Crisi del lavoro e calo demografico: i gemelli diversi

Il lavoro è il problema numero uno nella gerarchia delle priorità degli italiani, la prima questione di cui dovrebbe farsi carico l’agenda di governo. Secondo gli ultimi dati dell’Eurobarometro ‒ l’istituto incaricato di sondare periodicamente le opinioni pubbliche europee ‒ la disoccupazione preoccupa il 44% degli italiani, cioè il doppio rispetto alla media dei cittadini […]

Il lavoro è il problema numero uno nella gerarchia delle priorità degli italiani, la prima questione di cui dovrebbe farsi carico l’agenda di governo. Secondo gli ultimi dati dell’Eurobarometro ‒ l’istituto incaricato di sondare periodicamente le opinioni pubbliche europee ‒ la disoccupazione preoccupa il 44% degli italiani, cioè il doppio rispetto alla media dei cittadini europei (21%). Al di fuori di ogni retorica e propaganda, nel nostro Paese la mancanza di lavoro, o di un impiego soddisfacente, assilla il doppio rispetto all’immigrazione (segnalata dal 22%), più di tre volte rispetto al tema delle pensioni (12%), cinque volte di più della criminalità (9%).

 

Crisi del lavoro: in Italia aumenta l’occupazione ma diminuiscono le ore lavorate

Come mai si raccolgono queste inquietudini proprio nel momento in cui il tasso di occupazione nel nostro Paese ha raggiunto una cifra da record? A prima vista potrebbe apparire come una percezione incoerente, visto che negli ultimi quattro anni il numero di occupati in Italia è tornato a crescere. Anzi, dopo un lungo periodo di flessione, alla fine del 2018 alla conta risultavano 321.000 occupati in più rispetto al 2007, l’ultimo anno prima dell’inizio della crisi, con un incremento dell’1,4% rispetto ad allora. Insomma, si può correttamente affermare che abbiamo recuperato tutti i posti di lavoro persi a causa della crisi e che l’impatto in termini occupazionali della lunga recessione è stato pienamente riassorbito.

Qualcuno ha esultato: «Non si vedevano questi numeri dal lontano 1977». Difficile risalire più indietro nel tempo, per la verità, perché l’Istat ha ricostruito la serie storica dei principali aggregati del mercato del lavoro proprio a partire da quell’anno. Ma, al di là della ovvietà di questa considerazione, la vera domanda è: se in questi anni si è creata così tanta occupazione, perché l’economia non cresce? Per il 2019 la crescita del Pil attesa oscilla tra lo 0,1% (come rimportato nella Nota di aggiornamento al Def) e lo 0,2% (come stimato dall’Istat e confermato dalla Commissione europea). Qualcosa non torna.

In realtà, la risposta è semplice. Il dato sugli occupati non si può leggere isolatamente. Infatti, in questi anni, mentre i lavoratori aumentavano, è crollato il numero delle ore lavorate. Nell’ultimo anno sono state 2,3 miliardi in meno nel confronto con il 2007: si sono ridotte del 5%. Da cosa è dipeso?

 

I veri dati sulla disoccupazione

Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che al momento ci sono ancora 160 tavoli aperti per crisi aziendali presso il Ministero dello sviluppo economico. E che nell’ultimo anno le ore di cassa integrazione sono state 216 milioni, ancora 32 milioni in più di dieci anni fa. Si noti che i cassintegrati formalmente un impiego ce l’hanno, quindi statisticamente ingrossano le file degli occupati: può sembrare un paradosso, ma è così.

In aggiunta, in questi anni si è verificata una crescita straordinaria degli impieghi part time, aumentati del 38% rispetto al 2007. Gli occupati che lavorano a tempo parziale sono 4,3 milioni. E ad aumentare in maniera ancora più rilevante è stato il part time involontario: +131% rispetto al 2007, ovvero 1,5 milioni di lavoratori in più da allora. Oggi due terzi delle persone con un impiego a tempo parziale ne vorrebbero uno a tempo pieno, ma non riescono a trovarlo.

Questa condizione riguarda in modo particolare i giovani. Da questo punto di vista, il lavoro è diventato uno dei principali generatori di disuguaglianze sociali. La tendenza descritta si è consolidata anche nel 2019: nel primo semestre dell’anno gli occupati totali sono aumentati dello 0,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, gli occupati con un lavoro part time del 2% e quelli con un part time involontario del 2,9%.

Tirando le somme di questa lunga carrellata di dati risulta che, poiché si è ridotto il numero medio di ore lavorate per addetto, le unità di lavoro a tempo pieno equivalenti sono diminuite del 3,8% rispetto al periodo pre-crisi: sono 959.000 in meno. Risultato? Cresce l’occupazione, è vero, ma non le retribuzioni, i redditi e il Pil. L’ottimismo, allora, va ricondotto a innocenti abbagli statistici oppure dalla propaganda politica. Perché, in realtà, c’è poco da essere contenti. Ecco perché il lavoro resta in cima alle preoccupazioni degli italiani.

 

Gli effetti economici del calo demografico

E per il futuro? Che cosa dobbiamo aspettarci? Una delle questioni che nei prossimi anni impatteranno maggiormente sul mercato del lavoro è senza alcun dubbio la radicale transizione demografica che stiamo vivendo. Pochi lo sottolineano, ma l’Italia è ormai da quattro anni in flessione demografica. La popolazione ha cominciato a diminuire dal 2015: non era mai accaduto prima nella nostra storia. Visto attraverso la lente degli indicatori demografici, il nostro appare un Paese sempre più invecchiato, con pochi giovani e pochissime nascite.

Un Paese rimpicciolito. Già, perché rispetto al 2015 la popolazione complessiva conta 436.000 cittadini in meno. È l’effetto del mancato ricambio generazionale: nell’ultimo anno sono nati solo 440.000 bambini ‒ il minimo storico da quando possediamo statistiche demografiche, ovvero l’anno 1861 ‒ e il saldo migratorio non compensa più il saldo naturale (nascite meno decessi).

Ma quello che è ancora più inquietante è lo scenario che dobbiamo attenderci di qui ai prossimi trent’anni. Secondo le proiezioni dell’Eurostat, nel 2050 la popolazione italiana sarà diminuita di 4,5 milioni di persone, scendendo dagli attuali 60,3 milioni a 55,8 milioni. È come se le due principali città italiane, Roma e Milano insieme, scomparissero. Le previsioni della divisione di statistica delle Nazioni Unite sono ancora più pesanti: ipotizzando minori flussi migratori, la riduzione attesa è di 6,2 milioni di persone.

Nelle scienze sociali ed economiche, le previsioni demografiche sono quelle più affidabili, perché si basano sul calcolo della riduzione del numero delle donne in età fertile, che si è notevolmente ridotto a causa della parabola di denatalità che abbiamo registrato negli ultimi anni. E non c’è bisogno di ricordare che una delle principali variabili correlate al peso economico e politico di un Paese sul piano internazionale è proprio il suo peso demografico. La domanda da porsi è: come questi cambiamenti influenzeranno il mondo del lavoro? Il punto è che la riduzione di popolazione si concentrerà nella fascia di età attiva 15-64 anni: 8,7 milioni di persone in età lavorativa in meno secondo l’Eurostat, 10,3 milioni in meno secondo le Nazioni Unite.

La piramide demografica completamente rovesciata e la riduzione della popolazione attiva si tradurrebbero in una forte contrazione dell’economia, con gravi implicazioni per la sostenibilità del nostro debito pubblico e della spesa sociale, sempre più necessaria in ragione dell’invecchiamento della popolazione in termini di sanità, assistenza, pensioni.

 

Le politiche per la genitorialità e le pari opportunità come chiave per il futuro

Sono prospettive davvero allarmanti: un annunciato shock demografico ed economico. Che fare, dunque?

Servono senza più esitazioni politiche di sostegno alla genitorialità ‒ un ambito in cui il nostro Paese non ha mai brillato ‒ con interventi drastici e strutturali. E serve una seria politica di programmazione dei flussi migratori in entrata, al di là dell’emergenza e della gestione della prima accoglienza. Ma c’è un ulteriore capitolo di interventi ispirato direttamente dalle previsioni demografiche. Sarà indispensabile portare a livelli di saturazione tutta la (poca) energia lavorativa disponibile, favorendo l’ingresso nel mondo del lavoro di chi ne è maggiormente escluso: i giovani e le donne.

Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è tra i più alti d’Europa e il tasso di attività femminile è semplicemente il più basso rispetto a tutti gli altri Paesi: oggi è al 56,2%, nettamente inferiore al 75,1% degli uomini. Le potenzialità sono perciò enormi. In questo caso servono misure per conciliare l’attività lavorativa con gli impegni familiari, di cui le donne si fanno carico in modo prevalente (cura dei figli, assistenza a persone anziane, faccende domestiche). Non solo bonus bebè e asili nido pubblici, ma anche e congedi parentali più generosi.

Al punto in cui siamo, non si tratta più solo di garantire pari opportunità nell’accesso al mercato del lavoro, di tipo generazionale (favorendo i giovani esclusi rispetto alle persone più avanti con l’età) e di genere (incoraggiando le donne ai margini rispetto agli uomini). Perché in gioco c’è il destino dell’intero Paese.

 

 

Photo by elen aivali on Unsplash

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