Il cuoco senza il cameriere

Uno sguardo su due mondi: quello della ristorazione e quello della formazione. Come si legano, come si incrociano. Dove non si incontrano. La scuola è in grado di preparare i giovani alle nuove tendenze della ristorazione? Con quali limiti? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Romanelli, cuoco e insegnante, sommelier e giornalista. Qui parla da insegnante? […]

Uno sguardo su due mondi: quello della ristorazione e quello della formazione. Come si legano, come si incrociano. Dove non si incontrano. La scuola è in grado di preparare i giovani alle nuove tendenze della ristorazione? Con quali limiti? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Romanelli, cuoco e insegnante, sommelier e giornalista. Qui parla da insegnante? Non proprio. Esplora il mondo della scuola, ne elenca punti di forza e criticità, ma soprattutto manda un messaggio forte ai giovani che vogliono intraprendere il mestiere di cuoco, di barman. E, potrebbe sembrare strano, l’occhio più attento è rivolto ai futuri camerieri.

 

Come si struttura il legame tra la scuola e il lavoro?

L’alternanza scuola-lavoro è sempre stata uno degli elementi caratterizzanti della scuola alberghiera, che poi oggi si chiama Istituto Professionale per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione. Gli studenti hanno sempre avuto uno sbocco abbastanza naturale nel mondo del lavoro; in particolare i ragazzi possono testare subito la professione perché cominciano gli stage già al secondo anno. I primi due anni sono uguali per tutti, dal terzo possono scegliere la specializzazione. Quindi lo stage arriva al momento giusto, per prepararli a una decisione. Il punto di forza è che tutti gli anni questo stage si ripete e i ragazzi possono mettersi alla prova a livelli diversi. Uno dei limiti è la durata.

È troppo corto?

Dura solo quindici giorni, e appena si comincia a capire qualcosa si torna a casa. Il problema è dibattuto, perché ovviamente non si possono sfruttare gli studenti nel periodo estivo, però in quindici giorni si fa appena a tempo ad ambientarsi.

In più, mi metto dalla parte di chi ospita lo stagista, se so che resta solo pochi giorni, non posso di certo investire molte energie per formarlo.

E a questo si aggiunge il fatto che le ore di pratica a scuola sono diminuite, per ovvi motivi di costi. Tutti questi elementi vanno analizzati: o si investe di più nella scuola o si organizza un’alternanza scuola lavoro più radicata. Le scuole private, ad esempio, hanno stage più lunghi che permettono di investire molto di più nella formazione.

Comunque rimane il punto di forza della continuità.

Il fatto che tutti gli anni lo stage si può ripetere è fondamentale, soprattutto considerando che oggi la scuola alberghiera ha un bacino d’utenza molto ampio. È frequentata anche da ragazzi che non hanno le idee chiare sul loro futuro professionale, e il fatto di iniziare subito a misurarsi con la pratica permette di schiarirsele parecchio.

Parliamo del livello di preparazione di chi forma nelle scuole. La ristorazione cambia continuamente; gli insegnati si adeguano?

In realtà ci sarebbe bisogno di una formazione continua anche per gli insegnanti, in modo che si possano adattare alla cucina che cambia. Il mutamento è continuo, ed evitare di insegnare ricette o tecniche vetuste, che non hanno più collegamento con la realtà, è assolutamente necessario. Però è anche vero che la cucina si evolve con strumentazioni costosissime che spesso la scuola non può permettersi. Il problema è sempre quello dei costi.

Tutta la copertura mediatica e le trasmissioni dedicate alla gastronomia che effetto hanno sui ragazzi e sulla scuola?

L’aspetto mediatico non si può demonizzare perché ha creato moltissimo interesse nel settore. Oggi i cuochi sembrano delle star, come i cantanti e gli attori, e l’immaginario collettivo sulla professione è cambiato. Prima si aveva l’idea del cuoco “lezzone”, una figura sporca e poco presentabile; oggi chi fa questo mestiere è sotto i riflettori. La giacca bianca è affascinante e la trasformazione è stata molto più che positiva, perché tutta questa esposizione obbliga a una serie di “saper fare”. Il saper parlare, il saper comunicare e il saper gestire la propria persona.

Il rovescio della medaglia?

Che se i ragazzi entrano a scuola pensando che quella sarà la loro carriera sbagliano di grosso. Può essere che lo sia, ma è come entrare in una scuola calcio: la probabilità di arrivare in serie A è più o meno la stessa. Però l’opportunità di fare un percorso professionale molto valido è davvero alta.

Quindi i corsi di cucina all’interno della scuola rimangono i più richiesti.

Sì, e questo è positivo. La crisi è sulla sala, perché nessuno vuole più fare il cameriere. È una figura da ricreare completamente.

Come si possono valorizzare queste funzioni gregarie della ristorazione, oggi che vogliono fare tutti gli chef?

Senza la sala, la cucina non esiste. Questa è la riflessione fondamentale da cui partire. Cameriere è una parola senza fascino, e questo è il nodo da sciogliere. Una volta qualcuno mi ha detto “perché non fanno una bella trasmissione sui camerieri? Questo potrebbe rivitalizzare il settore”. Perché no, potrebbe anche essere, però mancherebbe la spettacolarità del gesto.

Allora da dove si dovrebbe ripartire?

Dall’idea che fare il cameriere, soprattutto ad alto livello, è un bel lavoro, perché implica cura della propria persona, conoscenza delle lingue e della cultura locale. Un professionista deve sapere che cosa succede nella sua città a livello di mostre ed eventi, e deve conoscere le lingue. Poi è un mestiere che permette molti approfondimenti: il percorso più naturale è quello del sommelier, ma si può incrementare la conoscenza del te, del caffè, dell’olio. Sono elementi che fanno la differenza e la scuola dovrebbe farne un punto di forza.

Quindi una trasmissione sui camerieri non la faranno mai?

La trasmissione, se ci sarà, sarà sui barman. Quello è un settore che va alla grande e dimostra quanto sia cambiato il mondo della miscelazione negli ultimi anni. Una prospettiva che fino a dieci anni fa era davvero impensabile. C’è fermento e voglia di innovare, soprattutto tra i giovani. I barman affermati sono un bellissimo esempio da portare nelle scuole, un modo per creare vera motivazione.

Ai ragazzi consiglierebbe uno stage in Italia o all’estero?

Io farei conoscere la realtà italiana, siamo un paese che ha tanto da offrire. Ma andare all’estero con l’esperienza fatta in Italia è un passaggio importantissimo, perché crea l’apertura internazionale. Quello per cui ti prepara la scuola alberghiera è un lavoro richiesto in tutto il mondo; non tutti i mestieri danno questa possibilità, ed è giusto sfruttarla. Inoltre parlare correntemente l’inglese è fondamentale, e io consiglierei anche il francese, perché chiunque si occupi di vino non può fare a meno di parlare la lingua dello Champagne e del Bordeaux. Poi, viste le nuove tendenze del gusto, è importante anche lo spagnolo. Sono tutte lingue che permettono un confronto intenso.

Quindi il livello culturale dei ragazzi deve essere molto più ampio di quello che si può immaginare.

Questo è il punto, gli insegnanti devono trasmettere il messaggio che, per capire e per creare, la cultura è indispensabile. La preparazione non può e non deve essere solo professionale.

Allora bisognerebbe cambiare nome alla scuola.

Sarebbe bello se la scuola si trasformasse in un liceo gastronomico. Nei primi due anni si dovrebbero motivare gli studenti aumentando l’esercitazione e instillando una cultura di fondo attraverso la storia, la cultura della gastronomia. Nei tre anni successivi l’alternanza scuola lavoro dovrebbe permettere ai ragazzi di andare in posti dove davvero possano mettersi alla prova. In questi tre anni devono capire le tendenze, le nuove tecniche e portare avanti la cultura leggendo libri che abbiano la gastronomia per protagonista. Io, che non sono un insegnante di italiano ma di esercitazione, faccio leggere libri come Julie & Julia, Chocolat, Estasi culinarie. E poi uno stage all’estero sarebbe perfetto, se istituzionalizzato.

E che cosa direbbe a un giovane che vuole distinguersi in questi mestieri?

La cultura ti rende libero e autonomo. Senza cultura la visione è ristretta, non ci sono prospettive di crescita. Essere preparato ti permette di divertirti anche facendo il cameriere, e ricordati che è sempre la persona stessa che qualifica il suo lavoro.

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