Franchising e professioni, una strada in salita

Leggi nazionali ed europee da tempo offrono strumenti tecnici per gestire “a rete” i rapporti tra professionisti (associazioni professionali, Gruppo Europeo di Interesse Economico, Società Tra Professionisti), ma in Italia i network professionali faticano ad affermarsi e il dibattito, così come il cantiere normativo, è ancora aperto, supportato da generiche direttive quali “necessità di ammodernare […]

Leggi nazionali ed europee da tempo offrono strumenti tecnici per gestire “a rete” i rapporti tra professionisti (associazioni professionali, Gruppo Europeo di Interesse Economico, Società Tra Professionisti), ma in Italia i network professionali faticano ad affermarsi e il dibattito, così come il cantiere normativo, è ancora aperto, supportato da generiche direttive quali “necessità di ammodernare le professioni”. In questo quadro ci si interroga anche sulla possibilità di adottare lo strumento contrattuale del franchising, o affiliazione commerciale, regolamentato dalla L.129/2004.

Intanto un passo indietro. Con la risoluzione n.30/E-2006, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito il “trattamento fiscale applicabile alle spese sostenute da un professionista per l’acquisto di un marchio” di altro professionista. Nell’occasione l’Agenzia ha avuto modo, da un lato, di esprimere perplessità circa l’uso del termine “marchio”, in quanto bene immateriale idoneo a distinguere prodotti o servizi di un’impresa da quelli di altra impresa, e non servizi professionali; dall’altro ha preso atto della “manifestazione di volontà” (dei contraenti) nel ritenere economicamente “importante”, nella gestione e nello sviluppo di uno studio professionale, “un segno grafico” o “un segno distintivo”. Si tratta di una affermazione importante, un punto fermo, considerati gli obblighi previsti dalla normativa sul franchising in tema di marchio.

E il franchising?

È noto che in Italia il concetto di valore di un brand professionale si è affermato in tempi moderni (il suo riconoscimento nel mondo anglosassone è più remoto), ma completando l’analisi possiamo sostenere che i network professionali offrano anche altri valori immateriali, di tipo organizzativo-gestionale, utili anche a standardizzare e rendere omogenee politiche e modalità di gestione degli “studi in rete”. Il primo elemento, essenziale nel franchising, è il know-how, che posto in abbinamento ad attività di assistenza tecnica e commerciale esprime un quadro generale così sintetizzabile:

  • stessi sistemi e strumenti di gestione (incluso il controllo, i monitoraggi, il budgeting, ecc.);
  • coordinamento e compatibilità di codici deontologici interprofessionali per attuare programmi, progetti e piani di marketing e advertising;
  • comune impostazione e gestione della Customer Satisfaction;
  • formazione e aggiornamento obbligatori in abbinamento a quelli “dedicati” agli aderenti alla rete;
  • layout e uniformità di immagine degli studi;
  • gestione, supporto e incentivazione di collegamenti internazionali, anche per lo sviluppo della rete.

Il tema è vasto e si pone anche in conflitto e in concorrenza con norme “latine” (restrittive) e “anglosassoni” (non restrittive) che regolano le professioni nei vari paesi (tra i temi più importanti: pubblicità e deontologia). Dalla norma sul franchising, per ciò che interessa al confronto con quanto sopra, rileviamo:

  • 1, c.1: “L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”;
  • 1, c.2: “Il contratto di affiliazione commerciale può essere utilizzato in ogni settore di attività economica”;
  • 3, lett.f), che indica, tra gli elementi contrattuali obbligatori da descrivere: “le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione”;
  • 4, c.1, lett.b), che obbliga l’affiliante a fornire informazioni sui “marchi utilizzati nel sistema, con gli estremi della relativa registrazione o del deposito, o della licenza concessa all’affiliante dal terzo, che abbia eventualmente la proprietà degli stessi, o la documentazione comprovante l’uso concreto del marchio”.

Confrontando il testo della norma con gli elementi che caratterizzano i “network professionali”, risulta agevole notare i molti punti in comune, e in effetti in passato i tentativi di strutturare reti di franchising in settori professionali non sono mancati, con i primi cenni intorno al 2001 (nel settore legale, per esempio, e in quello più noto dell’odontoiatria). Ciò ha destato perplessità tra gli operatori del settore e tra gli stessi professionisti, anche perché in Italia le professioni da sempre si incrociano con la Costituzione e la tutela dei cittadini. È il caso del diritto alla difesa, del diritto alla salute e degli albi riconosciuti.

È vero che assistiamo a tendenze opposte, ma potrebbe non essere opportuno semplificare ogni cosa innalzando la bandiera della libera concorrenza nelle prestazioni professionali (e non tra professionisti, come dovrebbe avvenire), chiedendo a tutti il libero esercizio di attività legali, contabili, fiscali e tecniche; non quando per operare sulle ruote di un’auto, su un impianto elettrico o in tante altre attività, spesso artigianali, occorre essere in possesso di autorizzazioni amministrative o sanitarie, ottenibili solo se dotati di requisiti soggettivi o oggettivi, e dopo corsi di specializzazione riconosciuti da enti locali. Non solo, ma è anche delicatissimo il rapporto tra pubblicità e professioni, situazione che ha portato la giurisprudenza, Corte di Cassazione inclusa, a pronunciarsi su tale tema, e in particolare riguardo messaggi suggestivi o allusivi a risultati finali, in alcuni casi rischiosi per la salute della persona con uso di ingannevolezza o denigrazione rispetto a prestazioni di altri professionisti.

Conclusioni e prospettive sul franchising professionale

Un elemento certo dal quale dobbiamo partire è che il settore professionale fornisce dati in assoluta contraddizione rispetto alla natura del franchising. Infatti è un settore che trova difficoltà nella costituzione di studi associati (nel 2015 “il 75,9% dei professionisti svolge in solitario la propria attività professionale”, fonte rapporto Censis-AdEPP) e dove l’indipendenza e la personalizzazione la fanno da padrona. Sono elementi che attualmente non concedono spazi ottimistici sulle possibilità di applicare il franchising alle attività professionali.

Questione di cultura? Forse. Certa è la frequente convinzione del singolo professionista di essere depositario del miglior modo di gestire uno studio: il suo, sicuro che esista solo un modello da trasferire a terzi: il suo. Ciò, d’altronde, trova anche giustificazione e riscontro nella tipologia di rapporti fortemente fiduciari che ancora si instaurano tra clienti e professionisti, talvolta anche in forma personale. Bisogna anche considerare, però, che è ancora molto forte la cultura del cliente/consumatore nel ritenere il professionista iscritto in albi l’unico soggetto qualificato e competente. E non potrebbe essere altrimenti, visto il percorso che segue quel tipo di professionista.

In conclusione, un caso che dovrebbe evidenziare gli eventuali rischi di imprenditorializzare il mercato delle professioni. Recentemente, dopo l’esperimento fallito nel settore legale e quello nel settore sanitario, dove resiste nell’odontoiatria, hanno debuttato sul mercato del franchising offerte di servizi e consulenza fiscale e contabile. È noto che storicamente si tratta di attività competenti a commercialisti e consulenti del lavoro, e che da sempre richiedono anni di studio, formazione, specializzazione ed esami per l’iscrizione all’albo. La riflessione si fonda sul fatto che, mentre nel franchising legale e sanitario le offerte di affiliazione sono da sempre rivolte a professionisti qualificati, nel caso del settore “fiscale-contabile” la proposta di adesione è offerta a qualsiasi richiedente; pertanto, tutti potrebbero svolgere tale attività sotto l’egida di un marchio, anziché di un albo.

Occorre davvero domandarsi se sia il caso di lasciare nel libero mercato offerte di tale natura, che potrebbero attirare e ottenere l’attenzione di clienti/consumatori in settori dove è nota l’elevata difficoltà operativa da parte degli stessi professionisti specializzati, i quali operano in contesti regolati da norme e adempimenti sempre più complessi, difficili e ad alta specializzazione – soprattutto in Italia.

Certo, è innegabile: la società sta cambiando velocemente. Forse le regole e le attività necessarie a soddisfare la domanda del mercato sono più lente rispetto al cambiamento, oppure lo rallentano. Ciò che colpisce, tuttavia, è la contraddizione tra gli inviti a una più alta qualità delle prestazioni (derivata da formazione e specializzazione sempre maggiori) e la diffusione di inviti alla libera concorrenza, allargata fino a includere soggetti non qualificati. Il rischio è quello di ottenere non un mercato libero, ma un mercato selvaggio, ed è più che legittimo il dubbio che a guadagnarci siano i clienti o i consumatori.

 

 

Photo Credits © Flazingo Photos / CC BY-SA 2.0 (via Flickr)

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