Domenico Grossi, fotografo professionista, sull’attesa nell’era di WhatsApp

Di attese, fotografie, telefoni e biciclette. La traccia C2 della maturità 2023 svolta da Domenico Grossi, fotografo professionista

Il tema di Domenico Grossi

Attendere lo sviluppo di cento rulli in bianco e nero (anni fa era un’attesa vissuta tranquillamente)

Premessa

Di acqua ne è passata sotto i ponti e di tecnologia fra le mie mani.

Ho cinquantasette anni e vanto una qualifica professionale come fotolitografo. Poi nel 2006 iniziai la mia libera professione come fotografo.

La maggior parte dei miei amici, di tanto in tanto, si butta nell’amarcord. I compagni del liceo, la “matura”… poi l’università, l’Erasmus, la promiscuità, le canne, le seratone ai Murazzi da Giancarlo, fare i camerieri o le cameriere per pagarsi le vacanze in Spagna oppure ad Amsterdam. E io che ho fatto tre anni di arti grafiche in collegio dai Salesiani, per buttarmi poi immediatamente nel mondo del lavoro.

Ma ora, alla prossima cena potrò parlare del mio primo esame scritto di maturità. Buffo, vero?

 

Albania 1999

Tanto è presente la fotografia nella mia vita, che molto spesso la uso per parlare di qualsiasi cosa. Inizio a sviscerare il concetto di “attesa” con un episodio fotografico. E con questo episodio, ricordo un periodo della mia vita dove forse l’attesa era vissuta diversamente.

Nell’estate del 1999 montai su un aereo con: cavalletto, borsa, due corpi macchina e quattro obbiettivi. E nello zaino cento rulli in bianco e nero, vestiti, notes, penna e un Nokia 3210. In dodici giorni l’idea era di raccontare l’Albania a 360 gradi. Quando si scatta in analogico, il fotografo è in una tensione senza l’attesa del risultato. Si vive il presente e si è concentrati. Tornai a Torino e portai quei cento rulli in laboratorio.

In quel momento l’attesa dello sviluppo era palpabile e la sentivo nel petto. Non era una sensazione sgradevole. Friggevo piacevolmente. Sapevo che avrei visto le immagini, anche se in non prima di una settimana. L’attesa faceva parte del gioco e non era assolutamente fonte di ansia. Mauro mi chiamò e andai a prendere il malloppo. Ne fui felice!

Mi guardai quei cento fogli di provini a contatto per giorni. Scrivania, tavolo luminoso, lente d’ingrandimento, pennarello indelebile rosso e il notes per segnare appunti. Selezionai un centinaio di immagini ritenute interessanti. Portai i negativi in laboratorio e attesi un’altra settimana per avere le 100 stampe 16×24.

Il lavoro si sarebbe dovuto concludere con un calendario e si dovevano scegliere dodici immagini. Mezza giornata con il mio committente guardando la preselezione. Scelte le dodici immagini, portai di nuovo in laboratorio e stampammo in maniera particolarmente curata su carta baritata. Ancora quattro o cinque giorni e ritirai le stampe per portarle allo scannerista.

Sono sicuro di non aver inviato durante lo svolgimento del progetto, sms ogni cinque minuti per sapere da Mauro come procedeva, se c’erano problemi… il Nokia 3210 in quegli anni è stato un oggetto che rimaneva in tasca, che si prendeva in mano tre o quattro volte al giorno. Ogni sms costava dieci centesimi.

 

Chiara – alias “la strepitosa”

Esiste una foto alla quale sono tanto affezionato. Tra l’altro ne ho perso il file e mi dispiace, ma penso che a casa di mia madre ce ne sia una copia cartacea. L’immagine ritrae mia figlia tredicenne mentre mostra alla sua bisnonna il marchingegno. L’espressione di mia nonna in quella immagine è fantastica.

Era un cellulare di prima generazione, ma per le funzioni che aveva, lui non provocava in mia figlia stati ansiogeni. Mi pare passasse poco tempo a vedere se qualcuno o qualcuna rispondeva a un suo sms.

Passarono tanti anni e in un giorno del lockdown, in una videochiacchierata mi disse: “Pà, ho deciso di lasciar perdere lo smartphone. Di guardarlo meno. Mi sta massacrando”.

Aveva ragione, e le dissi che era una saggia idea.

 

I “prima” e i “dopo”

Nella vita ci sono tanti “prima” e “dopo”. Ti cambiano la vita e ti propongono nuovi orizzonti. Prima di nascere e da nati. Prima del primo giorno di scuola e la lì in avanti. Prima del primo impiego e da lì in avanti. Prima della patente di guida e poi da patentati. Prima del primo rapporto sessuale e dopo. Da non votanti a votanti. Prima dei social network e dopo i tantissimi amici o follower in remoto.

Dalla vita alla morte. E tale passaggio, immagino possa essere la più grandiosa botta di adrenalina che un essere umano possa provare.

 

Prima e dopo lo smartphone (che Dio lo maledica e lo benedica)

Penso che lo smartphone sia quasi come la polvere da sparo. La polvere da sparo serve a facilitare alcuni lavori che prima erano eterni. La polvere da sparo è contenuta nei proiettili e nelle bombe.

Lo smartphone serve a facilitarti innumerevoli dinamiche (di lavoro e di tempo libero). Lo smartphone piano piano si insinua nella tua quotidianità, e se non metti un freno, a ogni vibrazione nel taschino, ti distrae, ti estranea dagli amici, ti frega. Se non fai ricorso a una certa dose di autodisciplina, rischi tanta vergogna con te stesso quando il marchingegno ti dice: “questa settimana hai visualizzato Instagram enne volte”.

Parlo dello smartphone ma i miei computer (uno in studio e uno a casa) hanno una buona rilevanza e un’influenza sulla mia salute mentale.

Ma faccio un salto indietro. Non ricordo con esattezza quando creai la mia casella di posta elettronica. So per certo che il computer dal quale ci potevo entrare era quello del lavoro. La usavo saltuariamente e penso che influisse poco nella mia vita. Ora il portatile e il fisso (entrambi connessi alla rete) fanno certo parte della mia vita. Ma prevalentemente a livello professionale.

Comunque, visto che io non sono un Amish, nel 2007 acquistai il mio primo smartphone. Nel novembre del 2008 creai, con cautela, il mio account su Facebook (mia figlia e la mia ex compagna lo avevano già da un anno e mi istruirono sulle nozioni base). Ora potevo iniziare a pubblicare. Instagram e WhatsApp vennero più tardi.

“Nel futuro ognuno ognuno sarà famoso per quindici minuti”, diceva Andy Warhol. Piano piano i social network ci hanno presentato il successo a portata di mano. Poter in qualsiasi momento seminare perle di saggezza con l’auspicio di essere riconosciuti e magari un giorno idolatrati. Tutto senza spendere un soldo.

Ma appena pubblicato qualcosa scattava una certa tensione. I sensi all’erta per captare un segnale sonoro che preannunciasse un like, o addirittura un commento entusiasta. Allo stesso tempo, la paura di ricevere disappunto. O di addirittura di essere insultati.

“Ecco, forse non era il caso di espormi così tanto, dovevo aspettarmi una reazione, dovevo essere meno diretto… ma d’altronde a essere sinceri… gli altri… ah, sono solo invidiosi… continuerò così! Schiena diritta!”

Tutto avveniva e avviene nella totale solitudine, davanti allo smartphone o al pc. Non in una cena con amici a parlare animatamente di massimi sistemi o di che cosa non va.

 

La vita parallela

Facebook, Instagram e WhatsApp oramai sono una nostra estensione. Sono il nostro personale ufficio stampa. Sono un’ancora (un po’ malata) alla quale aggrapparci per riempire le “attese”, le noie e i momenti di silenzio. Sono anche quella cosa che ci illude di essere sempre ovunque. E possibilmente, in remoto, sono strumenti necessari per presentarci ai nostri “amici” o follower sempre in forma smagliante.

Allo stesso tempo, i social ci fanno perdere di vista il presente e ci disconnettono dalle persone che sono a mezzo metro di distanza fisica.

Provo a ricostruire una situazione tipo. Ricordate che poco fa ho asserito che l’invenzione dello smartphone è un po’ come la polvere da sparo? Un gruppo di amici (anche amici veri), in uno scambio di messaggi riesce ad arrivare a una decisione. Una cena in casa e ognuno porta qualcosa. Si è stabilito che alle 20:30 saremo tutti da Lucrezio e Sibilla (nomi di fantasia). Per esempio, la chat ha risolto anche la logistica dei trasporti e si evita di arrivare con otto automobili. Ecco! Questo è un buon risvolto dei social.

Siamo tutti nella cucina dei padroni di casa (stile grande freddo). Queste situazioni mi piacciono davvero tanto. Prepariamo insieme la tavola, apriamo la prima bottiglia (adoriamo sorseggiare un rosso ancora prima di sederci). Inizia la cena e l’atmosfera è sempre piacevole. Io lo so che prima o poi arriverà un momento in cui la conversazione calerà. Una semplice pausa perché, casualmente e a sincrono, in quel momento preciso nessuno ha nulla da dire. So un’altra cosa: che è fisiologico e che non è un dramma. Prima o poi ci si riprende. Basterebbe una flatulenza rumorosa per toglierci d’impaccio. La scorreggia fa sempre ridere e diventa il nuovo volano per far ripartire le chiacchiere.

Invece, ho notato che in questi momenti, per combattere la noia e l’attesa, alcuni o alcune tirano fuori dalla tasca l’oggetto che per una serata era rimasto silente. Ognuno si era dimenticato che ci fosse. Inizia la navigazione solitaria dei commensali nel mare delle vite parallele. Sigismondo guarda se qualcuno ha scritto sul gruppo WhatsApp dello yoga. Se ci sono storie carine su Instagram. Se ha ricevuto ricevuto like o commenti su un suo bellissimo post su Facebook.

La testa è bassa e rivolta nel piccolo schermo. E mentre il dito comanda il monitor, l’espressione del volto passa dal compiacimento, alla disapprovazione, allo sgomento, allo stupore. L’attesa che riprendesse il naturale fluire della convivialità è stata colmata.

La serata riprende bene, si chiacchiera amabilmente, si fa tardi e si ritorna a casa. Sono dinamiche nelle quali molti, più o meno, cascano. Ma una cosa la posso dire con un certo orgoglio: io, il telefono, lo tengo nello zainetto, e possibilmente in un’altra stanza.

 

La bicicletta

Chiudo le mie riflessioni che riguardano l’intossicazione dalle tecnologie, e di conseguenza la frenesia che ci fa vivere male l’attesa, con l’utilizzo di una pratica che a me fa molto bene. E non è il Cynar in un tavolino in Piazza del Duomo (contro il logorio della vita moderna), ma…

La bicicletta! Da tanti anni, per me è l’oggetto più poetico che ci sia. Un telaio, due ruote, un manubrio, una sella e un sistema efficace di trasmissione del moto la rendono ergonomica e pratica.

Ne ho due, di biciclette. Quella che uso di più è una bicicletta da battaglia “il cancello”. È assicurata con due antifurti al segnale stradale sotto casa. Esco dal portone, la slego e la inforco. Il 90% dei miei spostamenti in città avviene in bicicletta.

E poi “la poderosa”. Nel 2000 circa acquistai una MTB da 26”. Una Giant usata pochissimo, e da quel giorno, spesso, con gli amici si andava a pedalare fuoristrada. Montagna, boschi… insomma, roba tecnica. Quindi, fino all’estate del 2017, il mio approccio alle due ruote era decisamente più performativo.

Dal mio primo giro in solitaria (un anello nel nord della Sardegna), e dall’anno dopo con un’altra solitaria nel centro Italia, ho cambiato stile. Il mio andare in bici era decisamente più “un viaggio lento sulle statali”. Amante dei luoghi e delle persone che li abitano. Interessato alle archeologie industriali e… percorrere cento chilometri in dieci ore, fermandomi in un bar chiedendo notizie al vecchio barista. Raccogliere storie dei luoghi, birretta, sigaretta e ripartenza. Ecco! Non sono proprio l’esempio di sportivo, ma mi piace così.

È da vent‘anni che, a seconda della temperatura, a ogni pedalata si avverte uno scricchiolio del telaio. Non me ne sono mai preoccupato perché, un tempo, un ciclista mi aveva detto che era un classico sui telai di alluminio. Per certi versi, questo scricchiolio mi ha sempre tenuto compagnia. Quasi come se lei mi parlasse.

 

Rimedi

Penso che il vivere l’attesa con ansia e con reazioni insofferenti (a volte, se non si sta attenti, anche violente), è assodato e fa parte di questo momento storico. Trovarsi in macchina in città nelle ore di punta, essere al supermercato e avere davanti a te un carrello pieno con il registratore di cassa inceppato. Avere un’appuntamento mentre la persona che si attende è una ritardataria cronica. Insomma, di attese ce ne sono e ce ne saranno sempre. Io penso che ci possano essere diversi semplici antidoti.

  • Di tanto in tanto, appena arrivano dei campanelli d’allarme, ricorrere all’analisi. Nella mia vita ne ho fatto uso (e ne sto ancora facendo). Conoscersi maggiormente aumenta in te il potere della sdrammatizzazione. E in qualche modo si diventa più “zen”. Su tutti i fronti.
  • Di tanto in tanto, limitare decisamente l’uso delle tecnologie e soprattutto dello smartphone. È un’ottima pratica “detox”.
  • Mantenere alto il livello della curiosità. Io sono una persona curiosa e penso che derivi da un fattore genetico (lo era pure mio padre), ma anche dalla mia professione di fotografo. Quando mi trovo a far trascorrere i tempi d’attesa, mi guardo tanto intorno e trovo il mondo stimolante.
  • Avere sempre una lettura nello zainetto.
  • Andare in bicicletta.
  • Andare a piedi.
  • Pensare e realizzare un restyling della casa o dello studio.
  • Nei momenti conviviali lasciare il telefono fuori portata.
  • Parlare con i giovani.
  • E alle nuove generazioni direi: parlare con gli anziani.
  • Scrivere (magari usando carta e penna).
  • Andare al cinema.
  • Ascoltare musica (magari anche dal vivo).
  • E in ultimo, anche se io sono un’animale metropolitano, trovarsi un po’ più spesso a contatto con la natura.

 

Conclusione

Partendo di nuovo dal presupposto di non essere un Amish, penso che forse il segreto per non farsi sovrastare da tutte le tecnologie in dotazione (continuo ad avere un televisore, due computer, due connessioni internet e uno smartphone), sia il seguente: tenere presente che ogni dispositivo ha un tasto di accensione e uno di spegnimento.

Avere verso ogni dispositivo tecnologico un sano rapporto di collaborazione. E questo vuol dire “usare” e non “farsi usare”. Sono io che ho acquistato i dispositivi e ho diritto e dovere di usarli nel miglior modo possibile.

Come tanti anni fa ci si preoccupava della “psicosi zapping” (stare davanti al televisore e inebetiti, ogni dieci secondi cambiare canale), ha maggiormente senso pre-occuparsi (occuparsene prima) tenendo alta la guardia.

Una delle cose che ho imparato in analisi è il far pace con le cose del passato. Guardarle per quello che sono e riconoscere i meccanismi del nostro comportamento (mi succede una cosa e mi scatta una reazione automatica). Quindi oggi, quando mi ritrovo a vivere male il qui e ora o l’attesa, faccio un gran bel respiro profondo e ripeto più volte il mantra: “Si, sono un fottutissimo tossico, ma sono pure una bella personcina e mo mi ripiglio”.

 

😉

 

Hasta la Victoria

 

 

 

Photo credits: ohga.it

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