Scarto sarai tu. Clochard, il fallimento di un sistema

Tra i mille e uno volti della povertà e dell’esclusione ci sono il licenziamento, il poker, ma anche la fuga dalla carestia. I clochard sono la fascia di popolazione scartata per eccellenza, ma a differenza delle altre sono condannati a un’immobilità senza ritorno: alcune testimonianze dalle loro voci, a Milano

08.11.2023
Un clochard sotto i portici di Milano, con tre cani e un cartello

Sono circa centomila anime scartate, ai margini estremi della società, in solitudine. Senza una fissa dimora, non chiedono l’elemosina, non amano comunicare con il mondo che li circonda, che li guarda come se fossero marziani e non il frutto di disuguaglianze marcite nelle pieghe delle metropoli. Un popolo inerme che non ha voce, che non può o forse non vuole rivendicare la propria condizione di vita. In alcuni casi infatti la scelta di mettersi ai margini della società è consapevole, voluta per le ragioni più diverse: una separazione, una delusione d’amore, un lavoro andato male o più semplicemente un licenziamento senza prospettive.

I media, a differenza del fenomeno migratorio che per ovvie ragioni riempie le pagine dei giornali, parlano di loro soltanto quando ne muore qualcuno, ucciso dal freddo che in inverno attanaglia i parchi, o devastato dall’inquinamento da polveri sottili nei tunnel che attraversano, ad esempio, la stazione centrale di Milano. Migranti clandestini e clochard sono due popoli spesso attigui, ma mentre il migrante si muove da un continente all’altro e ha alle spalle l’abbandono della famiglia, un viaggio a rischio della vita e un futuro incerto, il clochard è immobile, non rivendica alcunché, si muove soltanto per mettersi in fila dai padri francescani o dall’associazione laica Pane Quotidiano per conquistare un po’ di cibo e del vestiario.

Aumentano i clochard, soprattutto nelle metropoli

Prima di avvicinarmi a Mario, da cinque anni senza tetto, e a Omar, giovane emigrato proveniente dall’Etiopia, dove una persona ogni quarantotto ore muore di fame a causa di un’inflazione del 44% e una siccità inarrestabile, qualche dato generale sulle persone senza dimora.

La Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora ci racconta così il fenomeno: “Si tratta per la maggior parte di uomini con un’età media di 41,6 anni, che arriva a 45,5 per i soli italiani. Tra loro ci sono anche persone più giovani. Persone che vivono in condizioni di grave indigenza e soprattutto di solitudine”. In altre parole, la forma più estrema di esclusione sociale. Inoltre, rispetto a qualche anno fa se ne è registrato un aumento del 20-25%.

Milano e Roma si giocano il primato di questo fenomeno invisibile. Da una recente rilevazione promossa dal Comune, in particolare a Milano i senzatetto sono poco più di duemila: lo 0,15% della popolazione cittadina. “Le grandi città attirano – spiega Michele Ferraris, membro della Federazione – ma poi creano una sorta di prigione, di dipendenza e di circuito negativo. A molte di queste persone manca essere ascoltate, ovvero qualcuno che chieda semplicemente come stiano, creando quel senso di comunità che viene a mancare e le porta a sentirsi in solitudine, perché in una situazione di totale abbandono”.

Mario, dall’industria alle bische clandestine: “Noi clochard non siamo una comunità”

Quando mi decido, non senza qualche imbarazzo, a cercare un contatto con uno a caso dei senza, tetto scelgo i portici di via Vittor Pisani, l’ampio viale che dalla stazione centrale di Milano porta a piazza della Repubblica. Non soltanto perché quel luogo è diventato nelle ore serali e notturne la dimora di molti clochard, ma perché in uno spazio di una ventina di metri si può osservare il contrasto, non solo simbolico ma reale, tra ricchezza e povertà della metropoli milanese. Fin verso le venti in quello spazio dominano le vetrine della multinazionale per la certificazione e revisione dei bilanci KPMG; quando cala il sipario del colosso finanziario e i dipendenti lasciano l’ufficio, arrivano loro, con cartoni e coperte, e in alcuni casi un cane.

Al primo approccio vengo respinto proprio da un cane lupo dal pelo e dagli occhi neri. Non appena mi avvicino all’uomo, che si sta sistemando per la notte, l’animale si desta dal torpore e mi mostra i denti affilati per avvertirmi che è meglio che stia alla larga dal suo compagno di strada. Il suo amico fa un gesto con la mano per calmarlo ma lui non lo ascolta. Chiedo scusa e proseguo lungo i portici.

Ci riprovo con un uomo sui sessant’anni, capello lungo bianco, pelle raggrinzita, occhiali spessi. Sta sfogliando City, un quotidiano gratuito edito da RCS. Interrompe la sua lettura e mi guarda incuriosito. Gli spiego che sto scrivendo un articolo sui senzatetto. Lui sorride con un’espressione sarcastica e mi dice: “Eccone uno”.

Si chiama Mario, ha 61 anni, è nato a Casalpusterlengo, non ha figli, i suoi fratelli sono immigrati negli Stati Uniti anni fa, suo padre e sua madre sono morti. Faceva il tornitore per una azienda di Concorezzo, un distretto industriale della zona nord est di Milano. Quando è stato licenziato non ha detto niente alla moglie. Ha cominciato a bere di nascosto. Utilizzando i risparmi di famiglia ha tentato la scorciatoia del tavolo da poker in una bisca clandestina, nella speranza di recuperare la mancanza di reddito, ma gli è andata male. E gli poteva anche andare peggio, se non pagava i debiti di gioco.

A quel punto, quando in famiglia si sono accorti che aveva dilapidato tutti i risparmi, la moglie ha chiesto la separazione e i suoceri lo hanno cacciato di casa. Da cinque anni vive ai margini della metropoli lombarda. D’estate nei parchi e d’inverno sotto i portici della città, “anche se lì spesso arrivano i poliziotti che ti cacciano via. Però cambiare ambiente devo dire che non mi dispiace. Ogni tanto vado sotto i portici di piazza 24 maggio sui Navigli. Lì qualche passante è capace di offrirti un pranzo”.

I dormitori? “Ho provato ad andare nei dormitori pubblici ma lì spesso ti rubano anche i vestiti. Quindi preferisco starmene sotto i portici o nei parchi. Ho provato a cercare un lavoro, ma non so dove andare, e poi a questa età chi mi prende? Ho sentito parlare del Reddito di Cittadinanza, ma non ci ho capito niente”.

Tra di voi, chiedo facendo riferimento agli altri uomini che dormono lungo i portici, vi parlate, vi conoscete?No, non siamo una comunità. Abbiamo tutti storie diverse. Vede quel signore con la coperta bianca sulle spalle? Pare fosse un impiegato di banca, ma non gli si può rivolgere la parola. Quello che ci accomuna è la solitudine e una vita di stenti. A volte è una scelta, spesso è la fine di qualcosa che ti è andata male, soprattutto sul lavoro”.

Omar, dall’Etiopia all’Italia: “Qualunque cosa è meglio della morte per fame”

Una storia diversa è quella di Omar, giovane immigrato clandestino in cerca di un lavoro e di un minimo reddito da inviare nel suo Paese a moglie e figli. Quel giorno ero al Parco Nord a far correre il mio cane, e nella panchina accanto dormicchiava un giovane nero.

Nei parchi a Milano e nell’hinterland si trovano molto di frequente giovani immigrati. In città gli stranieri residenti sono circa 500.000, ma è più difficile censire quelli che non hanno una posizione regolare. Omar era uno di quelli.

Si è avvicinato con fare discreto e mi ha fatto una domanda insolita: “Scusi se la disturbo, non voglio chiedere l’elemosina, non mi va. Vorrei chiedere se mi può prestare 20 euro. Fra qualche giorno glieli restituisco”.

L’approccio, per quanto dignitoso, non è sostenibile. Un prestito? “Non mi pare che tu sia in grado di sostenere la restituzione di un prestito. Facciamo così, io ti do 20 euro, se avremo occasione di incontrarci di nuovo e per te sarà cambiato qualcosa me li restituirai. Ma toglimi qualche curiosità: da dove vieni? Come ci sei arrivato in Italia? Vale la pena rischiare la vita per arrivare in un Paese che non è proprio accogliente? Omar mi guarda, scuotendo la testa ma mi risponde con molta pacatezza. Parla un discreto italiano.

“Vengo dall’Etiopia, sono qui da otto mesi. L’Etiopia è un Paese colpito dalla siccità e dalla morte per fame. Laggiù ho moglie e due figli. Quando sono partito li ho lasciati con il cuore in gola, ma non so se li ritroverò. Sono arrivato in Italia con i barconi al solo scopo di poter guadagnare qualcosa per far sopravvivere la mia famiglia, e magari farmi raggiungere. Mi fa sorridere quando mi chiedono se ne vale la pena rischiare la vita per emigrare in un Paese magari ostile. Chi si pone questa domanda dovrebbe anche chiedersi se c’è un’alternativa per quelli nelle mie condizioni. Io non scappo da una guerra, ma la morte per fame è ancora peggio. Io non avevo e non ho alternative alla possibile fine della mia famiglia, tutto quello che mi accadrà qui sarà meglio di restare ad attendere la morte. Per questo ho deciso di partire. Le sembra una ragione sufficiente?”

Non sapevo che cosa rispondergli, e lui deve averlo capito. Omar si è alzato, mi ha dato la mano per ringraziarmi e se n’è andato.

 

 

 

Photo credits: codaconslombardia.it

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