L’apprendimento prevale sull’insegnamento

Dall’asilo nido alle scuole superiori e all’università, scolari e studenti corrono lungo una linea retta tracciata dall’insegnamento. Maestri e professori tengono lezioni, interrogano gli allievi, fanno svolgere compiti in classe e a casa. Esami seguiti da diplomi e lauree certificano che l’insegnamento è andato a buon fine. È quindi giunta l’ora di cercare il fatidico […]

Dall’asilo nido alle scuole superiori e all’università, scolari e studenti corrono lungo una linea retta tracciata dall’insegnamento. Maestri e professori tengono lezioni, interrogano gli allievi, fanno svolgere compiti in classe e a casa. Esami seguiti da diplomi e lauree certificano che l’insegnamento è andato a buon fine. È quindi giunta l’ora di cercare il fatidico posto di lavoro. Gli esami si superano rispondendo esattamente ai quesiti posti dagli insegnamenti. Per ciascuna domanda c’è una e una sola risposta corretta. L’apprendimento avviene al di fuori delle aule scolastiche. È nel campo delle relazioni informali che, occasionalmente spesso e deliberatamente talvolta, la gioventù esperimenta processi mentali e forme di dialogo che portano a risposte multiple, anche tra loro contrastanti, avendo talvolta uno o più mentori che dirimano i conflitti cognitivi. Per i discenti, l’insegnamento è passivo; l’apprendimento, attivo. Il primo ha forma piramidale con, al vertice, gli insegnanti in cattedra e, alla base, gli allievi; il secondo è un cerchio intorno al quale gli alunni girano alla pari con i loro mentori.

Che l’insegnamento si lasci contaminare dall’apprendimento è cosa da noi tutt’oggi rara. La scuola resta un piccolo grande mondo antico. L’amore di quanti – e sono una moltitudine tra insegnanti, famiglie degli studenti, datori di lavoro e gli stessi allievi – hanno sbarrato le porte della fortezza dello status quo. Guai mai se gli innovatori la occupassero.

Visto dalla prospettiva della scuola che prepara al lavoro, quel mondo è stato ben descritto dall’economista Ronald Coase in un suo famoso saggio del 1937 sulla natura dell’impresa che prefigura la piramide quale costruzione predominante dell’organizzazione industriale nelle economie occidentali.
Al vertice della piramide stanno poche grandi imprese e alla base tanti milioni di consumatori sottoposti al potere di mercato esercitati dalle imprese oligopolistiche. Nell’età pre-digitale gli alti costi di transazione – i costi intangibili associati alla ricerca di informazioni, alla contrattazione, agli accordi per risolvere le controversie, alla supervisione delle persone, al processo decisionale e alla sua attuazione, al controllo dei costi – hanno portato alla formazione di imprese con assunzione di personale alle dipendenze anziché far ricorso al mercato esternalizzando un certo numero di funzioni. Le imprese verticalizzate dispongono di informazioni non accessibili ai consumatori, resi perciò passivi dall’asimmetria informativa. In Italia, culla delle piccole, molte di queste sono tuttora delle piramidi tascabili. La scuola italiana rimane ostinatamente aggrappata al calendario del 1937.

Sennonché, la piramide è stata scossa dalle fondamenta dall’economia della condivisione che esalta la dimensione sociale, non più gerarchica ma di democrazia orizzontale delle relazioni. Non le spigolosità della piramide, ma la rotondità del cerchio è l’immagine che meglio le rappresenta. La partecipazione volontaria delle persone all’orchestrazione del processo d’apprendimento, di democratizzazione dei consumi e della produzione crea visioni condivise che estendono la cerchia di coloro di cui si ha fiducia. È così che connessioni e mutua collaborazione tra soggetti prima estranei gli uni agli altri arricchiscono il ventaglio delle opportunità per la condivisione delle risorse e riducono i costi di transazione. Avendo la possibilità di acquisire i nuovi mezzi digitali dell’informazione, è l’apprendimento a prevalere. Come posso ripensare il modo in cui vedo il problema? In quanti modi diversi posso risolverlo? Domande cui si risponde non essendo obbligati al rispetto di canoni fissi e definiti nei manuali d’insegnamento. Dagli insegnanti ai produttori di beni e servizi, sotto il peso delle nuove relazioni orizzontali, tra pari, traballa la piramide dell’intermediario.

Ci sono allora buone ragioni per sostenere che la scuola vada ridefinita, non riformata. Lasciando a casa i libri di testo così pesanti perché pieni di saggezza convenzionale, viaggiando con il bagaglio leggero dell’ignoranza creativa (“L’ignoranza creativa: un punto di riferimento che fa paura” è l’articolo che su queste colonne abbiamo pubblicato il 25 marzo 2015), avremo modo di riflettere su cinque punti che qui elenchiamo, in forma esemplificativa, delle sfide davanti a noi.

Cinque sfide davanti a noi

  1. Così come lo si è conosciuto e come lo hanno praticato le generazioni di ieri e lo vivono ancora i tanti legati al palo della tradizione, il lavoro non è per gli esseri umani, bensì per le macchine e i robot. Il fatto è che si sono creati troppi posti poco qualificati.

 

  1. A creare valore non sono le scuole e le imprese, ma il modo in cui l’offerta è sperimentata e utilizzata da noi.

 

  1. Le nuove tecnologie richiedono competenze umane scaturite dalla creatività che, come sostiene il medico e psicologo Edward de Bono, è soggetta ad apprendimento mediante sperimentazioni.

 

  1. Il lavoro acquista forti connotati imprenditoriali. Le nuove generazioni ne trarranno benefici se educate al pensiero indipendente e al comportamento deviante, non legittimato dalla tradizione, di chi mette in campo iniziative affatto nuove e agisce da investitore che guardo lontano.

 

  1. Nella scuola ridefinita s’impara, sperimentando, a convivere con l’incertezza anziché declinare, insegnando, le voci della certezza e della prevedibilità elencate nel vocabolario della tradizione.
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