoci continuamente con quelli che a suo tempo sono stati i nostri professori, e con l’esperienza. Abbiamo ampliato i nostri interessi, oggi abbiamo circa settanta capre, venti pecore da latte e da un paio di mesi anche due mucche, per diversificare e accontentare tutti i nostri clienti. Ma se avessimo potuto aver accesso a tante informazioni prima di ora, ad esempio su come integrare l’alimentazione delle pecore con i mangimi giusti, nei momenti giusti, avremmo potuto produrre latte e formaggio migliori e a costi molto minori da subito”.</p>



<p>Confermano con gioia la loro scelta Laura ed Enrico, che tra la natura e gli animali possono avere ogni pomeriggio i loro figli accanto. Neanche questo mondo incantato, bucolico, si salva però da uno dei grandi mali del nostro Paese: la <strong>burocrazia</strong>. “Servono registratori di cassa elettronici che richiedono per la chiusura una linea internet, non sempre piena tra le nostre montagne”, spiega Laura. “E poi i sistemi di etichettatura, i tanti certificati, i permessi per gli spostamenti. La burocrazia richiede anche a noi tantissimo tempo”.</p>



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<h2 id="h-nicolda-di-niro-cos-abbiamo-preservato-la-pratica-della-transumanza">Nicolda Di Niro: “Così abbiamo preservato la pratica della transumanza”</h2>



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<p>Ancora una volta la salvezza di certe straordinarie eccellenze parte dal basso, come ci dimostra <strong>Nicola Di Niro</strong>, coordinatore del progetto internazionale che ha portato alla candidatura, e poi nel 2019 all’inserimento, della <strong>transumanza</strong> nella lista del <strong>patrimonio culturale immateriale dell’Unesco</strong>.</p>



<p>“Tutto è cominciato – spiega Di Niro – quando nei primi anni del 2000 ho assistito alla transumanza a piedi dell’ultima famiglia molisana che eseguiva questa pratica. Circa quattrocento capi di razza bovina podolica, che transumano dal tavoliere delle Puglie a Frosolone (Isernia) anche grazie alla <strong>prima donna pastore d’Italia</strong> che si è <strong>cimentata in questa pratica</strong>, <strong>Carmelina Colantuono</strong>. Un’icona per noi. Un totale di 180 km in cinque giorni, partendo con l’ultima luna piena di maggio. Un lavoro duro, difficile, specie per coloro che scelgono l’allevamento estensivo, cioè lo stato brado, che per questo va valorizzato, protetto, sottoposto alla passione dei giovani.”</p>



<p>“Attualmente si sono aggiunte al nostro partenariato anche la Francia, la Spagna e altri Paesi, con i quali abbiamo esteso un <strong>piano di salvaguardia</strong> di questa attività, all’interno del quale prevediamo la creazione di una scuola internazionale, principalmente per appassionare le nuove generazioni. Con un programma decennale e un progetto correlato, stiamo cercando di partire dopo la battuta d’arresto a causa del COVID-19. L’anno prossimo dovrebbe essere quello buono.”</p>



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<h2 id="h-la-pastora-carmelina-colantuono-a-questo-mestiere-serve-una-scuola-e-meno-burocrazia">La pastora Carmelina Colantuono: “A questo mestiere serve una scuola. E meno burocrazia”</h2>



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<p>A chiudere il cerchio della nostra transumanza virtuale lungo la pastorizia ai giorni nostri, è proprio quell’iconica <strong>Carmelina</strong>, che con la sua testimonianza rinforza la <strong>necessità di una scuola nazionale normata</strong> e le difficoltà causate dalla morsa della burocrazia.</p>



<p>“Io ci sono arrivata per <strong>tradizione di famiglia</strong> – dice – e francamente non mi sento così tanti meriti quanto mi vengono accreditati, anche se per me è un grande onore. Certamente credo sia necessario aiutare i giovani ad approcciarsi&nbsp;a questo mestiere, chiamandolo prima di tutto col nome giusto: <strong>imprenditore agricolo</strong>, perché si fa davvero di tutto nel nostro mestiere. E poi con una formazione a tutto tondo, comprese le norme veterinarie di base, le tecniche più innovative con le quali è possibile migliorare molto&nbsp;l’allevamento,&nbsp;l’agricoltura.&nbsp;C’è&nbsp;molto da studiare e da apprendere.”</p>



<p>“Quanto alla burocrazia, è davvero molta. Dai permessi ai certificati da chiedere a tutti i Comuni che si attraverseranno durante la transumanza, perché chiaramente non possiamo transitare ovunque. Me ne occupo quasi esclusivamente io. Il carico è tale che, se così non fosse, i miei fratelli e nipoti, con i quali conduco l’azienda,&nbsp;non riuscirebbero a dedicarsi ad attività chiave”.&nbsp;</p>



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<p><em>In copertina Laura Masciocchi con il marito </em></p>


Pastore, femminile plurale


<p>La pandemia ha fatto crescere la richiesta di <strong>informazione documentata sul cibo</strong>: uno dei tanti fenomeni da cui non torneremo più indietro. L’ignoranza che quasi tutti noi abbiamo sui temi alimentari con il lockdown si è fatta, timidamente, consapevolezza. E abbiamo voluto colmare questo buco.</p>



<p>L’informazione documentata non è solo un’informazione verificata attraverso l’incrocio delle fonti, ma è un’informazione che vuole essere di approfondimento; che spiega le premesse scientifiche e tecnologiche di un accadimento o di una tendenza. È un’informazione che parte dalla voglia di apprendere del giornalista.</p>



<p>Con il COVID-19 i cittadini hanno compreso quanto sia importante un’informazione da <strong>fonti affidabili</strong> (non è solo per la chiusura delle edicole che sono cresciuti gli abbonamenti ai quotidiani online). E hanno anche consumato molti più articoli divulgativi scientifici (non solo perché, nei lockdown, avevano tanto tempo per leggere).</p>



<p>La catastrofe sanitaria e la paura si sono portate dietro una <strong>domanda di comprensione scientifica e tecnologica</strong> che riguarda anche i <strong>temi alimentari</strong>. Un’esigenza che non verrà più abbandonata.</p>



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<h2 id="h-il-giornalismo-scientifico-del-cibo-richiesto-quanto-raro">Il giornalismo (scientifico) del cibo, richiesto quanto raro</h2>



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<p>Se i cittadini chiedono più servizi di divulgazione sui temi alimentari significa che un <strong>giornalista che scrive di cibo </strong>non può più limitarsi a “raccontare storie”.</p>



<p>Non basta più andare a visitare un ristorante, un’azienda orticola, una cantina per farsi dire come sono stati fondati, come lavorano e quali prodotti vendono. Quella del raccontare le storie dei prodotti e dei produttori è una frase tipica di presentazione da nuovo inserto di un quotidiano o di un convegno, ma <strong>lo storytelling </strong>(che nessuno ha mai capito davvero che cosa sia) <strong>non basta più</strong>.</p>



<p>In un passato ormai remoto il <strong>giornalismo del cibo</strong> era fatto da pochissimi fortunati che giravano i ristoranti per assaggiare e valutare. I compensi erano più che dignitosi: erano questi i collaboratori delle pagine speciali dei quotidiani e delle riviste che mettevano insieme anche libri, guide, eventi.</p>



<p>Oggi il panorama è affollato di <strong>freelance</strong> che cercano di stare a galla sognando un successo economico e di notorietà che non arriva, nel frattempo vendendo i servizi a costi ridicoli o, ancora più di frequente, pubblicando servizi sui propri siti web creati per promuoversi sul mercato della comunicazione. La scelta cade sempre sulla visita-racconto dell’azienda o del consorzio, dove il giornalista va a “scoprire” un prodotto. Vado, vedo, fotografo, scrivo. Così il web e i quotidiani si affollano di visitatori del cibo che non a caso possono scrivere di vino, salumi, pane e viaggi. A seconda di dove vengono invitati.</p>



<p>Sono davvero pochi i giornalisti che scrivono di <strong>cibo con un taglio scientifico</strong>. Sono pochi i giornalisti che per i loro servizi chiedono di visitare istituti di ricerca agricoli e alimentari, dipartimenti di agraria delle università, organismi a tutela della sicurezza alimentare, politecnici che si occupano di tecnologia del cibo, aziende sementiere che sperimentano nuove varietà… solo per citare alcune possibili fonti del <strong>giornalista divulgatore</strong>.</p>



<p>I cittadini stanno chiedendo un’informazione che spieghi come si coltiva o alleva una materia prima alimentare; come si estrae un ingrediente; come avviene una fermentazione, una distillazione, una caseificazione o come viene macellato un animale e come si frolla la sua carne. Alzi la mano chi legge normalmente articoli sui grandi siti di divulgazione dedicati a come agiscono i batteri sull’alimento scaduto, su come avviene l’uccisione di una vacca per favorire la successiva trasformazione chimica del muscolo in carne attraverso la frollatura. O chi ha letto delle micelle del latte che coagula in formaggio o di come si ottengono le bolle che si formano nel pane.</p>



<p>Un esempio può riguardare la frutta: se si tratta di frutta a marchio tipico si troveranno articoli sull’area geografica, con foto di colline verdi, contadini felici, cassette piene. Ma difficilmente si troveranno spiegazioni sugli innesti o sulle impollinazioni assistite che hanno portato alla selezione di quella varietà.</p>



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<h2 id="h-se-la-formazione-sul-cibo-costa-pi-del-cibo-stesso">Se la formazione sul cibo costa più del cibo stesso</h2>



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<p>Dunque mancano <strong>giornalisti</strong> “<strong>scientifici</strong>” <strong>del cibo</strong>, manca una figura giornalistica che si specializzi nella <strong>divulgazione alimentare</strong> come altri giornalisti si specializzano in sport, cronaca nera, economia, politica locale o nazionale. Una figura che sappia maneggiare agronomia, zootecnia, sicurezza alimentare, tecnologia alimentare ma anche ecologia, fisiologia (del gusto, dell’assimilazione dei nutrienti). Una figura che sia in grado di rispondere alle ansie sul cibo, che sia capace di inserirsi autorevolmente negli scontri tra le tribù del cibo, che non si fermi ai comunicati degli uffici stampa delle aziende e delle associazioni di categoria, ma che sia in grado di tenere testa a questi mondi pur avendoli tra le proprie fonti.</p>



<p>Invece il giornalista che “tiene testa” oggi è un “<strong>giornalista giustiziere</strong>”, una figura inutile anche per i movimenti di opinione che hanno bisogno di informazione verificata e di dati di prima raccolta per poi svolgere la loro funzione nella società. A un’associazione ambientalista non serve l’ennesimo articolo denuncia basato su dati discutibili postati da un’altra associazione ambientalista. Non serve il facile <strong>copia-incolla da comunicato stampa</strong> inserito in un articolo-editoriale.</p>



<p>All’associazione ambientalista, per stare sull’esempio, serve un giornalista che svolga una sua inchiesta, uno che ha un buon rapporto con fonti affidabili e che sia in grado di raccogliere i dati. E soprattutto un giornalista che sappia portare al militante base dell’associazione la conoscenza che altrimenti sta solo dentro le élite scientifiche. <strong>Serve un giornalista formato</strong>.</p>



<p>La formazione costa, è lunga e continua. Un giornalista formato sui temi alimentari deve leggere molto, deve parlare con mondi non sempre aperti alla comunicazione, deve partecipare a convegni specialistici, deve farsi invitare nei viaggi studio riservati, deve coltivare fonti scientifiche pubbliche e private. Questo modo di fare giornalismo costa molto a chi lo pratica e non è compensato da retribuzioni adeguate.</p>



<p>Ma se l’<strong>informazione sul cibo </strong>è un’esigenza sociale, che diventa economica quando i cittadini informati diventano consumatori consapevoli, è giusto che sia <strong>sostenuta dal pubblico</strong>.</p>



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<h2 id="h-la-comunicazione-del-cibo-deve-partire-dalle-scuole">La comunicazione del cibo deve partire dalle scuole</h2>



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<p>La <strong>qualità dell’informazione sul cibo</strong>, nel Paese del cibo, è un tema da Recovery Plan. È un obiettivo di sviluppo per una cittadinanza attiva e per l’immagine dell’Italia nel mondo. Un Paese con un grande cibo esportato in tutto il mondo dovrebbe investire anche nell’informazione alimentare ed esportare con il cibo anche la cultura della conoscenza delle materie prime e delle tecnologie.</p>



<p>Invece ci sono pochissimi master universitari dedicati alla comunicazione alimentare; nei master di giornalismo non viene trattato il giornalismo alimentare. Gli stessi eventi formativi approvati dall’Ordine dei giornalisti quasi non contemplano la materia alimentare.</p>



<p>E pensare che un po’ di <strong>comunicazione del cibo</strong> andrebbe insegnata già alle <strong>superiori</strong>, in quella fascia di età che è presente sui social e che padroneggia il prodotto video. Quando si entra in un istituto alberghiero o agrario invitati dagli insegnanti a parlare di comunicazione si capisce che i ragazzi, sempre connessi e consumatori di intrattenimento social, vorrebbero tanto imparare a gestire in modo professionale un proprio canale di comunicazione, anche in vista di un futuro lavoro nella ristorazione o nella vendita dei propri prodotti agricoli. Ma non hanno docenti e programmi che glielo sappiano insegnare.</p>



<p>Questi ragazzi formati nella comunicazione saranno anche meno vulnerabili nei confronti delle <strong>fake news</strong>, e saranno anche molto interessati a un’informazione di <strong>approfondimento</strong>. Una passione per la documentazione che potranno trasmettere anche ai loro clienti.</p>



<p>Serve quindi la mano del pubblico nelle università, nelle scuole, nei media. L’informazione scientifica, sanitaria e alimentare devono essere sostenute. Se è vero che l’informazione in sé è “bene comune”, ancora di più questo vale per l’informazione che avvicina i cittadini alla scienza, sconfigge l’antiscienza e il negazionismo, combatte l’alimentazione da sottrazione e le false credenze sui cibi.</p>



<p>Dopo la pandemia un sostegno alla formazione, alle testate, al <strong>ruolo dei giornalisti nelle scuole e nelle università</strong> è esigenza irrinunciabile.</p>



<p></p>



<p><em>In copertina Foto di Colin Maynard su Unsplash</em></p>



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Giornalista, dimmi come mangio. L&#8217;informazione sul cibo di cui abbiamo bisogno

<p>Bastano cinque colori e cinque lettere per dividere l’Europa, e l’Italia, in materia di cibo. Sono quelli che compongono il cosiddetto <strong>Nutri-Score, il sistema di etichettatura francese </strong>da qualche mese al centro di un acceso dibattito internazionale, e non solo.</p>
<p>Motivo del contendere, la possibilità che proprio il Nutri-Score venga eletto come schema “frontale” (in inglese “FOPL”, acronimo di <em>Front-Of-Pack Labeling</em>) unico a livello europeo, in aggiunta alle informazioni nutrizionali obbligatorie già presenti sul retro della confezione.</p>
<p>Tra le ragioni di favorevoli e non ci sono gli interessi dei consumatori e la necessità di orientarne correttamente le scelte d&#8217;acquisto verso un regime alimentare sano.</p>
<p>Anche <strong>l’Italia, formalmente contraria</strong> al Nutri-Score e già autrice di una proposta alternativa in sede europea, è attraversata dalle medesime questioni, a cui si aggiungono i timori per le conseguenze economiche che questo sistema potrebbe avere sul Made in Italy e sulla filiera produttiva.</p>
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<h2 id="h-nutri-score-che-cos-e-perch-l-italia-si-oppone-al-sistema-francese">Nutri-Score: che cos’è e perché l’Italia si oppone al sistema francese</h2>
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<p>Formulato nel 2017 dagli epidemiologi francesi <strong>Serge Hercberg</strong> e <strong>Chantal Julia</strong>, il Nutri-Score calcola il valore nutrizionale di alimenti e bevande sulla base di fattori negativi come calorie, zuccheri, grassi saturi, sodio e caratteristiche positive (contenuto di frutta e frutta secca, verdure, fibre e proteine) per 100 grammi di prodotto. Il risultato è <strong>un punteggio che combina lettere e colori</strong>: dalla A verde scuro (“più salutare”) alla E rossa (“meno salutare”).</p>
<p>Fortemente auspicato da colossi industriali come Danone e Nestlé, il Nutri-Score è già stato adottato da Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania e Spagna (anche se oggi appare meno sicura) che, supportati da numerosi studi sul campo, ne difendono l’efficacia e la facilità di interpretazione.</p>
<p>Proprio quest’ultimo è l’aspetto maggiormente criticato da rappresentanti politici e portavoce dell’imprenditoria agroalimentare italiani. “Il Nutri-score è un bigino dell’alimentazione”, afferma <strong>Lorenzo Bazzana</strong>, responsabile economico di Coldiretti, che reputa la sintesi grafica proposta dall’etichettatura francese “profondamente sbagliata e fuorviante per il consumatore”. La valutazione così formulata, su una quantità standard di 100 grammi invece che su quella effettiva della confezione, finirebbe infatti per condizionare erroneamente i comportamenti d’acquisto. “A nessuno verrebbe in mente di scolarsi una bottiglia di olio extravergine di oliva”, prosegue, “ma se mi trovo un bollino rosso (<em>in quanto grasso vegetale, N.d.R.</em>) sono comunque meno propenso a comprarlo”.</p>
<p>E questo vale anche nel caso contrario: l’indicazione verde senza ulteriori specifiche potrebbe indurre a un <strong>consumo eccessivo e reiterato</strong>, con ricadute sulla salute dei singoli e, in ultimo, sull’industria alimentare.</p>
<p>“Questo è dannoso dal punto di vista dell’educazione del consumatore, che così viene indirizzato in modo semplicistico ed errato”, precisa <strong>Ivano Vacondio</strong>, presidente Federalimentare, “ma anche da quello delle aziende che potrebbero ritrovarsi a perdere fatturato sulla base di un indirizzo sbagliato. <strong>Chi vuole il Nutri-Score, del resto, ha anche interessi economici</strong>: vuole spingere determinati prodotti a discapito di altri, come per esempio le nostre eccellenze, famose e apprezzate in tutto il mondo”.</p>
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<h2 id="h-chi-ha-paura-di-nutri-score-escludere-i-prodotti-dop-e-igp-dall-etichettatura">Chi ha paura di Nutri-Score: escludere i prodotti DOP e IGP dall&#8217;etichettatura</h2>
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<p>Secondo il resoconto Ismea sugli scambi con l’estero, nonostante la pandemia, nel<strong> 2020 l’agroalimentare italiano </strong>ha superato i<strong> 46 miliardi di fatturato</strong>, contando per l’11% sulle esportazioni complessive nazionali. Tra i prodotti di punta anche la pasta di semola (+20%), le conserve di pomodoro (+9,7%), mele e uva da tavola (entrambe rispettivamente con un +13%), kiwi (+2,4%) e olio di oliva (+6,4%).</p>
<p>“L’etichetta Nutri-Score colpirebbe ingiustamente quasi l’85% della produzione italiana a denominazione di origine (DOP/IGP), che l’Europa è invece chiamata a tutelare” fa sapere Confeuro in un recente comunicato stampa.</p>
<p>Linea condivisa anche da chi, quella speciale produzione italiana, in parte la rappresenta. Risale allo scorso aprile la sottoscrizione di <strong>Alessio Mammi</strong>, assessore all’Agricoltura dell’Emilia-Romagna, alla raccolta firme “Semaforo rosso per il cibo Made in Italy? NO GRAZIE!” lanciata su Change.org.</p>
<p>“Etichettare prodotti di eccellenza come il ‘re dei formaggi’ o il prosciutto di Parma con un bollino rosso come se fossero cibi che mettono a rischio la salute è una vera e propria assurdità”, si legge sul sito della regione. Una regione che, da sola, vanta più di quaranta prodotti a marchio DOP o IGP.</p>
<p>Tra le ipotesi al vaglio per la tutela di queste categorie di alimenti c’è anche quella di <strong>escluderle del tutto dalla classificazione Nutri-Score</strong>, così come dall’alternativa italiana realizzata in risposta all’etichetta francese.</p>
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<h2 id="h-nutrinform-battery-l-alternativa-italiana-che-non-convince-le-associazioni-dei-consumatori">Nutrinform battery: l’alternativa italiana che non convince le associazioni dei consumatori</h2>
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<p>Si chiama <strong>Nutrinform Battery</strong> la controproposta sviluppata dal Governo italiano e presentata a gennaio 2020 alla Commissione Europea, dove ha raccolto il parere positivo di Romania, Repubblica Ceca, Cipro, Grecia e Ungheria. </p>
<p>Il simbolo che la contraddistingue è, come dice il nome, <strong>una batteria azzurra, ripetuta cinque volte</strong>: una per ognuno dei valori nutrizionali riportati, ovvero calorie, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale. La “carica” della pila, ovvero la quantità di energia o nutrienti contenuti, è espressa in percentuale in relazione alle assunzioni di riferimento europee e relativamente alla singola porzione. Gli stessi valori sono inoltre riportati in grammi per ciascuno dei cinque box.</p>
<p>Troppo ricca per dare una panoramica d’insieme immediata, senza indicatori cromatici chiari; troppo ambigua l’icona della pila che, contrariamente a quanto siamo abituati a pensare, in questo contesto più è carica e peggio è; troppo variabile il calcolo sulle singole porzioni di prodotto per consentire un paragone efficace, se non a seguito di un rapporto proporzionale che difficilmente l’acquirente si troverà a fare nel supermercato. Questi <strong>i dubbi di Altroconsumo, che boccia il sistema italiano</strong> ed è tra i primi ad aver siglato, insieme a oltre quattrocento esponenti internazionali di altre organizzazioni dei consumatori e della comunità scientifica, l’appello per l’implementazione del Nutri-Score indirizzato ai vertici europei lo scorso anno.</p>
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<h2 id="h-la-soluzione-un-etichetta-completa-e-tanta-educazione-alimentare">La soluzione? Un’etichetta completa e tanta educazione alimentare</h2>
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<p>Tra i firmatari dello stesso appello c’è anche <strong>Annamaria Colao</strong>, endocrinologa e titolare della Cattedra Unesco Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli, che avverte: “Da medico devo fare una premessa: <strong>ci stiamo avvicinando a grandi passi verso un mondo obeso</strong>, già a partire dall’infanzia”. I dati lo confermano: l’OMS ha stimato che nel 2016 il 39% della popolazione adulta mondiale era sovrappeso, con 650 milioni di persone obese. Numeri triplicati nel giro di quarant’anni.</p>
<p>“Questo”, prosegue Colao, “è un <strong>problema</strong> non solo di salute, ma <strong>economico e sociale</strong>”. L’obesità, spiega, incide in ogni aspetto della vita, compresi quelli professionali: “Si tratta di pazienti che lavorano con disagio perché hanno un’occupazione dello spazio diversa rispetto a un individuo magro, si muovono con difficoltà, fanno fatica ad andare a un teatro o a un cinema perché a volte la sedia gli è scomoda, e così via”.</p>
<p>Per questo è importante <strong>definire un sistema </strong>verificato che aiuti il consumatore nelle sue<strong> scelte alimentari</strong>, almeno quando va a fare la spesa. Il limite principale di Nutri-Score, a suo parere, è lo stesso evidenziato da chi gli si oppone: una sintesi eccessiva che rischia di non tenere conto di aspetti qualitativi importanti. Anche Colao cita l’esempio dell’olio d&#8217;oliva e la necessità di dare indicazioni che evitino sia il suo abuso, sia la sua totale eliminazione dalla dieta, comportamenti parimenti nocivi per la salute di chi lo consuma. E puntualizza: “Io ho firmato la petizione per chiedere che venisse formato un gruppo di lavoro a livello europeo sul tema del Nutri-Score, per svilupparlo ulteriormente in una versione evoluta e completa di tutte le informazioni che attengono a un regime alimentare bilanciato”.</p>
<p><strong>Una rete di professionisti della nutrizione</strong>, dunque, che a suo parere dovrebbe comprendere medici, ricercatori e anche economisti e istituzioni, <strong>ma non l’industria alimentare</strong>, perché, dice, “quando dietro a questi sistemi c’è qualcuno che potrebbe guadagnarci, il conflitto di interessi è troppo elevato per essere calcolato”. Certo, la salute dei consumatori deve rimanere il principio guida, “ma potendo”, chiosa Colao, “eviterei eventuali ingerenze ambigue al tavolo progettuale”.</p>
<p>Se l’adozione dell’una o dell’altra etichetta rimane un tema divisivo, ce n’è uno su cui appaiono tutti concordi: la necessità di un <strong>programma di educazione alimentare sofisticato</strong> e multilivello, capace di fornire gli strumenti giusti per una scelta che va ben oltre il carrello del supermercato.</p>
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<p><em>Foto di copertina di Imants Kaziļuns su Unsplash</em></p>


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Nutri-Score, l&#8217;Italia passa col rosso al semaforo del cibo

Il sistema di etichettatura di origine francese ha diviso l&#8217;Europa, con l&#8217;Italia che rischia di vedere danneggiati alcuni prodotti di punta. Vediamo come funziona l&#8217;etichetta della discordia e quali sono le opinioni a favore e contro il suo impiego.

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seven


<p>Nella contemporaneità parlare di cibo vuol dire intraprendere un discorso multiforme, estremamente sfaccettato, con più livelli intrecciati e interconnessi fra loro. Il nostro rapporto con quanto mangiamo, infatti, è mutato in maniera profonda: da semplice alimento funzionale alla sopravvivenza, <strong>il cibo si è fatto vero e proprio elemento comunicativo </strong>i cui messaggi possono avere significati e rimandi dal segno assai variegato.</p>



<p>La chiave di questa trasformazione è stata, senza alcun dubbio, la sua <strong>mediatizzazione</strong>, iniziata dalla televisione e poi esplosa attraverso i media digitali. Un discorso che investe piani diversi, anche a seconda del medium su cui è espresso.</p>



<p>Tutto questo proliferare mediale di argomenti e discussioni, divenuto un vero e proprio fenomeno socioculturale, ha assunto il nome di <strong>gastromania</strong>. Ed è nel quadro di quest’ultima che va iscritto quello, più conosciuto, del <em>food porn</em>. Per rendere l’idea: mentre sto scrivendo, l’omonimo hashtag conta su Instagram più di 264 milioni di post. È palese quindi come i social, attraverso la rottura del confine fra sfera pubblica e privata, siano il cavallo trainante del discorso mediale attorno e attraverso il mangiare.</p>



<p>Se però vogliamo analizzare davvero la presenza del cibo sui media inquadrando la questione nella sua complessità e non restando sulla superficie del primato numerico dei social, dobbiamo parlare di fenomeno transmediale.</p>



<p>Ma che cos’è la <strong>transmedialità</strong>? Lo abbiamo chiesto a <strong>Giovanni Boccia Artieri</strong>, sociologo ed esperto dei nuovi media, professore ordinario di Sociologia dei Processi Culturali all’Università di Urbino “Carlo Bo”.</p>



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<h2 id="h-come-la-presenza-transmediale-ha-allargato-il-pubblico-dei-personaggi-del-food">Come la presenza transmediale ha allargato il pubblico dei personaggi del food</h2>



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<p>“La transmedialità è la capacità di creare una <strong>narrazione unitaria</strong> che, però, attraversa <strong>media diversi</strong>. Chi incontra tale narrazione in un medium la può seguire da altre parti, ma chi dovesse farlo solo attraverso uno, ad esempio la televisione, fruirebbe comunque di un certo tipo di contenuto attinente.”</p>



<p>“Il fatto che un tema sia transmediale significa che più la persona ne è interessata, più è possibile per lei trovare su media diversi approfondimenti che arricchiscono la sua esperienza sulla narrazione di quel dato argomento.Per fare un esempio pratico: la transmedialità non è il trasporre un libro in un film, ma si realizza quando una parte o un personaggio poco particolareggiati di un film trovano la loro esplosione di approfondimento su un altro medium, come una serie web o un fumetto.”</p>



<p>Arriviamo quindi al punto: “La presenza transmediale dei <strong>personaggi che attraversano il mondo food</strong> (o food and wine) oggi è diventata particolarmente significativa. A livello mediale abbiamo vere e proprie personalità inizialmente famose nella letteratura più specializzata, in quanto ristoratori o cuochi, che in seguito assumono un volto per il largo pubblico attraverso i programmi di cucina, per poi successivamente approfondire i propri progetti su Instagram, con video su TikTok o YouTube. Questi personaggi, quindi, si raccontano lasciando degli spazi su media diversi: ciò permette a un pubblico più diversificato e allargato di affezionarsi, avvicinarsi, imparare”.</p>



<p>Vengono in mente tantissimi casi che raccontano proprio quanto illustrato dal professor Boccia Artieri. La sostanza è il <strong>rimando fra un media e l’altro</strong>, il gioco di riflessi che fa da cassa di risonanza, con il tema cibo che prende forma mutevole ma nello stesso tempo coerente, espandendosi a seconda del mezzo di comunicazione che occupa in quel momento.</p>



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<h2 id="h-stefano-losani-i-libri-di-cucina-bestseller-trainati-dalla-tv">Stefano Losani: “I libri di cucina, bestseller trainati dalla TV”</h2>



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<p>Vogliamo dedicare un focus particolare a un medium: <strong>l’editoria</strong>, analizzando quale sia la sua voce nel discorso transmediale sul cibo.</p>



<p>Ne parliamo con <strong>Stefano Losani</strong>, direttore commerciale de La Nave di Teseo, Baldini+Castoldi e Oblomov Edizioni. Negli ultimi anni, Baldini+Castoldi ha pubblicato i libri dei vincitori di Masterchef.</p>



<p>“In Italia il discorso sul cibo è importante e caratterizzato da estrema conoscenza e qualità nell’approccio ai volumi dedicati. L’editore sceglie di pubblicare un libro derivato da un cookie show per tanti fattori: al centro c’è la possibilità di business, perché storicamente <strong>i libri legati alla cucina hanno sempre avuto successo</strong>, intercettando un pubblico ampio. Negli ultimi quindici anni la televisione ha attivato e accelerato il meccanismo di vendita: i fenomeni derivati da questo medium sono sempre più presenti in libreria e più acquistati, perché collegati spesso a un pubblico di non lettori abituali o di persone che leggono poco, ma che, seguendo la trasmissione televisiva, il talent o altro, sono invogliati a comprare il libro per provare a realizzare a casa le ricette che hanno visto.”</p>



<p>Lo stesso fenomeno vale anche per <strong>autori derivati dai social</strong>? “Attualmente, i <strong>food blogger</strong> su Instagram stanno crescendo molto, anche in termini di vendite. I social sicuramente aiutano, ma di solito sono collegati direttamente al fenomeno televisivo; gli <strong>YouTuber</strong> e i soggetti che hanno un grande seguito sono interessanti, ma l’effetto creato dalla tv la fa ancora da padrone”.</p>



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<h2 id="h-l-editoria-sul-cibo-che-rincorre-i-tempi-della-tv">L’editoria sul cibo che rincorre i tempi della TV</h2>



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<p>Il cuore della questione che ci poniamo è se il libro di cucina conservi una voce diversa, attraverso la propria specificità, anche nel contesto transmediale. “Assolutamente sì: l’oggetto libro ha un valore assoluto, da sempre”, ci dice Losani. “<strong>In Italia tutti desiderano pubblicare</strong>: c’è questa voglia di avere il proprio nome stampato sulla copertina. L’oggetto libro dà un valore in più al personaggio: chi arriva a pubblicarlo ha raggiunto una consacrazione e uno status”.</p>



<p>Andando più nello specifico, viene da domandarsi quanta “vita” abbiano questi volumi derivati da trasmissioni dedicate alla cucina: se soffrono l’essere legati a una sorta di stagionalità, oppure beneficiano di un ritorno retroattivo all’uscita della nuova serie.</p>



<p>“In generale, negli anni,<strong> i progetti hanno vita sempre più breve</strong>: ciò è legato alle dinamiche di rotazione all’interno delle librerie. Alcuni fenomeni, vedasi Masterchef, addirittura ne hanno una brevissima: l’editore deve cercare di intercettare il pubblico nell’immediatezza della programmazione o della finale, mentre altri – come Benedetta Parodi o Benedetta Rossi – che ormai hanno un seguito consolidato e ogni anno fanno una nuova trasmissione, quando esce l’ultimo libro riattivano anche le vendite del precedente. Va sottolineato che questo è strettamente legato alla presenza dell’autore-personaggio sui media: l’editore, infatti, decide di <strong>pubblicare nel periodo</strong> in cui l’autore ha la <strong>massima visibilità in televisione</strong>. Le due cose, quindi, sono strettamente collegate.”</p>



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<h2 id="h-editoria-e-cibo-un-connubio-cartaceo-destinato-a-durare">Editoria e cibo, un connubio (cartaceo) destinato a durare</h2>



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<p>A Stefano Losani chiediamo anche il rovescio della medaglia: ossia se, vista la grande pervasività del discorso sul cibo, esista il rischio di <strong>saturazione</strong> di pubblicazioni dedicate.</p>



<p>“Credo di no, proprio per l’ampiezza del tema, che specie in questi ultimi anni è andato a collegarsi a tanti altri aspetti, come ad esempio l’ecologia e la sostenibilità. Penso che molto stia alla bravura dell’editore nel far emergere dai libri la personalità di chi li scrive.”</p>



<p>Ma perché un editore generalista sceglie di parlare di cibo? “L’editore è un’azienda che deve guardare anche all’aspetto economico, e visto che c’è un pubblico che vuole leggere questi libri deve colmare questa richiesta. Esiste, però, anche <strong>l’aspetto culturale</strong>: infatti si decide sempre più di pubblicare testi che spieghino un dato rapporto con il cibo e un certo tipo di alimentazione. Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza e il <strong>voler capire cosa mangiamo</strong>, in modo da farlo ancora meglio. Il discorso sul cibo spazzatura in Italia è superato, l’editore pubblica ciò che parla di alimentazione di una certa qualità. Non a caso, infatti, il fenomeno che vende di più (ossia Benedetta Rossi) va nella direzione della tradizione, del chilometro zero, di una cucina casalinga facile e accessibile a tutti.”</p>



<p>Un ultimo interrogativo riguarda la resa di questi libri in formato digitale, in cui grafiche e fotografie sono parte fondamentale. “Partendo dal presupposto che <strong>in Italia il mercato digitale vale poco</strong>, circa il 6% rispetto al cartaceo, il lettore digitale legge in prevalenza con il device Kindle, che è a inchiostro elettronico, cosa che penalizza le fotografie. Noi editori realizziamo anche il supporto digitale per questi testi, allo scopo di dare completezza al progetto, ma senza presunzione di farne business, perché l’oggetto fisico libro è insuperabile sui volumi di cibo e cucina.”</p>



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<h2 id="h-le-potenzialit-e-il-futuro-del-cibo-transmediale">Le potenzialità e il futuro del cibo transmediale</h2>



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<p>Torniamo dal professor Giovanni Boccia Artieri per chiedergli se ai suoi occhi di studioso esista un fenomeno transmediale legato al cibo che lo abbia particolarmente colpito.</p>



<p>“Una cosa interessante, emersa durante il periodo del lockdown, è il fatto che il cibo sia stato un elemento di traino per mettere in connessione l’isolamento con la possibilità d’acquisto. Faccio riferimento a tutte le app che hanno lavorato sul <strong>delivery non banale</strong>, come Too good to go, che a fine giornata permette di vedere se un bar o un piccolo supermercato della propria zona mettono a disposizione qualcosa che è rimasto, vendendolo a molto poco, oppure attraverso una box a sorpresa tematica. Si tratta di qualcosa che permette di lavorare su più dimensioni: quella del territorio, del delivery, dello spreco e del risparmio. E poi è una forma di transmedialità, perché si passa da un’app che fa delle offerte, che hanno anche un elemento giocoso, per lavorare sul concetto di alimento elaborato e su quello di alimentazione. Magari non scegli tu, ma ti lasci sorprendere: con la box oppure perché, guardando tra le offerte, scegli qualcosa di inconsueto o particolare.”</p>



<p>Terminiamo la nostra riflessione provando a pensare al futuro: se questo meticciamento mediale continuerà o se è impossibile prevederlo, data la liquidità dei nostri tempi.</p>



<p>“È evidente che oggi qualsiasi tipo di narrazione nasce per sua vocazione come transmediale, perché ha a che fare con l’esigenza di raggiungere e toccare emotivamente pubblici diversi. Credo che nel futuro la promozione mediale di stampo tradizionale, quella che passa attraverso la tv con cooking show o gare e reality, si incrocerà sempre di più con le persone che sanno raccontarsi online, fare video o realizzare un piatto, e che poi diventano vere e proprie star. Quindi: il fenomeno della <strong><em>celebrification</em></strong>, unito a quello della <strong>produzione mediale</strong>, condurrà a un lavoro sempre più forte sulla transmedialità.”</p>



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Cucina transmediale, tutti la apprezziamo e non lo sapevamo

Secondo uno studio Istat riferito al 2018, tre <strong>imprese</strong> su quattro sono <strong>controllate da una persona o da una famiglia</strong>: esse rappresentano il 75,2% delle unità produttive italiane con almeno tre addetti (ovvero più di 770.000) e il 63,7% di quelle con dieci addetti e oltre (più di 135.000 imprese).

“Un primo elemento da chiarire è che cosa si intende per <strong>impresa familiare</strong>, perché nel gergo comune il termine spesso viene confuso con quello di piccola-media impresa. In realtà un’impresa è familiare quando la proprietà è nelle mani di una famiglia, nelle mani di persone che oltre a essere <strong>soci in affari</strong> sono anche legati da <strong>rapporti di parentela</strong>. Questo significa che le imprese familiari possono essere sia di piccole che di medie e grandi dimensioni.”

La spiegazione è del professor <strong>Salvatore Sciascia</strong>, che è ordinario di Economia Aziendale presso l’Università Cattaneo LIUC di Castellanza (VA) e co-direttore di FABULA, il Family Business Lab, e coordina un percorso della laurea triennale in Economia Aziendale dedicato al <strong>family business management</strong>.
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Intervistato-Norman.jpg"><img class="wp-image-45260" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/Intervistato-Norman-1024x924.jpg" alt="" width="1024" height="924" /></a><figcaption><strong>Salvatore Sciascia</strong>, professore ordinario di Economia Aziendale presso l’Università Cattaneo LIUC di Castellanza</figcaption></figure>
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<h2 id="h-le-imprese-familiari-hanno-bisogno-di-apertura">Le imprese familiari hanno bisogno di apertura</h2>
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Il professore prosegue spiegando che “le imprese familiari sono in tutto il mondo e in quasi tutti i settori: quello <strong>alimentare</strong> è un settore in cui abbondano e forse c’è un perché – come del resto accade anche nel settore dell’hospitality: il motivo è che agli occhi del cliente la presenza della famiglia dietro le quinte rappresenta un elemento di grande valore. Il cliente tende a fidarsi se conosce nome e cognome dei proprietari: il food &amp; beverage è il regno delle imprese familiari, e in particolare di chi fa del nome della famiglia un vero e proprio brand.”
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<strong>Quanto sono importanti le aziende familiari italiane a livello strategico in Italia?</strong>

Studiare le imprese familiari significa studiare una grande fetta della nostra economia e le relazioni tra famiglia e impresa, le due istituzioni che convivono nell’impresa familiare generando una strana alchimia. È fondamentale stabilire delle regole e dei meccanismi all’interno delle imprese familiari che consentano di valorizzare, di rendere virtuosa la spinta socio-emozionale. Regole e meccanismi di governance impediscono alla famiglia di sfruttare l’impresa, di approfittare della propria impresa mettendo i propri interessi davanti a quelli degli altri stakeholder. In un’impresa familiare priva di regole può accadere che ad esempio un genitore faccia entrare in azienda, fino ad assegnare ruoli di leadership, un figlio che magari non è la persona giusta per quel tipo di ruolo. Attenzione, tutto ciò accade nella massima buona fede, in un’ottica altruistica: l’azienda è mia, decido io e favorisco una persona a cui voglio bene. Ma in questo modo non fai gli interessi di tutti gli altri stakeholder, proprietà compresa, perché un leader sbagliato porterà a risultati economico-finanziari insoddisfacenti. Al contrario, ci sono situazioni in cui la spinta socio-emozionale è benefica: le famiglie imprenditoriali in molti casi sono capaci di mettere i propri interessi in secondo piano e favorire quelli degli altri stakeholder.

<strong>Qual è l’impresa familiare ideale a suo avviso?</strong>

L’impresa familiare ideale è quella che di generazione in generazione non si limita a sopravvivere, non si limita alla longevità, ma cerca di accrescere il proprio valore, sia economico sia sociale. Una ricetta che può essere valida per tutte le imprese familiari c’è, e ha diversi ingredienti. Il primo è quello di adottare strumenti di governance, come già detto. Il secondo è quello di sostenere un approccio imprenditoriale mantenendo viva nel tempo la fiamma della creatività e dell’innovazione. Il terzo è quello di non focalizzarsi su un unico business, ma cercare di essere presenti anche in qualche business adiacente, creando un portafoglio di investimenti sinergici. Infine l’apertura: non mi riferisco solo all’affidarsi all’aiuto di persone esterne alla famiglia come consulenti, ma anche all’importanza di aprire il management, il CdA e perfino la proprietà. Fuori dalla famiglia si possono trovare risorse nuove e complementari, spesso decisive. Su questo purtroppo l’Italia è culturalmente indietro e questo può spiegare parte del ritardo della nostra economia.

<strong>Le nuove generazioni rispetto alle vecchie sono più lungimiranti, secondo lei?</strong>

Sì, per certi versi e in molti casi, perché sono più orientate all’apertura del management e del capitale, cioè alle fusioni e alle acquisizioni: speriamo che valorizzino il passato, proiettati saldamente verso il futuro.
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<h2 id="h-amaro-lucano-un-angolo-di-basilicata-a-gestione-familiare-a-milano">Amaro Lucano, un angolo di Basilicata a gestione familiare a Milano</h2>
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Un’azienda familiare italiana nel settore del food &amp; beverage è <strong>Lucano 1894</strong>, impresa fondata a Pisticci nel 1894 da Pasquale Vena, che insieme a suo fratello Giuseppe aprì lo stabilimento in terra lucana dopo un’esperienza come garzone a Napoli in una nota pasticceria.

Incontriamo <strong>Leonardo Vena</strong> negli uffici di Lucano 1894 a Milano. Però tutto quello che c’è a Milano, una volta entrati, richiama volutamente la Basilicata: le tegole sulla parete all’ingresso, che sono tipiche dei tetti spioventi delle case di Pisticci, e ancora marmo e legno sul bancone da bar, materiali anch’essi evocativi del territorio lucano.

“Oggi Lucano 1894 conta circa cinquanta dipendenti tra l’headquarter di Milano, gli stabilimenti di Pisticci Scalo e di Vico Equense – dove si produce la Limoncetta di Sorrento – e i flagship di Matera e Pisticci.”

Insieme a Leonardo Vena, consigliere delegato del Gruppo Lucano, nell’azienda di famiglia c’è anche suo fratello <strong>Francesco</strong>, avvocato e consigliere delegato; e poi <strong>Letizia</strong>, che in azienda ricopre il ruolo di brand manager. Al vertice dell’impresa di famiglia <strong>Pasquale Vena</strong>, direttore, affiancato dalla moglie <strong>Rosistella Provinzano Vena</strong>, anche lei nel consiglio di amministrazione.
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<figure class="wp-block-image size-large"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/FamigliaVena.png"><img class="wp-image-45300" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2021/06/FamigliaVena-1024x684.png" alt="" width="1024" height="684" /></a></figure>
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<h2 id="h-leonardo-vena-amaro-lucano-in-azienda-come-in-famiglia-socio-e-manager">Leonardo Vena, Amaro Lucano: “In azienda come in famiglia, socio e manager”</h2>
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Abbiamo dialogato con Leonardo Vena su alcuni temi emersi dall’intervista con il professor Sciascia, e ci ha confermato diversi aspetti importanti sottolineati dal docente sulle aziende familiari come la loro, giunta alla quarta generazione, di cui occorre tenere conto.

“Il nostro punto di forza risiede nella velocità con cui siamo abituati a prendere decisioni, oltre che ad avere una forte flessibilità e dinamicità. Far coesistere all’interno di un’impresa familiare, allo stesso tempo, l’azienda e la famiglia; esserne un socio, esserne un manager e lavorare a stretto contatto con i tuoi collaboratori, che vanno rispettati per il lavoro che fanno. Da un lato c’è una spinta che è data non solo dal lavoro, ma anche dal sentimento che ci lega a questa azienda.”

Il <strong>2020</strong> è stato di certo un anno critico per diverse realtà d’impresa. Lo è stato anche per la vostra impresa familiare? “In base ai codici ATECO, la nostra produzione durante la pandemia non si è mai fermata. Invece, se penso allo <strong>smart working</strong>, erano tre anni che ne discutevamo, e con la pandemia siamo riusciti a realizzarlo in una settimana. Oppure <strong>il nostro primo e-commerce</strong>, che sempre durante questo periodo abbiamo sviluppato e messo a punto in un mese esatto. Sono state scelte dettate da situazioni di necessità che aziende più grandi e più lungimiranti di noi avevano già realizzato prima della pandemia, mentre noi ci siamo mossi solo dopo l’emergenza, quando ormai non si poteva più rimandare. È su questo che dobbiamo e possiamo migliorare”.

Tradizione, innovazione, storia e futuro si intrecciano nelle imprese familiari, che proseguono l’attività di famiglia verso un futuro sempre più incerto e competitivo. Questa è la grande sfida del futuro per le imprese familiari italiane, unite nel tenere insieme due mondi: quello imprenditoriale e quello familiare. Una doppia sfida che continua.
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Aziende alimentari, quando il manager è uno di famiglia

<p>“Ci sono le donne”: si dice così nel gergo dell’industria alimentare quando si vuole indicare la fase di cernita, selezione e confezionamento di frutta e verdura nella linea produttiva.</p>
<p>Un processo che, come spiega <strong>Alessandra Ravaioli</strong>, presidente dell’Associazione nazionale Donne dell’Ortofrutta, per tradizione è affidato in larga parte alla compagine femminile impiegata nella filiera agroalimentare.</p>
<p>Qui le<strong> donne</strong>, che rappresentano quasi il 70% della forza lavoro secondo i numeri dell’Associazione, “giocano un ruolo chiave, soprattutto in quanto deputate alle attività di<strong> controllo qualità</strong>, probabilmente in virtù dell’attenzione particolare che hanno per questo aspetto”. Un atteggiamento e un approccio al prodotto che, secondo Ravaioli, rivela la capacità specialmente femminile di empatizzare con il consumatore finale: un vantaggio per chi acquista e per l’industria stessa, che si trova a commercializzare materie prime Made in Italy di alto livello.</p>
<p>Specialmente femminile sì, ma non unicamente, perché proprio gli <strong>stereotipi</strong> rischiano di essere controproducenti, e “la competenza – prosegue Ravaioli – va rivendicata a prescindere dal genere”.</p>
<p>Eppure, guardando ai due estremi della filiera, non è sempre facile ritrovare l’applicazione di questo principio: a monte, <strong>ai tavoli istituzionali, la presenza delle donne si dirada</strong>, col rischio di perdere di vista alcune questioni cruciali per le lavoratrici; mentre a valle la manodopera femminile – così come quella maschile – assume spesso i connotati dello sfruttamento e della discriminazione, aggravati da violenze a sfondo sessuale.</p>
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<h2 id="h-le-braccianti-discriminate-al-sud-come-al-nord">Le braccianti, discriminate al Sud come al Nord</h2>
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<p>Di questi fatti sono testimoni alcuni recenti reportage sulla condizione di schiavitù in cui versano le lavoranti indiane dell’Agro Pontino o le <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/emancipazione-e-sfruttamento-sanno-di-fragole/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">braccianti dedite alla raccolta di fragole</a>, pomodori e frutti rossi di Spagna, Marocco e Sud Italia.</p>
<p>L’indagine (realizzata da CREA insieme al Mipaaf nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale 2014-2020&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp; nell’arco ionico, un territorio a elevato rendimento agricolo tra la Puglia, la Basilicata e la Calabria) rivela la presenza di <strong>22.702 donne impegnate nell’agricoltura, di cui 5.901 straniere </strong>(26%). Di queste, oltre il 76% proviene da Paesi dell’Unione europea (soprattutto Romania e Bulgaria), per un’incidenza pari al 20% sulla manodopera comunitaria nell’area.</p>
<p>E tuttavia, le stime effettuate sulle giornate lavorative in rapporto agli ettari coltivati risultano superiori ai dati ISTAT e INPS sulla disponibilità di manodopera familiare ed extrafamiliare, a conferma del fatto che qui <strong>gran parte del lavoro non viene regolarizzato</strong> o non raggiunge i livelli minimi per l’accesso a misure di welfare basilari.</p>
<p>A mancare in questo pezzo di filiera è la dignità delle lavoratrici, non solo straniere: a cominciare dalla retribuzione e dalle condizioni di vita e lavoro, per finire con i servizi di prima necessità e supporto. Una lacuna, quest’ultima, che accomuna anche alcune delle imprenditrici agricole del nord.</p>
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<h2 id="h-le-imprenditrici-agricole-lavorano-in-campagna-in-casa-e-in-famiglia">Le imprenditrici agricole lavorano in campagna, in casa e in famiglia</h2>
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<p>Secondo i dati ISTAT, solo il <strong>31% circa delle cariche imprenditoriali</strong> del settore primario è <strong>ricoperto da donne</strong>. Alla disparità numerica si aggiunge il dato anagrafico: il segmento agricolo conta su una popolazione piuttosto matura (il 70% dei titolari ha più di 50 anni) con una buona percentuale di aziende familiari (30,7%).</p>
<p>“Tutti fattori che concorrono alla difficoltà delle donne di inserirsi, soprattutto se giovani”, afferma <strong>Luana Tampieri</strong>, presidente regionale Emilia-Romagna dell’Associazione Donne in Campo-CIA. E questo nonostante il grado di istruzione femminile sia generalmente superiore rispetto a quello maschile. O a dispetto del fatto che le donne, più spesso degli uomini, sono promotrici di iniziative volte a garantire l’ecosostenibilità dei processi e incrementare la multifunzionalità aziendale, con l’apertura di agriturismi e fattorie didattiche integrate all’attività principale. Direzioni fortemente incoraggiate dai piani di sviluppo nazionali ed europei. Però, “per quanto riguarda le politiche sociali veramente a sostegno e tutela della donna imprenditrice o lavoratrice”, sottolinea Tampieri, “c’è ancora tanto da fare”.</p>
<p>Tra le principali carenze rilevate dalla presidente rientrano anche la <strong>mancata estensione della Legge 104 per chi ha partita Iva</strong>, o il tema “tabù” della <strong>maternità</strong>, che induce molte donne a “lavorare fino alla fine”, con tutti i rischi che questo comporta. Ma a mancare sono anche i servizi: punti nascita, ospedali e asili nelle zone rurali o doposcuola prolungati che agevolino e incentivino le donne nelle loro attività di produzione e cura della famiglia. Due ruoli complementari, di cui molte si fanno carico anche per via della promiscuità tra luogo di lavoro e abitazione tipica del settore primario.</p>
<p>“Se dici che abiti in campagna, le badanti non vengono perché giustamente preferiscono il centro città e le varie opportunità che offre. Persino certi medici di base si rifiutano di andare nelle aree più difficoltose da raggiungere”, prosegue. Il risultato è che <strong>chi vive lì si trova generalmente isolato</strong> e le donne ricadono in quella “povertà di tempo, in conseguenza dei compiti che si accumulano sulle loro spalle al di fuori del lavoro” ben descritta anche dal rapporto ILO 2018 relativo a donne e lavoro.</p>
<p>“Non si quantificano mai il tempo e l’impegno che poi la donna dedica a questa <strong>assistenza non pagata</strong>”, aggiunge Tampieri. Un calcolo che la FAO, nella sua recente pubblicazione <em>Rural women and girls 25 years after Beijing, </em>valuta tra le due e le dieci volte superiore rispetto a quello maschile su scala globale. <em>&nbsp;&nbsp;</em></p>
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<h2 id="h-il-ruolo-silente-delle-donne-neglette-a-supporto-della-pesca">Il ruolo silente delle donne “neglette” a supporto della pesca</h2>
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<p>Se ci si sposta dall’entroterra al mare la situazione non cambia molto. Soprattutto per quelle che <strong>Adriana Celestini</strong>, già presidente dell’Associazione Penelope-Donne nella Pesca, chiama “<strong>le neglette</strong>”. Non le imprenditrici, le lavoratrici delle cooperative, le impiegate della filiera o delle capitanerie, che possono contare su un inquadramento formale e una retribuzione precisa, ma le mogli, le compagne, le cosiddette “<strong>coadiuvanti</strong>” dell’impresa familiare: posizione che esiste già, a livello giuridico, per le donne dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio. Non per quelle della <strong>pesca</strong>, che pure svolgono un’attività fondamentale occupandosi di tutti gli aspetti legati alla commercializzazione, alle pratiche burocratiche e all’amministrazione.</p>
<p>Basta guardare alla marineria di Ancona per rendersene conto: qui il mercato ittico notturno costringe le donne a svegliarsi nel cuore della notte per caricare le casse del pescato e provvedere alla vendita, cercando acquirenti migliori qualora i prezzi non fossero congrui con l’impegno e le spese sostenute dagli uomini nella giornata in mare. Il tutto entro un tempo compatibile con gli altri impegni mattutini, domestici e lavorativi.</p>
<p>L’obiettivo di questo riconoscimento, spiega Celestini, “non è tanto la remunerazione ma <strong>l’accesso, attraverso una contribuzione equa, a certi diritti</strong>, come l’assicurazione infortunistica, la malattia e una pensione alla fine del lavoro”.</p>
<p>L’ostacolo principale, invece, è la persistenza di un’iconografia generale sbagliata che ritrae <strong>il mondo della pesca come unicamente maschile </strong>e relega le donne a “figure ornamentali, intente a salutare i mariti col fazzoletto bianco o a scrutare preoccupate le nubi nere all’orizzonte”. Un’immagine che non ha aiutato in primo luogo le donne a raggiungere la piena consapevolezza della loro funzione e a scardinare la convinzione che questa sia solamente una mansione in più nella loro quotidianità.</p>
<p>“<strong>Chi sposa un pescatore, sposa un mestiere</strong>”, dicono le francesi: Celestini è convinta che proprio su questa adesione acritica si debba lavorare per far emergere queste figure dal cono d’ombra in cui si trovano e lasciare che esprimano le loro potenzialità.</p>
<p>Gli obiettivi 5 e 8 dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ci ricordano che parità di genere e inclusione sociale sono fattori di crescita. In Italia, la produzione di agricoltura, silvicoltura e pesca vale 61,6 miliardi di euro. Le donne ci sono, sì, ma come?</p>
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<p><em>Foto di copertina by Unsplash</em></p>


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Donne nel settore primario, un terzo che lavora per tre

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Giulia Petruzzelli

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