Entriamo nel vivo della questione e ci confrontiamo con Giovanni (nome di fantasia a tutela della privacy), che da tempo affronta temi cardine come omofobia, transfobia, inclusione, discriminazioni e pregiudizi. “È importante parlarne per favorire la consapevolezza”, afferma.
Partiamo dal dato più lampante dell’indagine, ossia che “una persona su cinque ritiene che il proprio orientamento sessuale l’abbia svantaggiata nel corso della vita lavorativa in termini di avanzamenti di carriera e crescita professionale”. Che cosa ci può dire al riguardo?
Tranne due casi, che risalgono ad anni fa, a livello aziendale non ho mai subito un attacco diretto alla mia sessualità. Riguardo al resto invece confermo come lo svantaggio sia ben evidente sul fronte della carriera. Nella mia esperienza lo sto soffrendo tanto. Io sono sempre stato dichiarato e non ho mai nascosto la mia omosessualità; posso dire che i riflessi si sono visti soprattutto su determinati aspetti.
Quali, ad esempio?
C’è purtroppo l’idea diffusa e data per scontata da parte di diversi responsabili e colleghi che, se sei omosessuale, risulti automaticamente single, senza famiglia o figli, e per questo disponibile a priori a gestire una mole maggiore di lavoro rispetto agli altri. In pratica se ci sono delle scadenze di lavoro vengono concentrate su chi viene ritenuto, sempre secondo stereotipo, “libero” dagli impegni, come se fosse corretto fare un ragionamento del genere. La sintesi che mi sono spesso sentito dire è: “Tanto tu che cosa devi andare a casa a fare?”. Eppure anch’io ho le mie cose da gestire, come tutti.
Quella che raccontiamo è una vera e propria dinamica strumentalizzante e anche discriminatoria (perché agisce un trattamento di svantaggio destinato ad alcune persone) scaturita da un pregiudizio.
Da anni sono fermo alla stessa posizione nonostante abbia investito molto nella formazione, anche di tasca mia: sinceramente il dubbio che ciò derivi dal mio orientamento sessuale è più che lecito e nessuno me lo toglie. In azienda ho anche caldeggiato di fare incontri di formazione e sensibilizzazione sul tema della diversità e delle pari opportunità: purtroppo non ho avuto riscontri in merito.
Focalizzandoci sul tema pregiudizi, qual è quello più diffuso in ambito lavorativo legato all’aspetto dell’orientamento sessuale?
Secondo me è la paura di qualcosa che non si conosce, e per questo si sta alla larga da essa. La conoscenza e il confronto scardinano questa paura. A livello lavorativo mi è capitato di gestire anche una squadra di operai, e insieme scherzavamo senza problemi, perché da parte di questi lavoratori c’era una cultura sociale presente.
Gli stereotipi tendono anche a identificare l’orientamento sessuale con la propensione ad alcuni lavori.
Si crede erroneamente che siamo tutti portati a fare i parrucchieri o lavori creativi o legati alla comunicazione, ma l’orientamento sessuale è una cosa, le competenze professionali e le capacità un’altra, e non hanno identificazioni di genere oppure di orientamento: dipendono dalle nostre aspirazioni, che riguardano la persona in quanto tale.
L’attenzione nei confronti della diversità è più diffusa nelle grandi aziende o nelle piccole e medie imprese?
Da quello che ho intercettato io, ci sono più rispetto e attenzione nelle grandi aziende. I problemi sembrano sorgere perlopiù nelle piccole e medie imprese.
Perché, secondo lei?
Nel contesto delle grandi aziende si investe di più in formazione e sensibilizzazione. Inoltre ho notato più attenzione nei confronti di questi temi da parte di aziende guidate da donne e da persone più giovani.
Che cosa consiglierebbe a un’azienda per prevenire queste situazioni di stereotipi?
Investire in modo concreto nella formazione e in percorsi gestiti da professionisti e professioniste che siano davvero competenti e coerenti rispetto ai temi dello stigma. Penso in questo caso a sociologi, psicologi e diversity manager.
Nel 2022 possiamo quindi dire che il contesto di lavoro è ancora influenzato dagli stereotipi relativi all’orientamento sessuale?
Assolutamente sì, soprattutto se penso alle persone transgender.
Ad oggi il coming out come viene vissuto nel contesto di lavoro? Come un passaggio “obbligato”, una conquista, una prova da superare?
Se a livello famigliare è ritenuto importante e ormai sdoganato, a livello lavorativo il coming out è ancora un tabù. La maggior parte delle persone che conosco evitano il coming out in ambito lavorativo, c’è chi teme discriminazioni o addirittura di perdere il lavoro. Chi sceglie di fare coming out in ambito lavorativo di solito lo fa per liberarsi da un peso, e quindi evitare di ricevere domande inopportune o battute. Va ricordato che non siamo tenuti a farlo: io stesso nel tempo l’ho capito.