Dal chiamarli eroi al fare causa ai medici?

Da qualche giorno in ambito forense ha cominciato a circolare l’hashtag #nosciacalli, per rispondere a un tentativo di accaparramento di clientela che favoleggia risarcimenti in caso di (supposte) cattive cure ai deceduti per coronavirus. Alcuni consigli dell’Ordine degli Avvocati (Bari, Foggia, Forlì ed Ancona ad esempio) hanno preso aperta posizione deprecando la pratica. Nel contempo, alcuni avvocati […]

Da qualche giorno in ambito forense ha cominciato a circolare l’hashtag #nosciacalli, per rispondere a un tentativo di accaparramento di clientela che favoleggia risarcimenti in caso di (supposte) cattive cure ai deceduti per coronavirus.

Alcuni consigli dell’Ordine degli Avvocati (Bari, Foggia, Forlì ed Ancona ad esempio) hanno preso aperta posizione deprecando la pratica. Nel contempo, alcuni avvocati stanno popolando i loro profili Facebook e Twitter di frasi come queste:

 

Fare causa ai medici: di che cosa ci preoccupiamo?

Ho difficoltà a capire se il problema sia legato all’iniziativa spregiudicata di qualcuno che senza scrupoli sembra voler rubare il lavoro alle mosche, o alla tutela dei professionisti sanitari. Nel primo caso ovviamente non ci sarebbe molto di cui discutere, ma il tenore dei messaggi sulle bacheche mi fa pensare a un’emotiva levata di scudi a favore di chi fino a un mese fa era più che altro un bersaglio; di certo non un eroe da salvare. Sono confuso.

Leggendo questi messaggi, sembrerebbe che – a prescindere dall’accaparramento – i medici dovrebbero godere di un’esenzione di responsabilità, per il fatto che stanno salvando delle vite facendosi un mazzo tanto. Ma non è quello che fanno sempre?

Certo, oggi hanno turni ancor più massacranti, i loro corpi sono martoriati da mascherine e tute a tenuta stagna e la loro vita è in pericolo: circostanze idonee a escludere le loro colpe di fronte a una negligenza? Per la legge, quella che viene sbandierata nelle centinaia di atti giudiziari che ogni anno colpiscono i medici, non mi pare ce ne sia traccia. Se devi essere un bravo medico, lo devi essere sempre. O no? L’emergenza giustifica un abbassamento dei diritti dei parenti dei deceduti?

Il diritto è una fresa, spiana tutto: la legge è uguale per tutti. O no?

 

L’eccessivo carico di lavoro giustifica le negligenze mediche?

Si, sto facendo il provocatore, ovvio. Solo quello. Ma mi pare un po’ troppo facile oggi schierarsi a favore di coloro che rendono un servizio fondamentale alla società tutti i santi giorni e che non solo non vengono difesi da nessuno, ma vengono pure attaccati. E spesso senza motivo, considerato che la maggior parte delle accuse viene rigettata.

Quando faccio mediazioni in ambito di responsabilità sanitaria (nei rarissimi casi in cui tutti gli interessati sono presenti) resto colpito dalla mancanza di empatia e realismo delle vittime, che sembrano volere un medico al 100% sia di prima mattina che di sera tardi; a inizio come a fine turno, dopo 12, 24 o 36 ore, con o senza emicrania, con più o meno stanchezza e stress. Non vogliono un professionista in carne e ossa, vogliono un robot programmato per non commettere errori: talvolta mi sorprendo a chiedermi se non sia troppo facile trovare il pelo nell’uovo stando comodamente seduti su una scrivania in uno studio professionale o sullo scranno del giudice, applicando delle linee guida che non potranno mai racchiudere del tutto la complessità della realtà – e dell’uomo. Il tutto condito con richieste esorbitanti che paiono dover stigmatizzare la mancanza del sanitario, ma che talvolta sono solo il meccanico recepimento del “bisogno di giustizia” del cliente, che non accetta di essere incappato nell’ansa di una disciplina che non è affatto una scienza esatta.

Il problema, in questi casi, è gestire quel misto di rabbia e frustrazione, umanamente comprensibile ma professionalmente contenibile, di cui è preda il malcapitato. Nessuno vorrebbe integrare i punti percentuali delle statistiche più spaventose, e quindi al momento di firmare il consenso si allontana idealmente la possibilità di finire nel cluster sfortunato: la terribile verità è che qualcuno dovrà pure finirci. La domanda (interessante) è: ma quella piccola percentuale coincide con un errore medico? Se sì, in che misura? Oppure è incomprimibile? Un effetto collaterale, come si definisce in altri ambiti.

Due pesi e due misure perché c’è l’emergenza, quindi? Parliamone, ma io, facendo una piccola ricerca in giurisprudenza, non ho trovato pronunce che annoverano “l’eccessivo carico di lavoro” tra le scusanti nei casi di responsabilità sanitaria, benché sia buono per giustificare la responsabilità di magistrati (che, è vero, talvolta stanno anche loro subito dopo le trincee, ma non salvano immediatamente vite).

 

Quando la legge attacca la sanità: le cause ai medici valgono sempre o non valgono mai?

Ho paura che la questione sia un po’ più grande e possa investire anche l’art. 24 della nostra Costituzione, mettendolo in crisi: in tempi di vacche grasse i parenti delle vittime lo usano per placare la loro sete di capri espiatori, e gli avvocati (e i medici legali che fanno le perizie) per mandare avanti la bottega; mentre nei (rari) casi di carestia, quegli stessi avvocati, si rifiutano di usarlo. Ma allora a che serve?

Certo, forse non si tratta degli stessi avvocati (sebbene sarei curioso di andare a verificare se i crociati pro-medici hanno qualche causa di responsabilità medica nell’armadio), ma la questione non cambia: se io posso usare l’art. 24 per un fine e tu per quello opposto, il problema comincia, e non finisce, con questa norma.

Non è nemmeno tutta colpa degli avvocati: se i magistrati castigassero duramente e in maniera massiccia le domande temerarie probabilmente il vizietto passerebbe. Ma evidentemente la condanna per lite chiaramente infondata, pure prevista dalla legge, non è applicata, o non lo è al punto di disincentivare cause fatte tanto per tentare, o perché c’è 1% di probabilità, o “perché sarà il giudice a darmi torto”.

Oppure davvero, oggi, siamo diventati tutti più empatici e umani? Sono pessimista e temo che, passata questa buriana del virus, non vedremo così tanti crociati forensi pronti a difendere il malcapitato medico di turno.

 

Il cervello emotivo sui social e il virus dell’inconsapevolezza

Sono stato cattivo, lo ammetto: la maggior parte degli avvocati che ha usato l’hashtag lo ha fatto con le migliori intenzioni, che però, come è arcinoto, sono il pavimento del corridoio che conduce all’inferno.

Il fatto è che siamo scarsi pure di autoconsapevolezza, e dunque non sappiamo che non bisognerebbe postare sui social così compulsivamente, in preda alle emozioni del momento. E invece, tra una seduta al pensatoio e una pigra riflessione sul divano, si prende posizione subito, pensando pure di far bella figura; il che in una società superficiale e ipercinetica può anche andar bene. Rileggendo però il tutto con un minimo di calma (che oggi tendenzialmente si potrebbe recuperare) e immaginando un po’ di conseguenze di quello che si sta per pubblicare, forse si potrebbero fare considerazioni diverse.

Forse. Perché a giudicare dalla diffusione dell’hashtag #nosciacalli temo che il virus dell’inconsapevolezza sia abbastanza diffuso, e favorito da quel copia-e-incolla il cui uso viene pure allegramente confessato: d’altro canto il pensiero critico e riflessivo non è insegnato alle università. Figurarsi il pensiero proattivo.

Per parte mia, credo che la differenza la si faccia tutti i giorni, soffrendo e combattendo per quei valori che non si mostrano solo in caso di emergenza: sono sempre lì, solo che si fa fatica vederli e proteggerli, sopraffatti da altre – più pressanti? – esigenze.

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