Il corporate fundraising è una branca del fundraising che si occupa delle relazioni con le aziende, alle quali si possono chiedere doni o collaborazioni di natura commerciale.
Per instaurare partnership di successo “la prima cosa da fare è conoscersi e capire se ci sono affinità valoriali, affinché non si rischi di risultare incoerenti con il messaggio che si vuole mandare”, dice Accorroni. “Nella cassetta degli attrezzi dell’ente non profit non devono poi mancare consulenti di settore, come il commercialista, il legale e il notaio. Da una parte l’ente non profit dev’essere bravo a non farsi cannibalizzare dall’azienda, dall’altra l’azienda deve stare attento a non farsi sfruttare, e a sincerarsi che l’impatto di quella donazione sia misurabile, misurato, comunicabile e comunicato. A tutto questo si aggiunge una forte attenzione alla tutela dell’immagine e della reputazione, perché è tutto ciò che l’ente non profit possiede. Nel caso Balocco-Ferragni – aggiunge – anche l’ente non profit ha avuto le sue responsabilità: probabilmente la necessità dei soldi ha prevalso su tutto il resto. In generale non bisogna aver paura di queste partnership commerciali, che alla fine non sono altro che contratti. L’importante è farli bene e con serietà, mettendo tutto per iscritto”.
“Se trovi una persona – donatore o donatrice – che, in base alla reputazione che si è costruita, è in grado di donare un sostegno al tuo ente, va bene. Se lo fa in modo etico e i suoi valori sono coerenti con quelli dell’ente, ancora meglio. L’importante è mettere tutto nero su bianco e far sì che ogni messaggio che esce dall’influencer sulla partnership sia preventivamente approvato: non possiamo dare la reputazione del nostro brand in pasto a qualcuno”.
Per Melandri, “in questo settore il testimonial dovrebbe offrire il suo supporto gratis. Se viene pagato, il suo si trasforma in un servizio a pagamento, il che può essere oggetto di critiche e controversie. Nel corso della mia carriera non ho mai pagato un testimonial”, aggiunge, “nessuno mi ha mai chiesto neanche un rimborso spese (nemmeno Fiorello, Renzo Arbore, Guccini, per fare alcuni nomi). La scelta del testimonial giusto è importante perché si porta dietro la sua comunità, che mette a disposizione della non profit, la quale probabilmente non riuscirebbe a intercettarla da sola”.
Secondo l’esperto, il caso Ferragni è più unico che raro in questo senso, “forse il primo di sempre”. Ciò che invece è più diffuso è l’abitudine a non specificare l’entità o la percentuale del ricavato di una vendita che andrà in beneficenza: “C’è un problema di trasparenza. Non si tratta solo della Ferragni, è la prassi comune. Ci si nasconde dietro alla scusa ‘lo faccio per beneficenza’, per cui non mi sento obbligato a dirti la quantità esatta di denaro che donerò. Si crea così un’asimmetria informativa nella comunicazione, su cui la gente fa affidamento, sbagliando”.
Non solo falsa beneficenza: i Ferragnez sono stati criticati più volte anche per aver ostentato troppo le proprie donazioni. Accorroni, però, non è d’accordo con il detto che recita il bene si fa ma non si dice: “Ritengo che far affiorare almeno la punta dell’iceberg del bene che si fa sia fondamentale, perché non si parla mai abbastanza di solidarietà e di donazioni che cambiano la vita delle persone e del Pianeta; il buon esempio, invece, contamina positivamente gli altri. Questo è vero soprattutto per gli imprenditori, che osservano con interesse come si muovono i loro competitor”.
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Photo credits: fundraising.it