Con la cravatta tra i denti

Un piccolo negozio che vive nelle stesse pareti di 104 anni fa, dove in 20 metri quadrati, tra i mobili antichi, tutto è incastrato al millimetro. A entrarci sembra di stare in un museo. Un luogo che ha osservato Napoli per oltre un secolo, che ha visto incedere quattro generazioni e attraversato insieme alla sua […]

Un piccolo negozio che vive nelle stesse pareti di 104 anni fa, dove in 20 metri quadrati, tra i mobili antichi, tutto è incastrato al millimetro. A entrarci sembra di stare in un museo. Un luogo che ha osservato Napoli per oltre un secolo, che ha visto incedere quattro generazioni e attraversato insieme alla sua città vari tsunami.

Sì perché, anche se vivi a Napoli e di cognome fai Marinella, la cravatta a volte ti viene voglia di tenerla tra i denti, invece che al collo. Il motivo è semplice: il nostro Paese non fa nulla per valorizzare il suo patrimonio artigianale. Quell’universo pieno di competenze e maestranze che caratterizzava ogni regione della penisola si sta disperdendo, quasi polverizzando. E se in Italia far sopravvivere il valore di questi mestieri è una missione impossibile, “farlo a Napoli è una missione ai confini con la realtà”. Maurizio Marinella non ha dubbi e le sue non sono le parole del figlio di papà che ha trovato tutto pronto e ora lo deve solo scaldare. La sua è la voce di un uomo che ha vissuto i cambiamenti della città, della società, del lavoro e che tutti i giorni alle 6.30 del mattino apre bottega di fronte a Piazza Vittoria; questi cambiamenti li affronta con la consapevolezza di chi non vorrebbe essere in nessun altro posto.

 

Perché scendere la mattina a lavorare è diventato così difficile?

Per l’artigianato storico è un periodo faticoso. Tutte le grandi sartorie sono in difficoltà perché i ragazzi non vogliono più fare questi antichi mestieri, per loro è molto più semplice lavorare in un call center. E non importa andare molto lontano, basta volgere lo sguardo a Torre del Greco dove oggi si lavorano i coralli e si producono incredibili cammei. Ma ormai gli incisori sono in via d’estinzione, una volta che smetteranno di lavorare le vecchie maestranze non ci sarà più nessuno a prendere il loro posto. Non c’è più nessuno che ha voluto imparare l’arte di quel mestiere.

Stiamo perdendo patrimonio da Nord a Sud, possibile che neanche Napoli riesca a tener fede a una vocazione artigianale?

Forse Napoli un po’ più di altre città conserva la sua “arretratezza”, ad esempio rispetto a Milano, New York, Londra e Parigi. E conserva per ora anche alcune storiche micro realtà che, se non verranno alimentate e aiutate, saranno destinate a morire. Napoli possiede ancora uno dei più grandi ombrellai, praticamente è rimasto solo lui sopra i quartieri (Mario Talarico, N.d.R.). E poi ci sono tante piccole storie di straordinarietà che rappresentavano il dna della città, ma che oggi fanno molta fatica a resistere.

Perché si è erosa questa tradizione?

Perché le persone non hanno più il senso del dovere e del sacrificio. Prima fare la gavetta da un grande artigiano era un onore, ora dopo dieci giorni i ragazzi si sentono già tutti amministratori delegati. Noi, ad esempio, per assumere manodopera ci appoggiamo a istituti professionali dedicati, però le ragazze dopo una settimana di lavoro si sentono già delle stiliste. Si lavora senza umiltà, senza spirito di sacrificio. Le realtà come la nostra necessitano di manodopera qualificata e specializzata, di un percorso superiore a quello di tantissimi altri mestieri, ma il Paese non sa valorizzare queste figure tra i giovani. La nostra azienda ha 104 anni e nessuno ci ha mai offerto una targa, un riconoscimento, nessuno banalmente ci ha mai detto “ti aggiustiamo la strada davanti al negozio”. 

E quindi come si deve lavorare per non soccombere?

Si scende la mattina con il coltello tra i denti, si combatte, ci si impegna. Noi apriamo tutti i giorni alle 6.30 del mattino, non faccio vacanze, non faccio week end, sono sempre a lavorare. E non per far crescere il bilancio e far salire i grafici e le fatture, soltanto per la voglia, che non mi è ancora passata, di far conoscere al mondo una Napoli bella, che lavora, che si impegna, che cerca di trasmettere accoglienza. Non vogliamo più sentir parlare di noi solo per la spazzatura e la terra dei fuochi.

Non deve essere stato facile affrontare quel periodo.

Quando si abbatte sulla città uno tsunami come quello in tre giorni si azzera l’economia, il commercio, l’agricoltura e il turismo. Essere napoletani, in quel momento, è stato veramente difficile. Però noi combattiamo, siamo arrivati a 104 anni e vogliamo arrivare a 200. Del resto la città sta vivendo un momento di grande euforia. Il venerdì, il sabato e la domenica quasi mai si parla l’italiano e questa è una bella emozione. Sono almeno tre anni che viviamo questa atmosfera e ci rincuora. Del resto io non saprei vivere in nessun altro posto. Tutta la mia vita è stata qua, mio nonno, mio padre sono cresciuti qui e ora c’è anche mio figlio Alessandro. Siamo alla quarta generazione e questo è un miracolo nel miracolo.

Come è avvenuto nella vostra famiglia il passaggio generazionale?

Siamo sempre stati fortunati. I Marinella fanno sempre un solo figlio maschio, quindi il problema non si pone. Mio nonno ha avuto tante figlie femmine e solo un maschio – Luigi – poi mio padre ha avuto un maschio e una femmina, e io ho avuto Alessandro.

La genetica vi aiuta.

Ci aiuta e finora ci ha dato una sola possibilità, prendere o lasciare. Abbiamo preso ed è andata bene.

E invece a livello di costume quali cambiamenti ha notato in questi anni?

Prima le persone avevano più tempo e più cura del loro abbigliamento. Ci si vestiva in un determinato modo la mattina, in un altro il pomeriggio e in un altro ancora la sera. La gente sapeva come vestirsi, in ogni occasione. Gli uomini amavano lo smoking, il Tight e c’erano tante belle divise. Oggi si esce di casa alle 6 del mattino, senza sapere cosa si farà la sera, senza sapere se ci sarà la possibilità di rientrare a casa a cambiarsi. E così ci vestiamo tutti di grigio e di blu con la camicia bianca o azzurra. Lo scopo è andare bene in ogni contesto. E purtroppo c’è di più. In questi anni la tecnologia ha massacrato le scelte personali dell’abbigliamento.

Parla degli acquisti on line?

Parlo di quel maledetto telefonino. Non si può scegliere una cravatta se prima non hai mandato la foto alla fidanzata, alla mamma, alla sorella. Poi la fidanzata non è convinta, allora la mandi anche a tuo padre. Per la scelta di una cravatta intervengono 12 persone. E non parliamo dei matrimoni perché quelli sono eventi apocalittici, bisogna gestire tutte le ramificazioni: i testimoni, il padre dello sposo… telefonate su telefonate, fotografie su fotografie.

Il matrimonio come evento apocalittico è un’immagine divertente. Mi sembra che al di là degli tsunami e dei cambiamenti sociali non abbia perso nulla di quella verve che è tipica dei napoletani. 

Io sono contento e orgoglioso, non solo di quello che facciamo ma proprio di essere napoletano. E felice di essere italiano, anzi dobbiamo considerarci tutti fortunati solo per il fatto di essere nati qui. In tutto il mondo cercano di imitarci, di mangiare come noi, di vivere come noi. Anche se noi non ce ne rendiamo conto e perdiamo i nostri valori per strada, io rimango contento di esserci e alle richieste dei soliti ignoti che vorrebbero comprarci a fronte di un’offerta di centinaia di milioni di euro, dico sempre no. Lavorando vivo ancora un’emozione e quella me la tengo stretta, quella non la vendo.

 

Foto di copertina: Archivio E. Marinella

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