Caffaro, Brescia: inquinamento, nuove condanne, lavoratori complici

Brescia, vent’anni dopo il caso della Caffaro scoperte altre ottanta sostanze inquinanti: il territorio non guarirà mai. L’esperto Marino Ruzzenenti: “L’aristocrazia operaia dell’azienda fu connivente”.

Com’è noto alle cronache, a inizio anni Duemila le indagini ambientali a Brescia sull’area dello stabilimento Caffaro e sulle immediate vicinanze hanno rivelato la presenza di pericolosi inquinanti con valori superiori fino a migliaia di volte rispetto ai limiti di legge. Tra questi i policlorobifenili (PCB), policlorobenzodiossine e dibenzofurani (PCDD/F), mercurio e arsenico.

L’inquinamento dell’attività produttiva della Caffaro ha contaminato non solo i terreni sottostanti lo stabilimento, ma si è diffuso attraverso lo scarico delle acque industriali nelle rogge, arrivando a colpire le aree limitrofe e compromettendo la salubrità della catena alimentare della zona. A questi fattori si è sommata una movimentazione inadeguata e non sicura dei rifiuti e dei suoli contaminati, che ha esteso l’inquinamento anche ad altre aree, come la discarica Vallosa di Passirano.

Una situazione gravissima, che ha portato a febbraio 2003 il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio a definire tramite decreto il perimetro dell’area Caffaro come Sito di Interesse Nazionale (SIN). Vent’anni dopo la situazione non è ancora stata risolta, ed è notizia di pochi giorni fa la scoperta di ottanta nuove sostanze inquinanti presenti nell’area.

Come è stato possibile arrivare a tanto? Perché ancora una volta, in nome della difesa del posto di lavoro, è stata messa in secondo piano la tutela della salute dei dipendenti di un’azienda, dell’ambiente e della popolazione?

Ne abbiamo parlato con Marino Ruzzenenti, storico ed esperto dell’ambiente, che per primo denunciò il disastro chimico bresciano.

La Caffaro e lo sporco sotto il tappeto: un disastro negato dalle istituzioni

La Caffaro è stata l’unica azienda chimica italiana a produrre, su licenza Monsanto, i PCB per oltre quarant’anni, sino al 1984, quando ne venne riconosciuta la pericolosità per l’uomo e l’ambiente (il Giappone li aveva vietati già dal 1972).

“Per lungo tempo si è andati avanti cercando di negare o sottovalutare il caso”, spiega Ruzzenenti. “Riconoscerlo da parte delle istituzioni significava prendere coscienza delle proprie responsabilità. In nome del progresso e degli interessi nazionali è stata fatta una vera e propria guerra chimica contro lavoratori e cittadini. La colpa è delle aziende private, che tuttavia sono state coperte dagli organi di controllo e dallo Stato, che aveva necessità e interessi rispetto a questa produzione”.

Il riconoscimento della pericolosità del sito è arrivato dopo che nel 2001 La Repubblica ha lanciato l’allarme in prima pagina sulla contaminazione da PCB dell’area. Le istituzioni a quel punto sono state costrette a indagare, anche se l’intento iniziale era smentire l’allarme più che confermarlo.

“Anche dopo il riconoscimento del SIN da parte dello Stato, la stessa ASL di Brescia ha negato per anni che a causa dell’inquinamento Caffaro ci fossero conseguenze sulla salute, arrivando a dire che non sono riscontrabili correlazioni tra la presenza dei PCB nel sangue e l’insorgenza di specifiche malattie. Diversamente, come testimoniato anche dal rapporto Sentieri, c’è un legame provato tra PCB e malattie cardiocircolatorie, demenza senile, tumori interferenti endocrini. Brescia in Italia è il SIN con la più alta incidenza di questi tumori, in particolare alla prostata, alla tiroide e alla mammella. Va detto inoltre che gli studi, sia sui lavoratori che sulla popolazione dell’area contaminata, sono stati fatti in ritardo; sarebbe stato più utile farli prima per avere maggiori dati.”

Nonostante la mancata puntualità, le analisi dell’Azienda Sanitaria Locale hanno comunque confermato nel tempo gli effetti negativi della presenza dei PCB e delle altre sostanze sui soggetti colpiti; i caduti di questa guerra chimica. Tra questi il triste primato, per gli ex lavoratori della Caffaro, dei più elevati livelli ematici di PCB, oltre all’eccesso di morti per tutti i tumori.

O lavoro o morte. L’aristocrazia operaia della Caffaro ha taciuto per anni

Nonostante si sapesse della pericolosità dell’inquinamento derivante dalle attività della Caffaro, per Ruzzenenti gli stessi lavoratori e il sindacato per anni hanno taciuto rispetto a questi temi, preferendo tutelare il lavoro prima della salute.

Un’esperienza e una tendenza diversa rispetto ad altre aziende della zona: “In passato (fine anni Settanta, primi Ottanta) si era sviluppato a Brescia, come poi in tutta la realtà nazionale, un impegno importante del sindacato sui temi della sicurezza sul lavoro e dell’inquinamento all’esterno delle aziende.” Secondo lo storico bresciano, il “modello operaiodi intervento sull’ambiente di lavoro aveva avuto dei risultati positivi: “Ad esempio ricordo vertenze importanti nel territorio rispetto alla riduzione delle emissioni fumi dell’industria metallurgica di seconda fusione. In queste imprese (la cui dimensione complessiva è paragonabile a quella dell’ILVA) ottennero dei risultati positivi. Gli operai mappavano i rischi in azienda e chiedevano interventi di prevenzione: non agire a danno subìto, ma fare di tutto perché il danno non si verifichi. Questo era il loro principio”.

Questo però non è successo all’interno della Caffaro: “I lavoratori di questa azienda si sentivano privilegiati nel panorama bresciano. Era l’unica azienda chimica della zona, in un contesto di aziende metallurgiche, di tessile per l’abbigliamento, o metalmeccaniche. La chimica era un settore d’avanguardia, e i suoi lavoratori erano considerati aristocrazia operaia, che percepiva uno stipendio più elevato rispetto agli altri settori”.

Per tutelare questa condizione di privilegio, quindi, sia da parte dei lavoratori che dei sindacati si sarebbero chiusi molti occhi, senza affrontare alla radice il problema della pericolosità di questa fabbrica.

In attesa di una svolta ecologica, bonifiche ferme e ancora veleni

Sino ad oggi nella pratica si sono raggiunti pochissimi risultati per il SIN Caffaro, che si riducono ulteriormente se si considera che il progetto di bonifica e di messa in sicurezza fa riferimento solo al sito industriale, e non comprende i terreni esterni (giardini, parchi pubblici, orti privati, cortili delle scuole). Tenendo conto del complesso delle aree che per l’ARPA risultano gravemente inquinate (700 ettari), la bonifica fatta sino ad oggi arriva all’1%.

“Dopo vent’anni non solo il SIN Caffaro, ma anche gli altri 41 definiti dalla normativa sono piuttosto malmessi”, continua Ruzzenenti. “Quello che servirebbe è una vera svolta ecologica, che parta dalla presa di coscienza dei danni e degli impatti prodotti dall’industrializzazione del secolo scorso L’impressione è che invece in Italia questa volontà politica non ci sia ancora, nemmeno nel PNRR”.

Più passa il tempo più la situazione del SIN Caffaro sembra aggravarsi, come dimostra il ritrovamento degli ottanta nuovi inquinanti nei terreni contaminati. Sostanze la cui esistenza è dovuta presumibilmente a trasformazioni dei PCB, e che sono state identificate da una ricerca realizzata in collaborazione tra l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste di Regione Lombardia e i dipartimenti dell’Università degli Studi dell’Insubria e di Milano.

“Il ritrovamento di queste molecole”, precisa Ruzzenenti, “testimonia che le sostanze presenti in questo SIN non solo non sono biodegradabili, ma subiscono trasformazioni senza scomparire, e come già dimostrato si accumulano facilmente negli esseri viventi, con conseguenze sulla loro salute”. Una situazione di incertezza che richiederà necessariamente ulteriori approfondimenti per capire la gravità di queste trasformazioni.

Nuova condanna per la Caffaro. E i territori sono compromessi per sempre

Come se l’eredità della vecchia Caffaro Chimica non fosse sufficiente, nei mesi scorsi la magistratura ha contestato anche alla Caffaro Brescia, subentrata nel 2011, di aver aggravato l’inquinamento storico versando cromo esavalente nei terreni e nella falda, oltre a non aver garantito l’efficacia del filtraggio dell’acqua che viene scaricata nell’ambiente. La Caffaro Brescia era succeduta alla SNIA, nata nel 2004 insieme alla Sorin biomedicale, dopo lo smembramento della vecchia azienda. Una pluralità di soggetti nel tempo che crea complessità nella gestione di costi e responsabilità, che la magistratura sta quantificando e attribuendo in questi mesi, conquistando nonostante tutto dei piccoli passi avanti nella gestione della vicenda.

È divenuto chiaro tuttavia che non è più possibile continuare ad arrivare sempre e solo dopo a individuare i colpevoli e mettere delle pezze, ben sapendo che in questo SIN, così come negli altri, non sarà mai possibile tornare allo stato di salute originale dei territori inquinati.

Effetti duraturi e non reversibili: dovrebbero lasciare come monito ad aziende, istituzioni e cittadini che non si può più pensare di risolvere i problemi in un secondo momento, ma che l’unica via per la tutela della salute e della sicurezza è la prevenzione primaria nei processi produttivi.

In copertina: lo stabilimento Cafarro, foto by Bresciaoggi

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