Il modello 4+3 è già stato adottato in alcune aziende e Paesi. Potrebbe essere un rimedio contro l’invasione del lavoro nella vita privata, ma quali sono i lati negativi, e che categorie di lavoratori coinvolgerebbe?
L’orientamento sessuale disorienta il lavoro: una persona su cinque subisce discriminazioni
La dimensione lavorativa fatica ad accogliere la diversità nell’ambito dell’orientamento, con le piccole e medie imprese che discriminano più delle grandi. L’analisi di un’indagine ISTAT-UNAR e le testimonianze di chi l’ha provato sulla sua pelle
Sessualità/affettività e lavoro sono aspetti di vita fondamentali e indipendenti tra loro, o perlomeno così dovrebbe essere. A causa di stereotipi, se non veri e propri pregiudizi, in alcuni contesti di lavoro permangono ad oggi delle dinamiche discriminanti relative all’orientamento sessuale. Si tratta di un tema importante, spesso trattato solo in occasione di episodi di cronaca; resta invece fondamentale garantire un costante connubio di prevenzione e sensibilizzazione che anche noi giornalisti possiamo favorire confrontandoci con dati e situazioni reali.
Partiamo in prima battuta dalla recente indagine ISTAT-UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ condotta nel 2020 e nel 2021. La rilevazione, è doveroso specificarlo, è stata rivolta a più di 21.000 persone residenti in Italia che al primo gennaio 2020 risultavano in unione civile o già unite civilmente, considerando sia le unioni civili costituite in Italia sia le trascrizioni di unioni (o istituto analogo) costituite all’estero. Come si afferma nell’introduzione dell’indagine, è palese che “i risultati di questa rilevazione non possono quindi essere considerati rappresentativi di tutta la popolazione omosessuale e bisessuale”.
Quando l’orientamento sessuale danneggia sul lavoro
Focalizzandoci sul nostro tema cardine, l’indagine evidenzia tra i vari aspetti un dato disarmante: “Una persona su cinque ritiene che il proprio orientamento sessuale l’abbia svantaggiata nel corso della vita lavorativa in termini di avanzamenti di carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento delle proprie capacità professionali”. E ancora: “Il 26% delle persone occupate o ex-occupate dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione)”.
L’indagine entra nel dettaglio rivelando come tale situazione sia segnalata in misura maggiore dagli uomini (26,8%) rispetto alle donne (24,6%), dalle persone omosessuali (26,4%) rispetto alle persone bisessuali (20,2%), dalle fasce di età più giovani (28,7%) rispetto a quelle degli ultracinquantenni (23,4%).
Una situazione che ha riflessi tangibili anche sulla sfera emotiva, sociale e relazionale: “Il 40,3% riferisce, in relazione all’attuale/ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale, con un’incidenza più alta tra le donne (41,5% contro il 39,7% tra gli uomini) e tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti (41,1% contro il 38,1% degli indipendenti o ex indipendenti)”.
E ancora: “Una persona su cinque afferma di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale. Sono gli uomini a segnalare maggiormente tale comportamento (20,9% contro il 18,3% tra le donne)”.
Tra le altre conseguenze c’è “l’aver evitato di partecipare a eventi aziendali o altri eventi sociali collegati all’attività lavorativa (13,1%, contro l’11,8%). In entrambi i casi l’incidenza del fenomeno è più alta tra i dipendenti o ex-dipendenti”.
“Non siamo tutti creativi: il lavoro è una cosa, l’orientamento sessuale tutt’altra”
Entriamo nel vivo della questione e ci confrontiamo con Giovanni (nome di fantasia a tutela della privacy), che da tempo affronta temi cardine come omofobia, transfobia, inclusione, discriminazioni e pregiudizi. “È importante parlarne per favorire la consapevolezza”, afferma.
Partiamo dal dato più lampante dell’indagine, ossia che “una persona su cinque ritiene che il proprio orientamento sessuale l’abbia svantaggiata nel corso della vita lavorativa in termini di avanzamenti di carriera e crescita professionale”. Che cosa ci può dire al riguardo?
Tranne due casi, che risalgono ad anni fa, a livello aziendale non ho mai subito un attacco diretto alla mia sessualità. Riguardo al resto invece confermo come lo svantaggio sia ben evidente sul fronte della carriera. Nella mia esperienza lo sto soffrendo tanto. Io sono sempre stato dichiarato e non ho mai nascosto la mia omosessualità; posso dire che i riflessi si sono visti soprattutto su determinati aspetti.
Quali, ad esempio?
C’è purtroppo l’idea diffusa e data per scontata da parte di diversi responsabili e colleghi che, se sei omosessuale, risulti automaticamente single, senza famiglia o figli, e per questo disponibile a priori a gestire una mole maggiore di lavoro rispetto agli altri. In pratica se ci sono delle scadenze di lavoro vengono concentrate su chi viene ritenuto, sempre secondo stereotipo, “libero” dagli impegni, come se fosse corretto fare un ragionamento del genere. La sintesi che mi sono spesso sentito dire è: “Tanto tu che cosa devi andare a casa a fare?”. Eppure anch’io ho le mie cose da gestire, come tutti.
Quella che raccontiamo è una vera e propria dinamica strumentalizzante e anche discriminatoria (perché agisce un trattamento di svantaggio destinato ad alcune persone) scaturita da un pregiudizio.
Da anni sono fermo alla stessa posizione nonostante abbia investito molto nella formazione, anche di tasca mia: sinceramente il dubbio che ciò derivi dal mio orientamento sessuale è più che lecito e nessuno me lo toglie. In azienda ho anche caldeggiato di fare incontri di formazione e sensibilizzazione sul tema della diversità e delle pari opportunità: purtroppo non ho avuto riscontri in merito.
Focalizzandoci sul tema pregiudizi, qual è quello più diffuso in ambito lavorativo legato all’aspetto dell’orientamento sessuale?
Secondo me è la paura di qualcosa che non si conosce, e per questo si sta alla larga da essa. La conoscenza e il confronto scardinano questa paura. A livello lavorativo mi è capitato di gestire anche una squadra di operai, e insieme scherzavamo senza problemi, perché da parte di questi lavoratori c’era una cultura sociale presente.
Gli stereotipi tendono anche a identificare l’orientamento sessuale con la propensione ad alcuni lavori.
Si crede erroneamente che siamo tutti portati a fare i parrucchieri o lavori creativi o legati alla comunicazione, ma l’orientamento sessuale è una cosa, le competenze professionali e le capacità un’altra, e non hanno identificazioni di genere oppure di orientamento: dipendono dalle nostre aspirazioni, che riguardano la persona in quanto tale.
L’attenzione nei confronti della diversità è più diffusa nelle grandi aziende o nelle piccole e medie imprese?
Da quello che ho intercettato io, ci sono più rispetto e attenzione nelle grandi aziende. I problemi sembrano sorgere perlopiù nelle piccole e medie imprese.
Perché, secondo lei?
Nel contesto delle grandi aziende si investe di più in formazione e sensibilizzazione. Inoltre ho notato più attenzione nei confronti di questi temi da parte di aziende guidate da donne e da persone più giovani.
Che cosa consiglierebbe a un’azienda per prevenire queste situazioni di stereotipi?
Investire in modo concreto nella formazione e in percorsi gestiti da professionisti e professioniste che siano davvero competenti e coerenti rispetto ai temi dello stigma. Penso in questo caso a sociologi, psicologi e diversity manager.
Nel 2022 possiamo quindi dire che il contesto di lavoro è ancora influenzato dagli stereotipi relativi all’orientamento sessuale?
Assolutamente sì, soprattutto se penso alle persone transgender.
Ad oggi il coming out come viene vissuto nel contesto di lavoro? Come un passaggio “obbligato”, una conquista, una prova da superare?
Se a livello famigliare è ritenuto importante e ormai sdoganato, a livello lavorativo il coming out è ancora un tabù. La maggior parte delle persone che conosco evitano il coming out in ambito lavorativo, c’è chi teme discriminazioni o addirittura di perdere il lavoro. Chi sceglie di fare coming out in ambito lavorativo di solito lo fa per liberarsi da un peso, e quindi evitare di ricevere domande inopportune o battute. Va ricordato che non siamo tenuti a farlo: io stesso nel tempo l’ho capito.
Micro-aggressioni, le subiscono sei lavoratori su dieci
Nell’indagine ISTAT-UNAR si parla anche del fenomeno delle micro-aggressioni, ossia “brevi interscambi quotidiani che inviano messaggi denigratori ad alcuni individui in quanto facenti parte di un gruppo, insulti sottili (verbali, non verbali, e/o visivi) diretti alle persone spesso in modo automatico o inconscio” (Sue, 2010) che possono avere effetti sullo stato di benessere psico-fisico di una persona”.
L’indagine rivela che circa sei persone su dieci hanno sperimentato almeno una forma di micro-aggressione in ambito lavorativo legata all’orientamento sessuale (tra quelle rilevate). Inoltre, tra coloro che hanno dichiarato di aver vissuto almeno una micro-aggressione, “quasi la totalità afferma di aver sentito qualcuno “definire una persona come ‘frocio’ o usare in modo dispregiativo le espressioni ‘lesbica’, ‘è da gay’ o simili” (oltre nove su dieci), ma anche, seppure in misura minore, è capitato ‘che le si chiedesse della sua vita sessuale’ (38,7%)”
A questo proposito Giovanni commenta: “Sono dinamiche frequenti, soprattutto certe battute con allusioni che feriscono e l’essere trattati diversamente. Poi chi agisce queste micro-aggressioni cerca di difendersi dicendo che è l’altra persona ad aver travisato: una scusa per tutelarsi”. Ed evidenzia: “Ho notato che queste dinamiche sono rivolte soprattutto alle persone più giovani, diverso è l’atteggiamento nei confronti di persone più grandi e formate, forse più ‘temute’. Riguardo alla mia esperienza non ho particolari episodi da raccontare, c’è solo un aneddoto emblematico. Una volta mi è capitato che un direttore mi chiedesse perché girassi con una borsa, regalo fattomi da un’amica: ‘Ti sembra giusto andare in giro con una borsa?’, mi aveva detto. Io a mia volta gli ho chiesto se gli sembrava giusto andare tutti i giorni al lavoro in giacca e cravatta. Mi ha risposto: ‘Io rispetto un canone’. Di rimando gli ho detto: ‘Anch’io rispetto un canone, il mio e non quello che mi dà la società’. Dopo due anni la stessa persona è passata in ufficio da me con una borsa perché ormai andava di moda. Abbiamo riso e la cosa si è risolta così”.
Nel 2022 i miglioramenti sul fronte pregiudizi e discriminazioni da un lato non mancano, ma dall’altra parte problematiche e anche assurdità permangono in alcuni contesti. Il fatto che una cosa naturale e innocua come l’orientamento sessuale venga ancora fatta pesare in determinati ambienti di lavoro, e che per colpa di pregiudizi altrui ci siano persone che subiscono disagi, è e resta inaccettabile. Per questo le aziende – e chi le guida e gestisce – dovrebbero più che mai prevenire questo aspetto, nel concreto e con coerenza, senza temporeggiare.
Photo credits: gay.it
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