Chi forma i formatori?

Quando sento parlare di “formatori” la mia immaginazione di Baby Boomer corre alla famosissima scena del film Ghost del 1990, in cui una sensuale Demi Moore si lascia condurre da un ancora più sensuale Patrick Swayze in una lezione artistica che cerca di dare forma a un povero blocco di argilla, trasformato in un malcelato […]

Quando sento parlare di “formatori” la mia immaginazione di Baby Boomer corre alla famosissima scena del film Ghost del 1990, in cui una sensuale Demi Moore si lascia condurre da un ancora più sensuale Patrick Swayze in una lezione artistica che cerca di dare forma a un povero blocco di argilla, trasformato in un malcelato feticcio erotico al suono di Unchained Melody dei Righteous Brothers. Ci sono tutti gli ingredienti che ci servono: formatore, formato, lotta tra bene e male, tecnica, fiducia, speranza, aldilà, seduzione, errori, risultati e un sottofondo musicale strappacuore che porta verso l’indubbio lieto fine.

Quel film fiabesco e mieloso ora fa un po’ ridere. Le nuove generazioni lo trovano banale e scontato, e nulla mi fa pensare che la formazione non subisca lo stesso scherno del tempo visto che ne condivide così tanti aspetti narrativi. Formatori, formati e ambiente, per capirne qualcosa, vanno a mio parere analizzati alla luce dello zeitgeist, dello spirito del tempo; altrimenti è come discutere se Ghost sia o no meritevole dell’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

 

Le mode mutevoli della formazione

Ogni momento ha i suoi maestri e i suoi libri sacri, sullo stile delle religioni di maggior successo, solo che la formazione, che religione non è, è altamente legata alle mode e al marketing, alla cultura imperante, allo spirito del tempo appunto, e ciò che è apprezzato ora è destinato a venire svalutato, quando non addirittura rigettato con disprezzo.

In fin dei conti noi siamo quella società che nei primi vent’anni del Novecento trovava intelligente e affascinante inserire quantità di radio in burro, acqua minerale, sigarette, bevande, dentifrici, cosmetici, lozioni per capelli, lana per neonati, giocattoli, per migliorare la vita delle persone. Oggi sappiamo che fu una tragedia, e quella conoscenza ci appare per quello che era: un incosciente passo composto da fonti di sapere supponenti, da maestri approssimativi e arroganti, da sapienti autoritari o autorevoli ingenui.

La formazione non può sfuggire a scivoloni di questo tipo proprio per la sua necessità di dare risposte in tempi brevi a temi freschi, nuovi, sconosciuti. La formazione è, nell’accezione positiva che di solito ipotizziamo, un processo di miglioramento delle capacità dell’individuo o dei gruppi; uno scambio reciproco di conoscenze e di discussione che richiede tempo. Un processo che non è quasi mai istantaneo, che ha a che fare con la cultura e con cambi di paradigma, e che avviene comunque – nel senso che individui e gruppi si “formeranno”, bene o male, a prescindere dal fatto che qualcuno li formi o no.

Ci si forma personalmente o professionalmente e per tutta la vita, o perlomeno così dovrebbe essere, quindi serve impegno e responsabilità per migliorare le competenze, le conoscenze e la struttura cognitiva che le lega. L’obiettivo è migliorare costantemente la propria capacità di risolvere i problemi, perché alla fine aveva ragione Popper: la vita è risolvere problemi.

 

Formatori e fonti del sapere

Se l’obiettivo della formazione è il trasferimento di contenuti e metodi che elevino intellettualmente, culturalmente, emotivamente e spiritualmente, chi garantisce che chi forma sappia davvero il fatto suo e potenzialmente possa riuscire nel suo intento?

Difficile rispondere in modo univoco. Da un punto di vista pratico serve che chi si sottopone a un’azione formativa abbia fiducia e accetti gli stimoli del formatore, che a sua volta può mostrare un’autorità di diversa natura o un mix delle seguenti:

  1. un’autorità formale sancita da altre autorità;
  2. un’autorità tradizionale sancita dal passato;
  3. un’autorità basata sul carisma;
  4. un’autorità basata sulle competenze teoriche e/o pratiche.

Secondo il mix adottato si può risalire alle fonti della conoscenza e dell’ispirazione a cui i formatori fanno riferimento per essere ritenuti credibili. Le fonti dell’autorità sono interne e a volte esterne al formatore; a volte sono blasonate e riconosciute socialmente, altre volte sono totalmente anonime e sconosciute ai più. A volte l’autorità è basata solo sull’esperienza e a volte solo sulla teoria, mentre a volte è un cocktail delle due, in tutte le declinazioni possibili.

Stessa cosa avviene nel gioco tra i due poli “autorità” e “autorevolezza”, sui quali non mi soffermo perché argomento trito e ritrito che, con la matrice urgente/importante, la piramide di Maslow e gli obiettivi S.M.A.R.T, ha dato una mano a molti formatori in crisi di contenuti per riempire ore in cui non sapevano più che cosa dire.

Tutte queste dimensioni rendono il campo della formazione un mare magnum in cui esiste tutto e il contrario di tutto, e in cui può potenzialmente venire alla luce di tutto.

 

La cattedra e l’esperienza

In un mondo di totale potenzialità come quello della formazione nessuno può dire con certezza chi sarà il prossimo formatore apprezzato e da dove verrà la sua preparazione. Se la formazione è movimento didattico di idee e di cultura, di contenuti, di modi di ragionare ed essere, va accettato il fatto che sia totalmente dinamica e “surfi” sulla superficie cambiando direzione, modi e linguaggi secondo i moti ondosi della società. E, parlando di società, la sua progressiva liquefazione non aiuta a individuare risposte alla domanda: “Ma chi forma i formatori?

Soprattutto perché nella formazione – a differenza dell’istruzione, in cui il processo è perlopiù a una via – il progresso avviene per un’interazione in cui è il fruitore che decide cosa sia più importante per la sua crescita, e allo stesso tempo il formatore tenta di “sedurre” il fruitore perché scelga la sua proposta.

Il fruitore deve costantemente decidere se sia più importante un aspetto piuttosto che un altro: risultati o metodo? Successo o etica? Esperienza o teoria? Tradizione o novità? A ciò va aggiunta l’attività promozionale e marketing dei formatori, che devono farsi scegliere, e che quindi influenzano la percezione delle fonti di sapere e pratica da cui si abbeverano.

La dialettica popolare su chi sia davvero un formatore oscilla tra questi poli:

  • parlano solo i miei risultati;
  • parlano solo i miei studi.

E inoltre:

  • mi sono formato da me;
  • mi sono formato presso altri.

 

A questo andrebbe aggiunta una terza dimensione che potrebbe aiutare a selezionare: quella rappresentata da quanto tempo il formatore è in attività e sul mercato, ma data la liquidità dei tempi ormai questa variabile non vale più un granché. Molta esperienza può significare rigidità o competenza. Poca esperienza può significare ignoranza o flessibilità. A noi la scelta.

 

I formatori e la pelle in gioco

Resta però a mio avviso un ultimo e più importante parametro su cui basare ogni giudizio e su cui valutare i formatori: andare alle origini e chiedersi quanto sia equo il gioco. Se chi si forma, per definizione, mette il proprio tempo e i propri soldi – e a volte anche il proprio futuro – nelle mani del formatore, di contro che cosa mette in ballo il formatore? La grande differenza, secondo me, sta proprio qui. Il principio della pelle in gioco, tante volte proposto da Nassim Taleb parlando degli esperti e di chi prende decisioni, torna utile anche in questo caso.

C’è sempre una scena che mi torna in mente: il giorno in cui un giovane Otis, a metà dell’Ottocento, presentava al mondo una macchina innovativa oggi conosciuta come “ascensore”. A quel tempo molti edifici americani erano dotati di montacarichi, ma il loro funzionamento – basato su corde, carrucole e speranza – offriva garanzie fino a quando qualcosa non andava storto e le corde cedevano. Elisha Otis aveva trovato invece un’ingegnosa soluzione: aveva fissato alla piattaforma un congegno a molla e aveva dotato di denti di arresto le pareti del vano lungo le quali la piattaforma scorreva, così che, se il cavo si fosse spezzato, il freno di sicurezza sarebbe entrato in azione, evitando cadute disastrose.

A quel punto c’era solo da vincere la diffidenza delle persone, e Otis trovò il modo migliore possibile. Radunò centinaia di persone in uno dei centri congressi più grandi di New York e salì sul marchingegno che stava presentando. Poi spezzò la corda, e tra il panico dei presenti mostrò che il suo sistema assicurava sicurezza ed efficienza. Quel giorno Otis, oltre a dare vita all’era degli ascensori come oggi li conosciamo, diede una lezione a chiunque venda qualche genere di soluzione agli altri. Una sorta di garanzia basata proprio sull’avere la pelle in gioco.

Ecco, quel che penso è sempre inerente a questo punto. Più che affidarsi al cliché del “chi sa fa, chi non sa insegna”, penso sia più efficace chiedersi che cosa ogni formatore mette in gioco quando fa il suo lavoro; che cosa rischia davvero. Perché a tirare su funnel e sistemi per vendere formazione sono capaci tutti.

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