Bernadette Hanna, aspirante giornalista, sull’attesa nell’era di WhatsApp

Caro Marco Belpoliti, chi decide che un tempo è morto oppure no? La proposta C2 delle tracce di maturità 2023 svolta da Bernadette Hanna, creatrice di contenuti impegnata nel servizio civile presso ANCI

Il tema di Bernadette Hanna

L'attesa è morta ma non resusciterà

Se Dio è morto, allora anche l’attesa è bella che è sepolta. Ma temo che non resusciterà.

Sono nata nel 1998 e ho visto la tecnologia fare passi da gigante: ho vissuto da protagonista l’evolversi dei mezzi di comunicazione – e quindi l’evolversi dell’informatica – anche se mai avrei immaginato che, un giorno, sarebbe stato sufficiente premere soltanto il dito sullo schermo per eseguire un’azione.

A otto anni ricevetti il mio primo lettore CD, grazie al quale potevo ascoltare i Blue, Alizée, Hannah Montana e Hilary Duff senza per forza aspettare che la TV trasmettesse i loro brani. Nemmeno cinque anni dopo, potevo scaricare e copiare brani “immateriali” sul mio MP3 e, mentre scrivo, posso dire di dover semplicemente aprire Spotify e premere play. È un mega contenitore che ha dentro tutto lo scibile umano, non comporta un dispendio di denaro né di tempo. Non mi costringe ad attendere l’avviso “download in corso”.

Quindi sì, concordo con il fatto che l’attesa in quanto tale è ormai inesistente, né viene insegnata alle nuove generazioni, che non l’hanno di fatto mai conosciuta, eccetto forse gli ultimi nati dei Novanta come me: l’abbiamo vista dileguarsi sotto il nostro naso, ma non abbiamo fatto niente per portarla indietro. Tuttavia, proprio per questo motivo, mi chiedo come faccia Belpoliti a ritenere “che ci sono ancora tanti tempi morti”. Innanzitutto, ritengo l’espressione in sé infondata e incoerente: chi stabilisce che un tempo “morto” per me è un tempo morto anche per te? Questa proverbiale espressione parte dal presupposto che esistono momenti di secondaria importanza e irrilevanti, che cioè bisogna sostituirli necessariamente con qualcos’altro di primaria importanza, di vantaggioso, affinché ciò che è “morto” possa almeno avere una parvenza di “vivo”.

Gli stessi esempi citati dall’articolista vanno in netto contrasto con quello che si intende per tempo morto. Nelle stazioni e negli aeroporti si è talmente indaffarati che la nostra attenzione si consuma a una velocità sorprendente, a causa dell’alta tensione dovuta ai ritmi frenetici cui sottoponiamo il nostro corpo e al misto di entusiasmo-eccitazione che ci rendono incapaci di fare altro se non pensare, rimuginare, pianificare ancora e proiettarci nel viaggio. Tutto questo non è tempo
morto, ma tempo ben usato, anche se potenzialmente ce ne stiamo seduti su una panchina in attesa che apra il gate o che il treno si avvicini al nostro binario.

Il tempo, tanto nella sua accezione filosofico-esistenziale, quanto in quella materico-climatica, esiste in forma duplice: è sempre formato da due opposti che nella loro diversità restano complementari, dal giorno alla notte, dalla giovinezza alla vecchiaia, eccetera. L’uno non può esistere senza l’altro: entrambi hanno valenza, entrambi hanno peso e sono fondamentali per la vita sulla Terra: non esiste l’esercizio fisico senza il riposo, non esiste il digiuno senza il pasto, non esiste il bello senza il brutto, e così via. Siamo produttivi anche quando laviamo i piatti e ci illudiamo che, usando quel “tempo morto” per ascoltare la nuova puntata del nostro podcast preferito, il nostro cervello possa in qualche modo restare attivo. Ma non è altro che il prolungamento della nostra attenzione e voglia di fare. Anzi, forse, proprio perché siamo troppo concentrati a lavare i piatti, in realtà quel podcast non lo stiamo ascoltando attivamente; quindi, quello non è un tempo morto, ma solo l’illusione di poter fare due cose impegnative in uno stesso contesto. E anche  se ascoltassimo il podcast stesi sul divano, non sarebbe un tempo morto nemmeno quello.

Quello che intendo dire è che è inutile cercare di giustificare il “tempo reale” con la presunta esistenza di attimi più lenti. Bisogna riconoscere che a volte il progresso va nella direzione opposta a quella che desideriamo, perché può succedere che, tra le altre cose, qualche passo in avanti ce ne faccia fare altri cento indietro. Noi non sappiamo più attendere – è vero – ma se questo accade non è perché sacrifichiamo il piacere dell’attesa in favore della frenesia: abbiamo già perso questa umana capacità da tempi immemori, ben prima che nascesse WhatsApp.

Se infatti gli storici hanno definito il Novecento “secolo breve” è perché evidentemente  l’essere umano era già mutato in “macchina”, ma i frutti si sono visti solo cinquanta, cento anni dopo. Nell’epoca dell’indefinitezza, della smaterializzazione e della spersonalizzazione – altrimenti detta “fluidità” – noi non possiamo più tornare alla conservazione. Chi firmerebbe una petizione per riportare in vita l’attesa? Questo significherebbe eliminare gli smartphone, i pc, persino la rete Wi-Fi – necessaria a gran parte dei dispositivi elettronici esistenti. Significherebbe tornare proverbialmente all’età della pietra, che è più vicina a noi di quanto si pensi: l’altro ieri…

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