È un connubio di stanchezza e voglia di voltare pagina quello che si legge negli occhi di Alessia (nome di fantasia), mamma di Mattia (altro nome di fantasia), un bambino di cinque anni e mezzo, che da quando ha iniziato la scuola dell’infanzia si scontra con le asprezze della medicalizzazione selvaggia da parte delle insegnanti. Anche questa testimonianza proviene dalla Lombardia.
“Sin dai primi mesi di frequenza non c’è mai stata una parola positiva o di incoraggiamento nei confronti di Mattia, e tutto questo ha determinato delle conseguenze su noi genitori e sul bambino”, premette.
Alessia ripercorre per filo e per segno l’intera vicenda anche se non è facile. “Mattia ha iniziato la scuola dell’infanzia nel 2020, in piena pandemia. Il primo colloquio, come tutti, è stato fatto a distanza, e dopo solo un mese e mezzo di frequenza le maestre mi hanno detto che il bambino non sapeva né interagire con gli altri né esprimersi bene e quindi di portarlo dalla logopedista: per noi è stata una doccia fredda”.
Alessia spiega però che dalla logopedista Mattia c’era già stato, avendo come gli altri bambini partecipato allo screening del linguaggio. La visita logopedica, quella effettuata dalla neuropsichiatra e dallo psicologo dell’UONPIA di riferimento non avevano riscontrato problemi. “L’ho fatto presente, ma per le maestre non faceva alcuna differenza. Quello che mi aveva colpito era l’assenza di empatia e soprattutto il loro tono freddo, di giudizio; nel caso in cui Mattia avesse avuto problemi non sarebbe stata comunque una colpa. Continuavano a ribadire che, nonostante mostrassero al bambino come fare alcune cose, lui non era capace di farle”.
Quel “non” diventa per la famiglia di Alessia un loop costante in occasione dei colloqui per tutti e tre gli anni di scuola, e fagocita ogni possibile iniziativa. “Noi genitori abbiamo spiegato più volte che a casa Mattia non mostrava le difficoltà segnalate a scuola ma non venivamo creduti. È come se il nostro riscontro non contasse nulla: le maestre ci hanno fatto sentire in colpa e anche inadeguati, dicendo che eravamo noi a sostituirci al bambino in alcune cose”.
Il tempo trascorre, ma la situazione non migliora. “Non convinte del responso del servizio pubblico di neuropsichiatria, le maestre ci hanno detto di andare dalla psicomotricista”, spiega Alessia. “Dopo tanto insistere, hanno instillato in noi il dubbio che qualcosa non andasse per davvero”.
Stavolta Alessia e suo marito si rivolgono al privato, pagando di tasca loro sia valutazioni che intervento di psicomotricità. Al colloquio successivo è la stessa psicomotricista a dire alle maestre che Mattia non presentava problemi, al massimo un po’ di timidezza, che di sicuro non è qualcosa da medicalizzare. “Ipotizzando di intervenire sull’ambiente scolastico per dare più agio al bambino, le maestre si sono messe subito sulla difensiva ribadendo che Mattia non riusciva a concentrarsi né a rispettare le tempistiche, e che non era al passo con il resto della classe”, sottolinea Alessia con amarezza. “Hanno di nuovo messo in discussione il riscontro dell’UONPIA, perché nel frattempo abbiamo rifatto altre valutazioni”.
Ma intanto Mattia con che stato d’animo andava a scuola, che cosa provava? “Non era felice come non lo è tutt’ora di andarci; lui dice che è ‘stufosa’”, racconta Alessia, “mentre con noi, i nonni e in altri contesti è sereno e curioso. A scuola sente una forte pressione su di lui”.