Alessio Panzieri, HR manager, sull’attesa nell’era di WhatsApp

Breve fenomenologia dell’attesa, con una versione contemporanea del leopardiano “Sabato del villaggio”. La traccia C2 della maturità 2023 svolta da Alessio Panzieri, HR manager

Il tema di Alessio Panzieri

Il bianconiglio: il me too di una corsa contro il (nostro) tempo

Premessa… inutile

Sono da sempre portato a fare premesse quando devo affrontare un discorso complesso, mi servono a definire il perimetro e le regole di ingaggio della discussione. Le faccio, e immancabilmente finisco con un retrogusto dal sapore inconfondibile: il sapore della perdita di tempo. La premessa è un rimandare, un girare intorno a quello che si vuole dire, una attesa; è quindi inutile. O forse no?

 

L’attesa

L’”attesa” appunto. Che cos’è l’attesa, come la possiamo definire? Istintivamente direi che è un’azione, è un fare qualcosa, nella fattispecie aspettare. Se però ci ragiono bene, mi sorge il dubbio che l’attesa sia in realtà un non-fare, un non-vivere un tempo che va da x a y, laddove x è il momento in cui si è ingenerata in noi una aspettativa (di qualsiasi natura) e y il momento in cui riteniamo che tale aspettativa possa o debba essere soddisfatta; più è la quantità di tempo tra x e y, più l’attesa si fa lunga, più il non-fare diviene stancante per le dimensioni di immobilismo e sospensione che si porta dietro.

E fin qui, direi, non ho dato un gran contributo alla causa. Ma…

Nella nostra vita le frustrazioni nascono dalla dissonanza tra i desideri e la dimensione reale; assumiamo per un momento che il concetto di “efficienza compulsiva” citata dall’autore sia in effetti caratterizzante del nostro tempo, ecco che appare chiaro come l’”attesa” indossi a pieno titolo i panni del cattivo nella nostra storia. Abbiamo efficienza/fare vs attesa/non fare, quindi dissonanza tra desiderio e azione (o, in questo caso, non-azione), quindi frustrazione.

Proviamo a collocare nelle giuste sfere il desiderio e l’azione. Il desiderio è nella nostra sfera interiore; l’azione, che pur sempre dalla stessa sfera muove, si manifesta nella sfera esteriore, diciamo nel mondo reale. Ma sfera interiore e mondo reale, condividono la stessa linea temporale? No, fortissimamente no.

E arriviamo al dunque: il tempo. Uno dei temi centrali nella vita dell’uomo, anzi IL tema centrale nella vita dell’uomo. Ma sì, bando alla diplomazia: IL TEMA.

 

Il tempo reale

La linea temporale esterna è un concetto lineare condiviso con il resto del mondo, e poggia su una misurazione convenzionale del tempo e su una concezione unidirezionale.

E la nostra linea temporale interna? Tutto un altro film: nel mondo di dentro, quello dove ognuno di noi vive la maggior parte della sua vita, non esiste una linea temporale. C’è un gran miscuglio di ricordi, desideri, aspettative, paure in una continua centrifuga di passato e futuro, spesso accompagnato dalla incapacità di cogliere il presente. Perché questo è il punto: il presente, il qui e ora che viviamo spesso come un non-tempo, perché siamo sempre più immersi nell’attimo dopo, quello che deve ancora venire, quello che stiamo già programmando per, appunto, “non perdere tempo”.

Ed ecco allora che l’unica dimensione reale, l’unica dimensione materiale e tangibile, il presente, viene vissuta in maniera diametralmente opposta alla sua essenza: ovvero l’unico tempo reale che esiste viene vissuto come non-tempo, viene vissuto come attesa.

 

Il ruolo della tecnologia

Siamo dunque di fronte a un paradosso che ha portato a una deriva percettivo/temporale: se è vero che questa è l’epoca del simultaneo, tra le dimensioni che abbracciamo simultaneamente manca proprio il presente.

Ma tutto ciò è davvero connesso al progresso tecnologico? Forse, o meglio, sì ma in maniera indiretta. È indubbio che il progresso tecnologico vada nella direzione di facilitare la vita dell’uomo e accorciare distanze e tempi, semplificare attività, rimpicciolire luoghi. Non è però una novità: l’avvento del telefono ha soppiantato la necessità di scriversi (non il piacere, per fortuna); il treno ha messo in secondo piano il cavallo come mezzo di trasporto, e così via fino ai giorni nostri. Allora che cosa è cambiato realmente?

Credo che dovremmo guardare al paniere di valori che oggi definiscono il benessere, paniere profondamente modificato rispetto a quello che orientava l’agire anche solo di chi è nato nel secondo dopoguerra, senza bisogno di risalire all’uomo delle caverne.

Siamo passati, nel corso di cinquant’anni o poco più, dalla cultura del sacrificio, laddove la rinuncia e la fatica di oggi erano i mezzi per raggiungere il benessere di domani, e dunque “l’attesa” era la dimensione di quel sacrificio, con un senso profondo, a un sistema basato su valori che ruotano attorno all’edonismo: la ricerca del piacere, intesa come soddisfazione dei propri bisogni e appagamento dei propri desideri, orienta le nostre scelte, e il differimento di tale soddisfazione alimenta le nostre frustrazioni. L’attesa/differimento è quindi osteggiata, e il progresso tecnologico ci fornisce la convinzione (a volte corretta, altre fallace) di poter evitare tale fastidioso corollario dell’agire. L’attesa diviene dunque un sacrificio, una perdita di tempo, del quale non si coglie alcuna utilità. E, per dirla con Pavese: “Non c’è nulla di più disumano di un sacrificio senza scopo”.

 

Efficienza compulsiva: il bianconiglio

C’è un meccanismo diabolico in questo, che provo spesso sulla mia pelle. Vivo costantemente con la sensazione che quello che sto facendo stia “rubando” tempo a qualcos’altro che potrei fare. Un esempio concreto? Leggere. Adoro leggere, ma riesco a godermi un buon libro solo la sera quando vado a letto, perché in quel caso “rubo” tempo solo al dormire. Ma durante il pomeriggio per esempio, prendersi un’ora e dedicarla alla lettura è fonte di ansie galoppanti.

Questo potrebbe essere l’effetto del paradigma che viviamo quotidianamente: l’efficienza al primo posto, l’efficienza compulsiva appunto. O, per essere sincero, potrei solo essere particolarmente ansioso. Ma siamo sicuri che le due cose non siano legate? In fondo che cosa avesse di così importante da fare il mitico Bianconiglio non lo abbiamo mai capito: eppure aveva fretta, non aveva tempo.

Non negate, le persone si dividono in due categorie: c’è chi ammette di avere un po’ di Bianconiglio in sé, e c’è chi mente.

 

Il piacere di perdere tempo

Abbiamo perso il piacere di perdere tempo. L’otium degli antichi, tempo dedito all’arricchimento personale, al pensare, alla speculazione filosofica, oggi è drammaticamente rimpiazzato dal fare ossessivo.

E che cosa era l’otium se non un tempo dedicato al non-fare? Il problema è che oggi, oltre agli impegni imposti che scandiscono il fluire delle nostre giornate, ce ne sono altrettanti autoimposti che irrazionalmente viviamo come doveri.

Però attenzione, parliamo di tendenze, di una osservazione empirica da cui si deriva un fenomeno e lo si generalizza. Non sono così sicuro che tale tendenza pervada per intero la società. Vicino a casa mia, per esempio, c’è un bar che a qualsiasi ora del giorno e della sera è pieno di gente che sta lì a bere birre e Campari e chiacchierare. Ecco, non esattamente l’otium di cui sopra, però quantomeno diciamo che esiste anche gente che pare immune da questa piaga del secolo.

 

Il paradosso

Il paradosso di tutto ciò è un circolo vizioso diabolico. Viviamo nell’ossessiva ricerca del benessere, per perseguire il quale non ci fermiamo mai in un costante inseguimento del miglioramento, e non ci godiamo quello che raggiungiamo perché c’è sempre il passo dopo, allontanandoci irrimediabilmente da quel benessere che ci muove. Curioso, no? Anche un po’ stereotipato, per fortuna.

La domanda giusta sarebbe: che cosa è per me il benessere? Credo che se riuscissimo a mettere a fuoco questa risposta, saremmo a buon punto. E riusciremmo a dominare la tecnologia, il cui approdo è senza ombra di dubbio migliorativo e offre possibilità che non sono in contrasto per loro natura con la capacità di vivere il tempo in maniera sana, ma spesso fungono da amplificatori delle nostre ansie.

 

Le nostre ansie

Il punto è questo: il modo in cui noi decidiamo di vivere il tempo. L’articolo da cui muove la traccia è del 2018, non a caso prima della pandemia. La sciagurata epoca pandemica ha imposto uno stop forzato all’efficienza compulsiva, costringendo molti a confrontarsi con i propri paradigmi. C’è chi ne è uscito irrimediabilmente a pezzi, ma anche chi ha capito che si può vivere in un modo più “lento”.

Perché vedete, sono convinto che è tutta una questione di percezione e di paradigmi autoimposti. Non è un caso che la stessa attività, svolta dalla stessa persona nel medesimo contesto, possa essere vissuta (dalla persona stessa) o vista (da chi osserva) in maniera diametralmente opposta.

Pensiamo a chi, per esempio, fermo in stazione per aspettare un treno in ritardo, siede leggendo un libro. La persona stessa potrebbe vivere il momento facendo un conto alla rovescia e guardando l’ora ogni due minuti, probabilmente capendo ben poco di ciò che sta leggendo, utilizzato come una sorta di sedativo per l’attesa, come invece potrebbe perdersi nelle pagine del suo libro rimanendo quasi sorpreso quando la voce in filo diffusione annuncerà l’arrivo del treno atteso. E così chi lo osserva potrebbe ammirare quella calma serafica (apparente o reale che fosse) oppure chiedersi come si fa a stare così tranquilli di fronte a tanto tempo buttato.

 

E dunque: ode all’attesa

A questo punto non posso evitare di immaginarmi un Leopardi che digitando furiosamente sui tasti del suo Mac all’ultimo grido, con un sottofondo di drill, scrivesse ai giorni nostri il suo Sabato del villaggio.

Ed ecco che la donzelletta vien dalla via dello shopping, e reca in mano una valanga di buste e bustine, onde, siccome suole, ornare ella si appresta il suo corpo lampadato per la serata apericenapiùdisco che l’attende (il donzelletto non farebbe eccezione, beninteso).

Più coerente la vecchierella, che probabilmente siede con le vicine a un tavolo di burraco, e con una tisana in mano osservando stupita l’ansia da preparazione della nipote novellando vien del suo buon tempo, quando ancor sana e snella si scatenava nelle balere della zona, ed era la più corteggiata del paese (erano tutte le più corteggiate, mah).

I fanciulli attendono la serata in famiglia, inconsapevoli ma felici del fatto che si farà qualcosa a misura loro, e che domani si dorme finalmente (teniamo l’icona dei fanciulli aperta).

Il zappatore, oggi lavoratore dipendente, è pronto a sciogliere le briglie avendo già messo a budget una domenica di hangover. Mentre il legnaiuol che s’affretta, e s’adopra per fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba, è il nostro libero professionista che sì ok che è sabato sera, ma un’occhiata alla mail la diamo lo stesso, e l’auricolare bluetooth fa ormai parte di lui.

Ed eccoci al dunque, dove si palesa l’infausta evoluzione dell’attesa/godimento in attesa/frustrazione: il più gradito giorno che prelude la domenica di festa, nel nostro caso il sabato pomeriggio che accompagna al sabato sera, non è il più gradito giorno, ma un momento in cui si corre tra mille ansie, tempo che non basta e frustrazioni assortite, già consapevoli che (e questo rimane costante nei secoli dei secoli) diman tristezza e noia (e un discreto mal di testa) recheran l’ora, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Il garzoncello scherzoso dei giorni nostri rischia di non godersi cotesta età fiorita, perché non la vive più con la spensieratezza mista a fascino di ciò che sarà tipico del periodo che precorre alla festa di sua vita: il nostro garzoncello si affanna senza soluzione di continuità per preparare ciò che viene dopo, in un dopo infinito che non si trasforma mai in adesso.

E il fanciullo? Da loro potremmo imparare. I fanciulli sono le uniche creature che vivono immerse nel presente, nel qui e ora, e non a caso l’età della fanciullezza è spesso richiamata come l’età spensierata. Fatta eccezione per le nevrosi trasmesse dai genitori.

 

Conclusioni

Anche le conclusioni sono inutili, poco eleganti, per nulla cool. Ma se c’è la premessa, bisognerà pur chiudere il cerchio, no? Anche se in realtà la premessa era una non-premessa. E allora farò in modo che le conclusioni siano delle non-conclusioni.

L’ansia del fare compulsivo ci attanaglia, è indubbio (bianconiglio docet). L’epoca pandemica ha dato una spallata a questo paradigma, ma non pare averlo abbattuto, per ora. La tecnologia, di per sé migliorativa, può amplificare questa situazione, rendendo in apparenza tutto disponibile a portata di click. Questo ci fornisce la errata percezione che possiamo eliminare l’attesa, che genera frustrazione.

Come usciamo da questo loop? Ridando dignità all’attesa.

Viviamo l’attesa (che, non me ne voglia la tecnologia, sarà sempre parte integrante della nostra vita) come un tempo in positivo, e non come un non-tempo. Caliamoci nella dimensione del qui e ora, del presente, e non viviamo ogni momento come propedeutico a quello successivo: ogni momento gode di dignità propria.

Anche perché, pensiamoci bene: il bianconiglio aveva sempre fretta di andare. Ma andare dove?

Nel giro di un’ora vi invierò la composizione. Per cortesia fatemi sapere il prima possibile, che non ho mica tempo da perdere io…

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