Editoriale 91. Chi fermerà la musica

Ascoltare musica è anche un gesto politico; lo è sempre stato, forse con altre sfumature. Di questi tempi ce lo ricordano i mezzi di informazione e le strumentalizzazioni a seguire; negli ultimi anni lo incalzano anche i social network e le bolle in cui viviamo e ci informiamo. Oramai ci si schiera su tutto, figuriamoci […]

Ascoltare musica è anche un gesto politico; lo è sempre stato, forse con altre sfumature.

Di questi tempi ce lo ricordano i mezzi di informazione e le strumentalizzazioni a seguire; negli ultimi anni lo incalzano anche i social network e le bolle in cui viviamo e ci informiamo. Oramai ci si schiera su tutto, figuriamoci sui pentagrammi che hanno già le file pronte.

Politica sarebbe una bella parola se non invadesse i campi e non spostasse interessi solo privati; anche la musica sarebbe una bella parola se dietro non nascondesse ombre cupe che ne oscurano la cultura del lavoro.

Il Festival di Sanremo ne è una prova ma non lo fa vedere dal palco, bisogna andare a grattare sotto.

Sì, le luci e le scale, le paillettes e i clamori.

Sì, le sigle e gli stacchetti, i riti e i ricordi.

Quanta poca serietà ci sia dietro, e quanto scarso rispetto del lavoro, è un capitolo a parte.

Questo numero di Senza Filtro è stato lanciato in anteprima con l’intervista in esclusiva a tre degli orchestrali che saliranno sul palco dell’edizione 2020: è stato difficile parlare con loro perché inglobati dalle prove, perché restii a raccontare, perché amareggiati dal modo con cui l’Italia strapazza la musica.

Sottopagati.

Pagati l’anno dopo.

Mal gestiti a livello organizzativo.

Supportati dalla tecnologia per bilanciare l’incompetenza dei direttori.

Testimoni degli sprechi e della discrezionalità che regna sovrana.

Non tutelati come si dovrebbe.

Non coesi al loro interno perché tutti si lamentano di Sanremo ma tutti hanno paura di parlarne.

Quest’anno il Festival compie settant’anni che per uno di noi dovrebbero già essere ben oltre l’età della saggezza e della responsabilità, a settant’anni si perdona ciò che si mette in conto a un ventenne: il problema è che il Festival ne combina da quando era ragazzo, e poi adulto.

Nel libro di Filippo Ceccarelli pubblicato nel 2019 da Feltrinelli – Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua, un capolavoro di cronaca e costume oltre che di memoria nazionale – mentre si raccontano gli anni Ottanta sbuca una pagina di illuminante supporto.

Incalzata dalla neotelevisione commerciale berlusconiana, anche la vecchia Rai perse la sua vocazione materna, pedagogica e didascalica. Di veramente democristiano in pratica restò solo il Festival di Sanremo. Ma anche qui, se si esclude l’invenzione di quel modulo nazional-popolare di cui Pippo Baudo fu il massimo interprete, prevalse sempre l’aspetto di potere. Così Andreotti e il centrodestra sostennero fin quando fu possibile il patron Ezio Radaelli, mentre il suo rivale – Adriano Aragozzini, amico e compagno di scopetta del direttore generale Biagione Agnes – riuscì per qualche tempo a incarnare il trionfo televisivo demitiano. Nel frattempo ogni cantante veniva rigorosamente assimilato ai suoi referenti. Mino Reitano lo “portava” Gava, Flavia Fortunato era di Mastella (e un po’, per via dell’origine calabrese, pure di Misasi), Drupi passava per forlaniano, Casini sponsorizzava Mengoli, Pupo stava con Azione Popolare. E vai a sapere se era vero ma intanto le varie scuderie canore procedevano lungo quel diffuso mondo di feste che i maggiorenti avevano preso a organizzare a mo’ di patroni nei loro collegi elettorali, nei natii borghi selvaggi disseminati per l’umile Italia, spesso meridionale e non di rado terremotata. Oltretutto i democristiani seguitavano a mantenere la più salda presa su interi settori della società dello spettacolo da cui i craxiani erano esclusi, così come il mondo dello sport. Tutta gente abbastanza scafata rispetto ai modelli dell’austera età degasperiana. Andreotti mediò persino per il contratto di Falcao e Paolo Cirino Pomicino fece aprire i cancelli della Rai di Napoli per far assistere alle partite in bassa frequenza”.

Sanremo è innegabilmente una scacchiera politica, mediatica, sociale: c’è poco da perdonare, c’è molto da vergognarsi, c’è tutto da giocarsi tranne che la qualità che interessa a pochi. Irrilevante anche tutelare il lavoro, le competenze, il rispetto, i compensi, le pause, i tempi dei pagamenti, l’esperienza.

Il pubblico televisivo rinuncia sempre meno a Sanremo che, tutti lo sanno, insieme ai Mondiali di calcio è l’ultimo appello rimasto all’unità d’Italia: siamo messi malissimo. Della musica il Festival non incarna nulla ed è il motivo per cui in questo numero abbiamo solo preso ispirazione da lì per tracciare lo stato di salute del settore da capo a piedi.

La musica è piena di mestieri che vengono ingoiati dentro un disco.

La distanza tra chi fa il musicista e chi il musicista lo ascolta è abissale.

Le orchestre italiane sono poche e hanno il fiato corto, i finanziamenti stanno all’osso, i ragazzi per fortuna si attaccano ancora alle scuole di musica perché ci specchiano il proprio domani e guai a chi osa toccarle o chiuderle: lo abbiamo registrato nelle piccole città di provincia come nelle metropoli di casa nostra e il segnale è forte.

Nessuno pretende che si faccia serio il gesto dell’ascoltare musica – uno dei momenti più personali, intimi, rappacificanti – ma nemmeno si può più far finta di niente davanti ad un’industria musicale italiana morta, pressata, monopolizzata dalle major internazionali.

Un decennio dopo l’altro anche la musica ha perso peso fino a farsi sparire il corpo e la fisicità, ha fatto la stessa strada dei soldi e dei rapporti umani in corsa verso la dematerializzazione come se l’essere tangibili potesse lasciare scomode tracce.

I pochi che restano seduti al cinema per leggere i titoli di coda forse sono gli stessi che vanno a cercare i nomi dell’arrangiatore, dello studio di produzione, del fotografo, dei musicisti uno ad uno che hanno dato forma e un ricordo alle note. 

Mara Maionchi, intervistata per l’occasione, fa una delle sue sintesi supreme: “Potrei dire che la musica è cambiata gerarchicamente ma la canzone per fortuna è rimasta”.

Chi ci aveva mai pensato alla gerarchia?

Le forme con cui il lavoro si organizza incidono pesantemente sui risultati.

Il Festival della canzone italiana sarà salvo finché troveranno un seppur minimo punto di contatto la Rai, la Fondazione Orchestra di Sanremo, i musicisti sfruttati, il Comune dei fiori, l’indifferenza del pubblico, il menefreghismo della politica, l’incompetenza dei dirigenti, la smania del solo gossip.

Chi fermerà la musica.

Quelli che non si sbagliano.

Quelli che non si svegliano.

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