Digital transformation: adattarsi o adottarla

Pensate all’ultima volta che nella vostra azienda si è cercato di lanciare una nuova tecnologia. Tante le promesse: nuovi modi di lavorare, produttività alle stelle, un riscoperto benessere. Ora chiedetevi: è stato un successo? È andato tutto come previsto? Quante volte avete pensato “anche stavolta non cambierà nulla”? Ma soprattutto, è poi arrivata questa miracolosa […]

Pensate all’ultima volta che nella vostra azienda si è cercato di lanciare una nuova tecnologia. Tante le promesse: nuovi modi di lavorare, produttività alle stelle, un riscoperto benessere.

Ora chiedetevi: è stato un successo? È andato tutto come previsto? Quante volte avete pensato “anche stavolta non cambierà nulla”? Ma soprattutto, è poi arrivata questa miracolosa trasformazione nel vostro modo di lavorare?

Le probabilità che abbiate pensato a un caso di insuccesso sono particolarmente elevate. Per una volta, l’essere italiani non ha niente a che fare con la vostra risposta. La stessa sorte è toccata anche a colossi come General Electric, LEGO e Nike. Statistiche alla mano, sembra che il 50% dei processi di digital transformation sia destinato a fallire perché i nostri comportamenti faticano a cambiare.

Forse è proprio questo il cambio di paradigma più intrigante e meno compreso della trasformazione digitale: non si tratta di una sfida tecnologica. O, per lo meno, non solo di una sfida tecnologica. Abbiamo a che fare con un processo fortemente ancorato al sistema di relazioni e alla cultura che regolano la vita aziendale, oltre che alla strategia e agli obiettivi di business dell’organizzazione. Nel suo profondo, la digital transformation riguarda il cambiamento del nostro comportamento quotidiano, la nostra capacità di utilizzare al meglio le soluzioni tecnologiche che l’azienda ci mette a disposizione, integrandole nelle nostre abitudini.

E ammettiamolo: nessuno ama cambiare. Specie se pensiamo a routine che abbiamo costruito con impegno e fatica. Insomma, non sentiamoci in colpa: la responsabilità non è nostra, ma delle nostre abitudini.

 

Questione di abitudini

Benché avvezzi all’utilizzo di tecnologia all’avanguardia nella vita privata, molti di noi faticano a tenere il passo con la complessità tecnologica che permea le nostre organizzazioni. Aggiornamenti continui, nuove funzionalità, e applicazioni innovative finiscono per stressarci, lasciandoci un po’ scettici. Intelligenza artificiale, machine learning e cloud? Perché mai dovremmo adottarli quando abbiamo sempre fatto le cose in un altro modo?

Potrà sembrare un’assurdità, ma più del 40% di ciò che facciamo quotidianamente è dettato da comportamenti automatici. Quante volte abbiamo chiuso a chiave la porta di casa, totalmente sovrappensiero, chiedendoci poi per il resto del giorno se effettivamente avessimo compiuto quell’azione?

Allo stesso modo, tutti abbiamo delle abitudini legate al mondo lavorativo, e queste ci impediscono di abbracciare appieno un cambio di paradigma, qualunque esso sia. Viviamo nell’epoca d’oro della tecnologia; potremmo svolgere il nostro lavoro nella metà del tempo, eppure l’abitudine ci porta a mettere ancora francobolli sulle buste. Salviamo i documenti sul desktop del computer anche se abbiamo un cloud aziendale, inviamo file tramite email ignorando strumenti di lavoro come Microsoft Teams e Slack, ci scambiamo mille versioni di uno stesso documento quando potremmo lavorare contemporaneamente su una sola.

Si tratta di azioni che non passano dalla coscienza, ma che scattano in modo autonomo nella parte più interna del cervello. Salvare in locale è la prima soluzione che ci viene in mente, e non impieghiamo più che qualche millisecondo per decidere di portare a termine questa azione. Lo abbiamo sempre fatto, e continuiamo a farlo.

Il cervello riporta tutto quello che ci succede e che facciamo quotidianamente sotto forma di connessioni tra diversi neuroni. Possiamo immaginare che sia come una penna che segna una linea su un foglio ogni volta che facciamo un’azione: più volte questa azione verrà ripetuta nel tempo, più spesso sarà il tratto disegnato. Al posto dell’inchiostro, le nostre cellule cerebrali ricoprono le proprie connessioni di mielina, una sostanza protettiva e isolante che rende ancora più forte il segnale trasmesso. Ed ecco che da queste forti e apparentemente immutabili sinapsi nascono le abitudini.

Per nostra fortuna, la via d’accesso alle abitudini non riporta un’iscrizione scoraggiante come l’ingresso all’Inferno dantesco e, come dice Sabrina Toscani, «il cervello è flessibile e può cambiare, le abitudini non sono ineluttabili e possono essere scelte».

 

Correre la maratona digitale, un passo alla volta

Se è vero che il primo passo per risolvere un problema è ammettere di avere un problema, lo stesso vale per la sfida più importante che ci pone la digital transformation: adottare, e non adattarsi a nuove soluzioni tecnologiche.

Per riuscirci è innanzitutto necessario rendersi conto di quali siano le nostre abitudini, per farle emergere a livello consapevole: abbiamo davvero bisogno di stampare tutto ciò su cui lavoriamo, o lo facciamo solo perché abbiamo sempre fatto così? Solo in questo modo possiamo intraprendere il nostro viaggio di cambiamento, che, come ogni avventura degna di nota, parte con un primo, minuscolo slancio.

Numerose ricerche scientifiche sottolineano come sia importante procedere un passo alla volta, mettendo in atto piccoli comportamenti in maniera continuativa. Così facendo, daremo il tempo ai nostri neuroni di costruire nuove strade di mielina che diventino sempre più forti, rendendo il comportamento più immediato.

Ora la parte più difficile: ripetere, ripetere, ripetere. Sta tutto lì. Bisogna fare ogni giorno l’azione che vogliamo far diventare un’abitudine, per almeno trenta giorni: è un po’ come dire che un file sul cloud al giorno leva il desktop di torno. Per farlo, sarà necessario superare tutte le resistenze che mettiamo naturalmente in atto, o che per meglio dire il nostro cervello mette in atto. Purtroppo è fatto così, malleabile quanto vogliamo, ma pronto a resistere alacremente a ogni possibile forma di cambiamento.

Il trucco sta nell’essere subdoli, legando la nuova abitudine a una già esistente e approntando delle ricompense per ogni volta che si mette in atto il nuovo comportamento. Il nostro granitico amico di materia grigia ama i premi, adora la cascata di endorfine che essi fanno rilasciare, e questo lo rende più propenso al cambiamento. È la vecchia storia delle api e del miele, solo in salsa neuroscientifica.

 

Grafica sul modo per cambiare le proprie abitudini tramite il ciclo: apprendere, ripetere, adottare

Prepararsi alla tecnologia, con la tecnologia

La vera fortuna della digital transformation, così come di ogni cambiamento in campo organizzativo, è che non si è mai soli. Al nostro fianco abbiamo altre persone che, proprio come noi, devono superare quotidianamente resistenze a un cambiamento che spesso non è neanche così chiaro.

Ciononostante, il supporto tra pari può non bastare, soprattutto in grandi aziende con sedi diverse e spesso dislocate. In casi come questi, il coaching può essere uno strumento efficace per supportare lo sviluppo di nuovi comportamenti attraverso un accompagnamento dedicato e costante. Nella sua versione tradizionale riscontra però gli stessi limiti già descritti, e difficilmente si può estendere all’intera popolazione aziendale, soprattutto per motivi economici: un’azienda che ha già allocato ingenti somme per comprare una nuova tecnologia sarà comprensibilmente restia a fare un ulteriore investimento per un servizio di coaching personalizzato per ognuno dei propri dipendenti.

Ma è dalla tecnologia che siamo partiti, ed è nella tecnologia che possiamo ritrovare non soltanto lo spazio di un problema, ma anche il campo di applicazione della nostra personalissima soluzione. Al giorno d’oggi, esistono sistemi tecnologici che accompagnano gli utenti in un percorso di creazione, mantenimento e rinforzo di abitudini legate a un utilizzo sempre più efficace delle innovazioni tecnologiche che l’azienda mette a loro disposizione. Se consideriamo che il 70% dell’apprendimento avviene tramite l’esperienza diretta, capiamo anche quanto un aiuto puntuale, contestuale e non intrusivo sia preferibile rispetto a tutorial, webinar e lezioni frontali. Grazie all’applicazione congiunta di logiche di intelligenza artificiale e di carattere (neuro)psicologico, questi sistemi sono in grado di costruire un sistema di feedback continuo, personalizzato e real-time per ciascun utente, supportando ogni persona nel suo personalissimo processo di consolidamento e mantenimento delle nuove abitudini digitali.

 

Tecnologie umane o uomini tecnologici?

In ultima analisi, è comprensibile chiedersi che cosa ci guadagniamo a cambiare le nostre abitudini in favore di un’integrazione con le nuove soluzioni tecnologiche che la trasformazione digitale porta con sé.

Uscire dalla logica per cui “anche stavolta non cambierà nulla” è una sfida di cui possiamo essere protagonisti in prima persona, a volte anticipando e diventando promotori del cambiamento all’interno delle nostre organizzazioni. È quella che in inglese viene definita una situazione di win-win. Da un lato, l’azienda può massimizzare gli investimenti sostenuti in ambito tecnologico, ottimizzando i propri processi interni ed esterni e coltivando un’attitudine davvero digitale, fondata su nuove competenze e abitudini. Dall’altro, ognuno di noi può sperimentare nuovi modi di vivere il proprio quotidiano professionale, la propria relazione con l’azienda e la tecnologia, facendo della tecnologia un’abitudine quotidiana imprescindibile.

Per citare Fabio Moioli, uno dei massimi esperti di Intelligenza Artificiale nel mondo, la missione dell’IA è di «elevare le nostre vite e aumentare le nostre capacità». Viene così a prospettarsi la creazione una forma di intelligenza che non è più semplicemente sintetica o artificiale, ma aumentata: un’intelligenza collettiva che nasce dalla piena possibilità di integrare il potenziale delle macchine con quello umano per definire nuovi percorsi di cambiamento a livello individuale, organizzativo e sociale.

 

Articolo realizzato in collaborazione con Luca Argenton.

Photo by sebastiaan stam on Unsplash

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