E se il concetto di merito fosse una fregatura?

Chi è ricco lo merita più degli altri: è davvero così? Uno sguardo all’interno di un’articolata bugia con le radici in America, ma pronta a diffondersi anche nel resto del mondo. Recensiamo “La tirannia del merito” di Michael Sandel.

Pochi concetti sono tanto radicati e mitizzati nelle nostre società occidentali come quello del merito: chi studia, lavora e si sbatte ogni santo giorno più degli altri prima o poi ce la farà, ed è giusto che arrivi nei posti più importanti e guadagni più degli altri; che sia considerato più degli altri. Se lo merita.

La nostra cultura è talmente impregnata di questa convinzione che nessuno osa metterne in discussione i fondamenti. È invece esattamente quel che fa il filosofo americano Michael Sandel nel suo La tirannia del merito (Feltrinelli, 288 pag., 20 €).

Sandel si prende l’onere di demolire uno dei miti di cui è impregnata fino al midollo la società americana: quella fede laica secondo cui, con il duro lavoro e il talento, ciascuno può emergere e raggiungere le mete che desidera. Per il filosofo, questo mito non si adatta più alla realtà, almeno negli Stati Uniti.  

La grande bugia (americana) del merito

Facciamo però un passo indietro. Uno degli eventi più dirompenti di questo secolo, la globalizzazione, ha ampliato il divario della disuguaglianza sociale nelle società occidentali: la classe media si è drammaticamente impoverita e i lavoratori più umili spesso hanno perso il loro lavoro a causa dello spostamento della produzione di beni in Asia, per i costi più bassi.

Di fronte a questo terremoto sociale ed economico, quali soluzioni hanno proposto partiti e governanti? Studiate, formatevi, acquisite skill, perché solo così si può competere; è il discorso ricorrente. Soprattutto ricordatevi: chi si impegna ce la fa. Sprazzi di questa narrazione si colgono con chiarezza anche nei discorsi dei leader politici europei di ogni schieramento, sebbene non apertamente come negli Stati Uniti. Sulla scia di questa tendenza, la preoccupazione dei partiti, anche quelli d’ispirazione socialdemocratica, sembra quella di creare le condizioni per consentire a chi se lo merita di emergere tramite lo studio, più che la redistribuzione del reddito (o quantomeno il tentativo di garantire migliori condizioni di vita per tutti).

Il problema però è che non tutti riescono a entrare nelle università, soprattutto quelle più prestigiose e costose, che garantiscono una laurea e un network, grimaldelli per ottenere un lavoro ben remunerato. Qui per Sandel c’è il primo tarlo del concetto di meritocrazia: si presuppone che tutti abbiano le stesse condizioni di partenza, il che non è vero e possibile, a meno di abolire il concetto stesso di famiglia.

Per intenderci: a parità di intelligenza e doti naturali, è acclarato che i giovani che provengono da famiglie con genitori istruiti e disposti a investire sull’educazione dei figli hanno più chance di emergere nello studio e nella vita. E chi queste possibilità non le ha perché proviene da famiglie meno sensibili all’educazione? Resta indietro. E per tutti questi non c’è un piano B.

Gli Stati Uniti aspettano ancora l’ascensore sociale. E l’Europa?

La seconda riflessione spiazzante di Sandel riguarda il cosiddetto ascensore sociale, che a suo dire negli Stati Uniti è bloccato, più di quanto noi europei crediamo lo sia a casa nostra. Anzi, gli statunitensi tendono a ingigantire la reale capacità della loro società di far avanzare i cittadini nelle classi sociali, mentre gli europei tendono a sottostimarla, incuranti delle ricerche che premiano la mobilità sociale nel vecchio continente (e in Cina!) a scapito dell’America. Il sogno americano – scrive Sandel – è vivo e vegeto, ma risiede a Copenhagen.

Nell’opera di demolizione del concetto di meritocrazia una parte molto importante è riservata a quello che spesso definiamo il fattore “C”: la fortuna. Per Sandel la forma mentis della meritocrazia americana è un sottoprodotto dell’etica protestante del lavoro, che (ricordiamo, secondo il famoso sociologo Max Weber) è alla base dell’accumulazione delle ricchezze, e quindi del capitalismo stesso.

Qua però ci inoltriamo in considerazioni storico-teologiche che – sia pure molto interessanti nel libro – ci farebbero prendere un’altra strada. Il concetto chiave è che, a differenza degli americani, noi europei siamo più inclini a dare valore al caso (o alla fortuna, se volete), che va oltre la comprensione e il controllo degli uomini. In soldoni: puoi essere bravo quanto vuoi e lavorare fino allo sfinimento, ma le cose ti possono andare comunque male per un vasto assortimento di motivi che esulano dal tuo controllo. Per gli statunitensi non è possibile: se lavori e ti impegni non puoi non farcela, perché la società americana ti consente di salire laddove può portarti il talento e il duro lavoro. Ma questo, sostiene Sandel, non è (più) vero.

“Migliori” di chi? La fola del merito salva i responsabili della crisi

Una delle conseguenze più odiose della meritocrazia americana, poi, è che crea in chi ce l’ha fatta la falsa impressione che il successo sia dipeso solo dai suoi sforzi. Sandel, come abbiamo visto, non solo dimostra che non è vero (famiglia, fortuna, etc.), ma spende molte pagine sugli aspetti psicologici che ne conseguono: chi è arrivato in alto ritiene, per il solo fatto che tutto è dipeso da lui (e non dal caso) di poter meritare tutto, inclusi stipendi fuori dal comune.

Anche Obama, mostro sacro dell’uguaglianza e simbolo intoccabile del sogno americano, secondo l’autore è caduto nella trappola meritocratica. Eletto sull’onda di una forte energia morale mista a idealismo, il primo presidente di colore degli Stati Uniti nel corso dei suoi due mandati si è circondato di quelli che definiva “i migliori”, i più intelligenti, gente – come lui – uscita dalle più prestigiose università. Personaggi che, alla resa dei conti, hanno però disatteso le promesse dell’Obama-candidato, non facendo veramente gli interessi del popolo americano. Questo perché erano troppo succubi del “cerchio dei migliori”. Basti ricordare che nel 2008, dopo la crisi della Lehman Brothers, l’amministrazione in carica salvò le banche d’investimento con i soldi dei contribuenti senza far pagare i loro misfatti ai guru della finanza che avevano causato il disastro, come riporta un autorevole testimone oculare di quel salvataggio:

“La narrazione su Wall Street secondo cui taluni manager della finanza erano dei superman dotati di poter soprannaturali, che si meritavano ogni centesimo dei loro sbalorditivi compensi e bonus era ben radicata nella psiche dei funzionari del Tesoro dell’amministrazione Obama. Indipendentemente dal fatto che la crisi finanziaria avesse dimostrato quanto fosse stato insignificante il lavoro svolto da quei manager.”

Non è quindi detto – e qua l’altra accusa potente – che i governanti che escono dalle migliori scuole abbiano automaticamente le doti necessarie per gestire la Cosa Pubblica: saggezza pratica, virtù civica, l’abilità di deliberare per il bene comune e di perseguirlo con efficacia. Se non altro perché nessuna di queste capacità viene insegnata nelle università. L’idea che il migliore e più brillante faccia meglio al governo dei propri concittadini con meno credenziali – secondo Sandel – è invece un mito prodotto dalla tracotanza meritocratica.

È ricco perché lo merita più di te: l’origine dell’odio

E qui arriviamo dritti all’odio per le élite, il risentimento di quella parte della popolazione americana che, dopo essersi ritrovata tra i perdenti della globalizzazione o licenziata dalle nuove tecnologie, non ha avuto le opportunità o i soldi (o entrambi) per frequentare le università al top.

Questo è un tratto psicologico tipicamente statunitense, probabilmente meno percepito in Europa ma che Sandel invece pone come mattone fondamentale dell’ascesa del populismo. Secondo l’autore, l’antipatia populista per la meritocrazia avrebbe infatti giocato un ruolo chiave nell’elezione di Trump, che – secondo un’analisi dei suoi discorsi nella prima campagna elettorale – non parlò mai di mobilità sociale o delle virtù del merito a un elettorato, a quanto pare, più interessato all’orgoglio nazionale (Make America Great Again) e alla dignità che alle solite promesse di mobilità sociale.  

Dignità. Una parola fuori moda quando si parla di normali lavoratori, ma proprio l’erosione della dignità del lavoro individuale della gente comune per Sandel è l’altra faccia della medaglia dell’esaltazione del concetto di meritocrazia.

Secondo il filosofo occorre assolutamente rivalutare il concetto di collante sociale, ossia l’idea che in una società complessa il lavoro deve avvicinare tra loro i cittadini, all’interno di un sistema di contributi e di riconoscimento reciproco. Per l’autore l’unico – forse – aspetto positivo della pandemia di COVID-19 è l’essersi improvvisamente resi conto dell’impatto sociale di lavori come il fattorino del cibo o della spesa, l’installatore di Wi-Fi, il farmacista, financo gli addetti alle pulizie negli ospedali, che per il solo fatto di lavare i pavimenti in un reparto COVID-19 rischiavano la vita quanto un medico.

Insomma, ci siamo resi conto del valore per la comunità di quelli che in altri tempi avremmo definito lavori umili, oppure – come oggi fa più figo – low skilled. Al tempo stesso abbiamo scoperto che la società può benissimo andare avanti senza il contributo – quello sì stra-remunerato – dei vari Ronaldo o Chiara Ferragni. Ahimè, la discussione sul valore del lavoro è stata però un fuoco di paglia, limitata a un pugno di articoli di giornale negli stranianti mesi del lockdown.

Denaro uguale valore e altri miraggi

Le riflessioni sulla dignità si portano dietro un interrogativo grande quanto una casa: come misurare il valore del lavoro e del merito?

Nelle società occidentali è ormai radicata l’idea che i soldi guadagnati riflettano il valore, il merito e anche il contributo sociale del lavoro. Senonché, argomenta Sandel, il valore del lavoro di una persona non può dipendere dal suo salario, poiché questo fa parte del rapporto tra domanda e offerta e di quanto il mercato è disposto a pagare per determinate abilità. Per intenderci: oggigiorno gente come Michelangelo o Tintoretto probabilmente farebbero la fame, e verrebbero pagati di sicuro molto meno di buon programmatore informatico.

Tuttavia, se a parole siamo tutti d’accordo sull’importanza sociale di un insegnante o di un virologo, perché ci ostiniamo a pagarli poco e continuiamo invece a usare i soldi come metro del valore del lavoro, invece di valutare il contributo di un individuo dall’importanza morale e civica dei suoi sforzi quotidiani? Sandel offre la seguente spiegazione: tra persone con idee e valori differenti, riconoscere il danaro come metro di valutazione e obbiettivo di politica economica e sociale è più semplice e rassicurante. È uno di quei concetti che trova tutti d’accordo, progressisti e conservatori, come del resto l’idea che sia socialmente giusto massimizzare il benessere dei consumatori.

Ma lo è davvero, si chiede Sandel? Tutti, ad esempio, condividiamo che è vantaggioso acquistare beni prodotti in Cina, che costano meno e ci fanno risparmiare soldi; ma se questo vuol dire distruggere posti di lavoro domestici (in Italia, Europa o negli Stati Uniti) l’interesse del cittadino consumatore evidentemente diverge da quello di una società che ha bisogno che tutti i suoi membri lavorino: sia perché la loro esistenza abbia un senso, una dignità, sia perché chi lavora paghi le tasse per garantire i servizi comuni alla collettività. Messo così, nessuno potrebbe accusare questo ragionamento di bieco protezionismo. Eppure, il concetto non passa.

Chi guadagna di più paga di meno: la dubbia equità delle tasse

Infine – e siamo alla conclusione – strettamente collegato al concetto di valore del lavoro è anche quello di equità nella tassazione.

Si chiede il più grande investitore vivente, Warren Buffet: “Perché la mia segretaria deve pagare il 65% delle tasse sul reddito mentre i miei investimenti miliardari hanno un’aliquota inferiore?” Già: perché le tasse sugli investimenti finanziari sono esattamente la metà di quelle sul lavoro?

Il presupposto è che gli investitori sono creatori di occupazione, e che quindi per questo dovrebbero essere ricompensati e agevolati. Ma non è così: è acclarato che oltre la metà dei prodotti finanziari non fa nulla per rendere l’economia più produttiva, ma serve solo a montare la panna della finanza creativa, che nulla produce se non guadagni per chi è in grado di maneggiarne la complessità. Almeno fino a quando la situazione non gli sfugge di mano, con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti.

Perché leggere La tirannia del merito

Sandel si prende l’onere di demolire uno dei miti di cui è impregnata fino al midollo la società americana: quella fede laica secondo cui, con il duro lavoro e il talento, ciascuno può emergere e raggiungere le mete che desidera. Per il filosofo, questo mito non si adatta più alla realtà, almeno negli Stati Uniti.  

Il libro non è una passeggiata: le 288 pagine raddoppierebbero con un carattere tipografico più agevole, e inoltre è ricchissimo di note e bibliografia. Va letto fino in fondo e bisogna mettersi subito nell’ottica che è America-centrico, nel senso che molte sue considerazioni sono riferibili a situazioni e prassi che non hanno (ancora) varcato l’oceano Atlantico.

Forse anche per questo vale la pena leggerlo: per anticipare quello che potrebbe accadere da noi a breve.

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