
Una hostess italiana e il suo compagno pilota perdono il lavoro in Svezia, dove i sussidi sono in mano ad assicurazioni private. Ecco la loro storia.
“Se non ci fossero le disgrazie, ce le dovremmo inventare”, dice un uccello del malaugurio seduto su un residuo di terra ferma circondato dall’acqua alta di Venezia. La feroce quanto geniale vignetta di Altan con un semplice tratto di penna ci racconta meglio di ogni altro commento lo stillicidio di cattive notizie che stanno devastando […]
“Se non ci fossero le disgrazie, ce le dovremmo inventare”, dice un uccello del malaugurio seduto su un residuo di terra ferma circondato dall’acqua alta di Venezia. La feroce quanto geniale vignetta di Altan con un semplice tratto di penna ci racconta meglio di ogni altro commento lo stillicidio di cattive notizie che stanno devastando il sistema industriale e ambientale italiano e che rischiano, con l’Ilva, di alterare pesantemente le già drammatiche cifre sulla disoccupazione in Italia.
Torniamo sul caso Ilva anche perché da qualche giorno c’è una novità, un inedito che, comunque vadano le cose, imprime una svolta a tutta la vicenda: il Procuratore della Repubblica, Francesco Greco, che molti ricorderanno in veste di sostituto procuratore del pool di magistrati che indagò su Tangentopoli, ha deciso che la Procura della Repubblica di Milano ha il dovere di scendere in campo. Con un comunicato a sorpresa, assai clamoroso, il magistrato in una nota ufficiale ha spiegato che la Procura di Milano “ha il diritto-dovere di intervenire” nel caso Ilva, essendo in gioco “un preminente interesse pubblico relativo alla difesa dei livelli occupazionali, alle necessità economiche e produttive del Paese, agli obblighi del processo di risanamento ambientale”.
Non è la prima volta in Italia che i magistrati sono costretti a fare da supplenti alla politica economica e a intervenire nei processi industriali a volte degenerati in bancarotta. Le sentenze sull’Ilva in materia ambientale sono numerose, ed è da anni che dietro l’angolo c’è la magistratura. Nel 2006, quando la disastrosa gestione della famiglia Riva portò alla bancarotta fraudolenta dell’Ilva, furono i magistrati Stefano Civardi e Mauro Clerici (gli stessi incaricati qualche giorno fa da Greco) a occuparsi del crack di Ilva e a consegnare successivamente il colosso siderurgico nelle mani dei commissari.
Ma è certamente la prima volta che una Procura della Repubblica interviene in prima persona per “difendere i livelli occupazionali”. Ciò che spetterebbe alla politica e al sistema industriale, ovvero il tema dell’occupazione, viene gestito per la prima volta, anche se indirettamente, dai magistrati. Dunque una vera svolta nelle relazioni industriali che già fa discutere giuristi, imprenditori e sindacalisti. Per il momento gli uffici milanesi della Procura hanno aperto un fascicolo contro ignoti, ma il procuratore Greco, per far capire che ha intenzione di fare sul serio, ha annunciato che la Procura si inserirà addirittura nel procedimento civile che si aprirà dopo la decisione unilaterale di ArcelorMittal di rescindere il contratto.
Sulle ragioni della fuga improvvisa di ArcelorMittal da Taranto, annunciata dalla società per il 4 dicembre, c’è una tesi unanime da parte di governo e sindacati: la vera ragione della fuga non sarebbe l’abolizione dello scudo penale voluta dal M5S ma gli esuberi di cinquemila persone che la gestione Arcelor-Mittal avrebbe “scoperto” mettendo mano ai bilanci. E dunque, secondo questa tesi, la famiglia Arcelor-Mittal avrebbe violato il contratto visto che quegli esuberi non erano previsti.
L’economista Francesco Giavazzi, professore ordinario di economia politica alla Bocconi e autore, tra l’altro, assieme a Giorgio Barbieri di un libro che si occupa anche di Venezia e del Mose (Corruzione a Norma di Legge, la Lobby delle grandi opere che affonda l’Italia), pensa che le cose sull’Ilva non siano così semplici e che ci sia più di una responsabilità dei governi.
Facciamo un passo indietro, professor Giavazzi. Lei che cosa ne pensa di tutta questa drammatica vicenda che vede sull’orlo del precipizio circa diecimila persone, un’intera regione e dunque un pezzo importante dell’economia italiana?
Il caso Ilva, effettivamente, è molto complicato. Non soltanto perché sono a rischio migliaia di posti di lavoro, ma per le implicazioni in materia di ambiente che quella produzione comporta. Devo dirle francamente che quando a suo tempo venni a sapere che si era presentato un grosso gruppo industriale come ArcelorMittal in veste di compratore io tirai come molti altri un sospiro di sollievo, perché tutti sanno che l’Ilva non era e non è facilmente vendibile. È evidente che gli acquirenti prima di entrare hanno posto delle condizioni. E mi risulta che una delle condizioni fosse proprio lo scudo penale. ArcelorMittal, come è giusto, non voleva accollarsi la responsabilità penale di danni ambientali provocati dalle passate gestioni e d’altronde nessun imprenditore italiano o straniero sarebbe disposto a entrare nel capitale dell’Ilva senza uno scudo penale.
Sarà anche vero, ma ormai sono in molti a sostenere che ArcelorMittal avrebbe fatto marcia indietro non per lo scudo penale ma per i cinquemila esuberi. Una condizione che non era stata posta all’inizio della trattativa con i commissari che gestivano la vendita dell’Ilva. Lei che idea si è fatto?
È possibile che ArcelorMittal avesse voglia di scappare a causa del negativo andamento del mercato e della sovrapproduzione di acciaio, ma se lo avesse fatto per quelle ragioni avrebbe violato l’accordo. Penso purtroppo che il governo gli abbia facilitato questa voglia di fuga togliendogli lo scudo penale. L’unica soluzione a mio avviso era ridargli lo scudo penale in modo da togliergli ogni possibile alibi. Io, sia chiaro, non escludo che ArcelorMittal abbia violato il contratto sul tema dell’occupazione, ma se così fosse con la cancellazione dello scudo penale lo Stato gli ha spianato la strada. Tenga presente, e questo è un punto importante, che se il governo ristabilisse lo scudo penale ArcelorMittal sarebbe obbligata a rimanere all’Ilva, altrimenti rischierebbe di pagare penali molto onerose. Ma temo che sia tardi.
E ora che cosa succederà? Una battaglia legale, si sa, comporterebbe un procedimento penale e civile che durerebbe anni. L’Ilva nel frattempo che fine farebbe? Secondo lei è credibile la strada del controllo pubblico dell’Ilva?
La statalizzazione certamente non si può fare, se vogliamo sottostare alle regole europee. Su questo punto la Commissione europea è rigida. D’altronde le fondazioni che partecipano alla Cassa Depositi e Prestiti hanno espresso parere contrario all’ipotesi di un rientro del potere pubblico nella siderurgia. Io francamente non vedo sul mercato altri gruppi industriali che si possano candidare ad acquistare l’Ilva, e aggiungo che dopo quello che è successo è difficile che ci siano acquirenti nel mondo disposti a entrare in una situazione politica e giuridica così incerta e confusa. Se comunque, tanto per fare un esempio, il gruppo Marcegaglia decidesse di acquisire l’Ilva, lo Stato italiano dovrebbe accollarsi i costi del risanamento ambientale mentre potrebbe lasciare al potenziale acquirente il rischio economico.
Qual è la cosa che a suo parere accomuna le continue crisi industriali che colpiscono le imprese italiane?
Le accomuna la sfiducia crescente nell’Italia, e devo dire che i governi degli ultimi due anni non hanno aiutato. Le nostre imprese vanno all’estero e il più delle volte con successo, ma è sempre più difficile che gruppi industriali stranieri siano attratti dall’Italia. In particolare le politiche proposte dal M5S nel due ultimi governi non hanno certo favorito la fiducia nel nostro Paese. E questa è soltanto una parte del problema. Sullo sfondo c’è un Paese che non cresce da vent’anni e un debito pubblico che non è più sotto controllo. In queste condizioni è molto difficile che le imprese estere vengano a investire da noi perché sanno che con un debito pubblico così alto e in continua crescita le tasse non possono che aumentare.
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