Cause di lavoro: tutto quello che non avete mai osato chiedere

Che cosa succede quando un lavoratore fa causa contro l’INAIL o il proprio datore di lavoro? Gli scenari, i tempi e i risultati sono differenti. Vediamo come insieme a Marco Dagradi, avvocato CGIL.

Mesi, a volte anni. Questo è quello che ci vuole prima che un processo civile per un infortunio sul lavoro, o anche una malattia professionale, arrivi fino alla sentenza di Cassazione.

La guerra dei ricorsi e le lungaggini colpiscono spesso anche i lavoratori che già una volta non sono stati tutelati, mentre stavano svolgendo il proprio lavoro. Anche per questo spesso e volentieri le parti decidono di accordarsi tra loro senza avere bisogno di un giudice, per non perdere troppo tempo.

Secondo il giurista Mirco Minardi, che assiste da anni la CGIL nelle cause di lavoro, in media i tempi per avere un giudizio alla sezione lavoro della Cassazione oscillano tra i tre e i quattro anni, ma alcune sentenze sono arrivate anche dopo quindici anni nel caso di cause che toccavano sia il lavoratore che il datore di lavoro che l’INAIL e l’assicurazione.

Cause contro INAIL, quando il pagamento va restituito

La sezione lavoro, assieme a quella tributaria, è una delle più lente, anche perché è tra quelle con il maggior numero di processi in corso.

Nei ricorsi contro l’INAIL, che coprono la maggioranza dei casi, se al lavoratore viene riconosciuto il diritto a percepire un rimborso, l’ente liquida dopo la sentenza di primo grado. Il rischio è che, se c’è un ricorso e il lavoratore perde in appello o in cassazione, debba restituire quanto percepito.

«Sono casi rarissimi – dice l’avvocato della CGIL Marco Dagradi – ma si possono verificare. Le cause per infortuni o malattie sul lavoro nella maggior parte dei casi non arrivano in Cassazione, ma il numero è comunque in aumento». Nel 2020, stando ai report del ministero della Giustizia: «Sono cresciute in modo non marginale le pendenze davanti alla Corte di cassazione (+ 5,6%)». Nel 2017/18 i procedimenti pendenti erano 109.019, l’anno successivo 113.862 e nel 2019/20 120.186. Di questi fanno parte anche i processi che riguardano infortuni o malattie professionali, che nella maggior parte dei casi vedono il lavoratore ricorrere contro l’INAIL.

«Nel caso in cui si tratti dell’INAIL – spiega Dagradi – la sentenza di primo grado è esecutiva e il lavoratore può chiedere da subito la messa in pagamento. Il problema vero è che se ci sono ricorsi fino alla Cassazione non si ha la matematica certezza di non dover ridare quei soldi». Il ricorso, infatti, non blocca il pagamento in automatico, ma ci deve essere esplicita richiesta, che solitamente l’INAIL non effettua.

I dibattimenti che arrivano in Cassazione riguardano nella maggior parte dei casi l’entità del danno che viene causato da un incidente sul lavoro, oppure se l’origine di una malattia sia di tipo professionale oppure debba essere attribuita ad altri fattori. I lavoratori si trovano così in un limbo di indeterminatezza che popola la letteratura giurisprudenziale, ma che soprattutto intasa la sezione lavoro della Cassazione, che ogni anno tratta migliaia di cause.

Dai vigili ai macellai, fino ai portieri d’albergo: le cause di lavoro pendenti da anni

I vigili di Pomigliano d’Arco ci hanno messo cinque anni (dal 2012 al 2017) per sapere se avessero diritto al risarcimento del danno biologico, che la Corte d’Appello aveva accordato, per aver lavorato sette giorni alla settimana. Altri quattro (2017-2021) per sapere che non ne avrebbero avuto diritto, stando alla Cassazione.

Un banconista di Roma invece ha atteso undici anni per scoprire che l’artrite e le varici di cui soffriva non erano dovute alla professione che ha svolto per tanti anni stando in piedi dietro un bancone, per servire i clienti con la sua carne. La causa di un portiere d’albergo che era svenuto durante il lavoro invece è durata dal 2006 al 2021.

Ma le cause per infortuni o malattie non riguardano soltanto l’INAIL. Spesso e volentieri, i giudici si devono confrontare con contenziosi tra lavoratori e aziende. Un manutentore delle ferrovie ha atteso quattordici anni la sentenza di una causa sul risarcimento per l’amputazione di un dito. Nel caso di conteziosi tra lavoratori e aziende, il problema è stabilire se ci sia o meno responsabilità da parte del datore di lavoro nel danno arrecato al dipendente.

«Se viene riconosciuta una responsabilità effettiva», dice Dagradi, «oltre all’indennizzo da parte dell’INAIL, il lavoratore danneggiato ha diritto a un risarcimento del danno da parte del datore di lavoro. La si può ottenere in due modi: o costituendosi parte civile nel processo penale oppure facendo causa. Le cause con l’INAIL in generale durano molto meno; in un anno si arriva alla sentenza di primo grado e in due a quella di appello. La Cassazione è quella che allunga i tempi, ma sono poche le cause che vi arrivano. In generale si fermano prima. Nel caso delle cause con le aziende la questione è più complessa, perché l’INAIL comunque corrisponde un rimborso, mentre nel caso di privati la società paga solo se si dimostra che ha una responsabilità nell’infortunio occorso al lavoratore. Se questi è caduto da una scala, per fare un caso ricorrente, affinché ci sia un pagamento da parte del datore di lavoro, questa deve essere stata danneggiata. E per dimostrarlo ci vuole più tempo».

Spesso vengono infatti coinvolti dei testimoni e vengono effettuate anche delle perizie. In questo caso prima di arrivare alla sentenza può passare anche un anno e mezzo, nel quale può darsi che le parti decidano di accordarsi. Infatti questo tipo di causa raramente arriva in Cassazione: nel 50% dei casi si trova una soluzione prima dei primi dodici mesi. Stiamo sempre parlando di infortuni non gravi con danni che provocano un’inabilità del 10 o del 15%, che però rappresentano la maggioranza degli infortuni sul lavoro.

«Spesso, infatti», continua Dagradi, «si concludono con una transazione. Capita non di rado che si arrivi a una transazione anche quando si è ancora al processo di appello, perché quando il dibattimento verte sull’inabilità i giudici tendono a passare la parola ai periti, cioè ai medici. Si va così a discutere delle percentuali di inabilità e dei conseguenti rimborsi dovuti. Spesso le differenze tra le risultanze dei periti delle parti sono minime. La decisione del giudice così è imprevedibile, e nel dubbio ci si accorda».

In tribunale il tempo è nemico dei lavoratori: le statistiche

Dati statistici esaustivi sul risultato delle sentenze della Cassazione al momento non esistono. Eppure alcuni giuristi hanno provato a sviluppare un’analisi.

È il caso di Biagio Cartillone, giurista milanese, che nel 2019 ha preso in esame 276 sentenze della sezione lavoro della Cassazione e le analizzate. Ne è emerso che: «A proporre il ricorso principale in Cassazione in maggioranza sono i lavoratori, con il 59,05%, contro il 40,95%, dei datori di lavoro. Il ricorso incidentale è proposto nella percentuale del 5,79%. I lavoratori sono coloro che lamentano in maggioranza la erroneità delle sentenze delle Corti di Appello e confidano nella loro riforma rivolgendosi alla Corte di Cassazione, ultima istanza delle loro aspettative. I lavoratori, pur essendo coloro i quali promuovono il maggior numero di ricorsi, vincono solo nella misura del 22,69%. Meno di un quarto dei loro ricorsi. I datori di lavoro, quando agiscono in via principale, vincono invece nella misura del 31,85%

Insomma, più dura il processo e meno conviene al lavoratore, che risulta spesso meno tutelato e si trova anche a dover attendere tempi lunghi, che nel periodo del COVID-19 si sono ulteriormente dilatati. Per questo la maggior parte dei contenziosi si risolve con l’accettazione di un’offerta da parte del datore di lavoro, senza doversi trascinare in un lungo percorso giudiziario dall’esito incerto, ma dai costi comunque alti.

In copertina foto by Pixabay

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