Di nuovo in piedi. Le applicazioni mediche della stampa 3D

Quando una decina di anni fa si cominciò per la prima volta a parlare dell’utilizzo della stampa 3D in ambito medico, subito si gridò allo scandalo. Tante furono le obiezioni poste dai membri delle comunità medico-scientifiche, soprattuto riguardo questioni squisitamente tecniche e inerenti l’utilizzo di materiali ritenuti più o meno congrui, ma ciò che più […]

Quando una decina di anni fa si cominciò per la prima volta a parlare dell’utilizzo della stampa 3D in ambito medico, subito si gridò allo scandalo.

Tante furono le obiezioni poste dai membri delle comunità medico-scientifiche, soprattuto riguardo questioni squisitamente tecniche e inerenti l’utilizzo di materiali ritenuti più o meno congrui, ma ciò che più di tutto destava perplessità erano gli aspetti etico-giuridici relativi a tale rivoluzione.

Definito metodo disruptive proprio perché aveva il potere di sovvertire e creare scompiglio nei canoni e nelle norme imposte dalla medicina tradizionale, l’utilizzo della stampa 3D in ambito medico è stato anche oggetto di dibattito in un incontro organizzato nel marzo 2017 dal Centro Interdipartimentale di ricerca in Storia del diritto, Filosofia e sociologia del diritto e Informatica giuridica (CIRSFID) dell’Università di Bologna.

I vantaggi della stampa 3D in medicina

Tra i vantaggi relativi a questa tecnica vi è senza ombra di dubbio la possibilità, per molte applicazioni mediche, di utilizzare materiali standard e a basso costo. Ciò è dovuto soprattuto al fatto che molte delle applicazioni realizzate mediante la stampa 3D non sono destinate al contatto con mucose ma create per utilizzo “esterno”, cosa che di conseguenza non impone l’uso di materiali biocompatibili che ne farebbero lievitare notevolmente i costi.

Altro vantaggio è relativo alla possibilità di realizzare l’oggetto stampato in un unico pezzo, il che si rivela particolarmente utile quando, a seguito di complicate diagnosi scaturite da immagini di TAC, lo specialista ha la possibilità di stampare ed esercitarsi sul calco in 3D prima di eseguire l’intervento sul proprio paziente.

Dalle origini al boom

Comparto esploso a partire dal 2011, dopo la scadenza dei brevetti originali di Chuck Hull del 1986, la stampa 3D oggi può godere di tutte le libertà offerte dal libero mercato, che in tale contesto ha dimostrato di essere una vera e propria panacea.

Infatti la maggior parte delle innovazioni sono state apportate proprio a partire dal 2011, tanto che da quel momento in avanti il bisogno di norme relative alla protezione delle paternità intellettuali e alla regolazione della filiera si è fatto sempre più urgente.  In Italia, poi, la diffidenza verso un comparto la cui nascita pare essere legata alla tradizione fantascientifica, più che alla scienza, è ancora grande, tanto che i professionisti che si avvalgono di tale tecnica nel Bel Paese sono ancora pochi.

La storia di Marco Avaro

Marco Avaro, ingegnere biomeccanico di Pordenone, invece è uno di quei professionisti  italiani che hanno sempre creduto nella forza e nelle potenzialità della stampa 3D. Specialista nella realizzazione di protesi in 3D per chi ha subito la perdita di un arto, Avaro vanta al suo attivo svariate missioni con la Croce rossa italiana e numerose attività in ambito umanitario.

«Il mio lavoro va al di là della semplice costruzione di un arto», sottolinea l’ingegnere friulano. «Prendere in carico un paziente vuol dire, innanzitutto, averne cura e penetrargli nella testa e nell’anima al fine di abbatterne le relative paure e resistenze legate proprio al suo stato. Bisogna per prima cosa capire ciò che il paziente vuole in quel particolare e doloroso momento della sua vita, e in seguito, compatibilmente alle capacità fisiche della persona, si cerca di creare un arto che lo possa aiutare quanto prima ad avere una vita il più normale possibile».

Avaro sostiene con orgoglio di svolgere un’attività gratificante non solo dal punto di vista lavorativo, ma soprattutto umano: «La stampa in 3D ci dà un grandissimo aiuto dal punto di vista tecnico perché ci consente di realizzare arti con le medesime caratteristiche di quelli originali, ma ciò che mi gratifica maggiormente è quando riesco a entrare in sintonia con il paziente e a creare ciò che egli immagina per sé. Questo, per quanto mi riguarda, è quasi un miracolo tradotto in scienza».

Stampa 3D e creazione di protesi

In ambito medico, la stampa di protesi e tutori pare essere il filone più innovativo della tecnologia 3D. Questo, infatti, si propone di unire l’estetica all’utilità al fine di rendere l’oggetto medico visivamente gradevole e garantire un impatto psicologico decisamente migliore.

Nel 2014, in Gran Bretagna, è stato anche creato un dispositivo medico in grado di aiutare i pazienti affetti da artrite, reumatoide e sempre nel Regno Unito è stato elaborato  un software dai ricercatori dell’Università di Loughborough che ha permesso di dare alle stampe stecche da polso traspiranti e dal design accattivante.

«Il nostro è un vero e proprio lavoro artistico, perché quando si plasma esteticamente la materia per dar vita a una protesi la si dota anche di funzionalità e tecnicità» prosegue Marco Avaro. «L’arte implica un sogno oltre che la volontà di farcela. Quando lavoro con un paziente, in particolare con chi prima dell’evento traumatico svolgeva attività sportiva o artistica per professione, m’impegno a creare qualcosa che lo aiuti a tornare quello che era un tempo. Quest’obiettivo, per quanto mi riguarda, va oltre la scienza. Infatti la definirei quasi iperscienza, che penso sia un passettino in più rispetto alla precedente proprio perché in grado di svolgere anche una funzione sociale».

Tanti, però, gli inconvenienti a cui Avaro va incontro nel corso del suo lavoro, in primis quelli dettati dalla resistenza psicologica da parte del paziente. «Il fallimento fa parte di questa professione. Mi sono capitati casi in cui, per quanto avessi lavorato sinergicamente con un paziente alla realizzazione del suo arto, la protesi, una volta stampata, non rispettava le sue aspettative sia dal punto di vista estetico che pratico. In questi casi cerco sempre di migliorare la situazione, alle volte senza risultati perché la resistenza emotiva del paziente è più forte di tutto.»

«Questa, unita al trauma della perdita dell’arto, provoca un forte senso di sconforto e smarrimento sia in chi ha ricevuto la protesi che in chi l’ha costruita. I miei fallimenti sono qualcosa che conto e ricordo sempre, sia perché con il paziente si è instaurato, nel corso del tempo, un legame affettivo, sia perché mi fanno da monito».

La resistenza italiana alla stampa 3D

Spesso, come sottolinea Avaro stesso, anche il retaggio culturale italiano, da sempre poco avvezzo alle innovazioni, gioca il suo ruolo: «Il tipo di comunicazione che solitamente viene fatta in Italia ha un ruolo fondamentale. Spesso vengono fatte vedere persone che subito dopo l’istallazione della protesi tornano ad arrampicarsi o a correre maratone, e ciò genera false aspettative in chi si appresta a compiere questo percorso».

«Infatti, spesso, ci si dimentica di porre in evidenza gli sforzi compiuti da chi, dopo un’amputazione, ritorna a fare un certo tipo di attività e che molto spesso implicano allenamenti giornalieri, dieta, ed estenuanti sedute di terapia. La stampa in 3D, purtroppo, non è una panacea, quindi bisognerebbe evitare di creare false aspettative in chi pensa di ricorrervi.»

Il problema della trasmissione di messaggi non totalmente veritieri da parte dei media  nasconde insidie e desta preoccupazione. Infatti sono in molti coloro che, attratti dalle lusinghe di uno spot pubblicitario confezionato ad arte, hanno l’illusione di poter recuperare in men che non si dica le funzionalità motorie di un tempo. Tale meccanismo, però, genera grande disillusione in chi, dopo la stampa della protesi in 3D, si ritrova comunque ad avere a che fare con un arto artificiale.

La ricerca e il 3D

«Un altro aspetto da tenere in considerazione è che la medicina italiana non dedica molti studi e sforzi a questo settore. Vi è ancora molta chiusura in tal senso perché i “tradizionalisti” non ammettono di non poter avere il controllo su quanto c’è di scientificamente nuovo. Noi pochi che decidiamo di dedicarci allo sviluppo e l’innovazione di questa tecnica ci ritroviamo a compiere un vero e proprio lavoro di resistenza nei confronti della tradizione che, imperante, cerca di continuare a imporre i propri canoni».

Anche la condivisione di valori comuni, tra quanti decidono di dedicarsi a questo tipo di ricerca, è un aspetto da non sottovalutare: «Per fare bene questo mestiere bisogna per prima cosa condividere con i propri colleghi una medesima scala di valori, sempre partendo dall’idea che la stampa in 3D sia un mezzo che crea opportunità prima impensabili. Io stesso non avrei potuto fare niente di ciò che ho fatto se non avessi avuto alle spalle un’azienda con la quale condivido gli stessi obiettivi e ideali, un qualcosa che, in particolare per l’Italia, è ancora difficile». Ma come si è accostato Marco Avaro al mondo delle protesi in 3D?

«Sono arrivato a questa professione perché folgorato, durante il corso di biomeccanica, da un tecnico ortopedico che spingeva una carrozzina con un ragazzo senza una gamba». Nel continuare il suo racconto, Avaro lascia trasparire dalla voce un pizzico di commozione. «Era il secondo anno al Politecnico di Torino, e quando questo professore cominciò a spiegarci il funzionamento delle protesi, all’epoca molto obsoleto rispetto oggi, e ci dimostrò come quel ragazzo sulla sedia a rotelle, grazie a un arto artificiale, potesse riuscire ad alzarsi e camminare, mi resi subito conto che quella sarebbe stata la mia strada».

Nonostante tutto, però, Marco Avaro non nasconde un certo disappunto nei confronti della mentalità tutta all’italiana e che, soprattutto quando si parla di stampa in 3D, non si lascia mancare attacchi feroci e non maschera reticenze: «Spesso mi chiedo se sia il caso di restare in Italia, ma mi rispondo che nel mio piccolo mi piacerebbe cercare di cambiare le cose».

Nel corso della sua carriera, Avaro, oltre ad aver collaborato con la Croce Rossa italiana, si è fatto promotore di diverse attività di volontariato, balzando agli onori della cronaca per aver regalato protesi a chi non poteva permettersi di acquistarne una, come nel caso di una bambina della Mongolia per la quale il professionista di Pordenone ha creato un braccio attraverso la stampa 3D.

«È un gesto che va fatto ma non sono l’unico. Diversi altri miei colleghi si fanno portatori d’iniziative di questo tipo, ma purtroppo sono ancora pochi quanti decidono di mettere a disposizione dei più svantaggiati la loro professionalità. Personalmente penso sempre che solo quando riesci a renderti utile al punto tale da entrare non solo nel corpo ma anche nel cuore delle persone che cerchi d’aiutare, allora puoi ritenere il tuo lavoro realmente gratificante».

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