Il numero dei laureati in Italia è tra i più bassi d’Europa, le tasse sono tra le più alte e il lavoro non è garantito. Alle famiglie conviene ancora investire sull’università? Ne parliamo con Luisa Pomarici dell’associazione Tortuga e con il sociologo Franco Amicucci.
Se il pandoro rischia di fare più danni ai fundraiser che a Ferragni
Dati alla mano, gli italiani sono un popolo generoso. Lo sanno bene i professionisti del fundraising, gli “imprenditori del dono” che progettano le interazioni tra donatori ed enti non profit. Ma il loro lavoro rischia di risentire del Pandoro-gate: le opinioni dei fundraiser Valerio Melandri, Livia Accorroni e Andrea Romboli
È passato poco più di un mese dallo scoppio dello scandalo che ha travolto Chiara Ferragni e Balocco, a seguito della multa comminata dall’Antitrust di rispettivamente un milione di euro alle società riconducibili all’influencer cremonese e 420.000 euro all’azienda dolciaria, per pratiche commerciali scorrette. Un mese in cui è successo ed è stato detto di tutto sulla vicenda: dalla shitstorm che ha colpito Ferragni e consorte, alla sparizione dell’imprenditrice dai social per due settimane – lei che sui social mostrava ed esibiva ogni momento della sua vita, privata e non – passando per la riapparizione nel video di scuse in cui l’imprenditrice digitale appare provata e con addosso una tuta grigia “dimessa” – in realtà del valore di 600 euro, andata sold out in pochi giorni. Fino al ritorno “ufficiale”, ma in sordina, dei giorni successivi, prima solo nelle storie di Instagram, poi anche nei post. Ma senza la possibilità di commentarli.
Nel mezzo, le polemiche, le accuse, gli articoli morbosi e i meme non si sono mai fermati. Neanche la politica è voluta restare a guardare, anzi ha colto l’occasione per entrare a gamba tesa nella questione e ritagliarsi un ruolo di primo piano. Con risultati discutibili.
Giovedì 25 gennaio, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato quello che è stato ribattezzato subito “ddl Ferragni”, contenente norme atte a rendere più trasparente la beneficenza attraverso misure più stringenti anche per testimonial e influencer. Tra queste, sanzioni fino a 50.000 euro e l’obbligo per i produttori di riportare sulle confezioni informazioni come l’importo destinato alla beneficenza, se predeterminato.
L’influencer stessa ha accolto la notizia in modo positivo: “Sono lieta che il Governo abbia voluto velocemente riempire un vuoto legislativo. Quanto mi è accaduto mi ha fatto comprendere come sia fondamentale disciplinare con regole chiare le attività di beneficenza abbinate alle iniziative commerciali”, ha commentato Ferragni il giorno stesso. Una mossa a primo impatto spiazzante, ma che può essere spiegata con il fatto che si tratta di un di un’operazione politica di facciata, come ha spiegato Massimiliano Dona, presidente dell’Unione nazionale consumatori, in una nota.
“Ci riserviamo un giudizio finale una volta letto il testo, ma al momento permane il nostro parere negativo, anzi pessimo, sul disegno di legge sulla beneficenza che rischia di essere un passo indietro rispetto alla vigente normativa. Le multe continuano a essere insignificanti, ridicole e soprattutto infinitamente inferiori a quelle che l’Antitrust può comminare oggi per pratica scorretta, e che possono arrivare fino a 10 milioni. A titolo di esempio, nel caso della Ferragni, se la norma fosse stata già vigente, la multa sarebbe stata di 50.000 euro invece che di un milione. Un passo da gambero”, conclude Dona.
Pandori, uova e bambole: lo schema Ferragni al vaglio delle indagini
Nel mentre, continuano le inchieste su diverse operazioni commerciali ambigue portate avanti dalle società di Ferragni e altri brand importanti.
È delle scorse settimane, infatti, la notizia dell’iscrizione dell’influencer nel registro degli indagati della procura di Milano – con l’ipotesi di truffa aggravata – per le uova di Pasqua Dolci Preziosi e per la bambola Trudi. Operazioni commerciali in cui sembrano ritornare sempre gli stessi elementi: uno schema che, a questo punto, non sembra casuale. C’è sempre un cachet parecchio alto (500.000 euro nel 2021 e 700.000 euro nel 2022 per quanto riguarda le uova) destinato all’influencer, e ci sono sempre loro, i bambini malati, a cui, nel caso delle uova,
è arrivata una donazione di entità modesta (36.000 euro), stabilita a monte da Dolci Preziosi; mentre nel caso della bambola-mascotte con le sembianze di Chiara Ferragni, la CEO e fondatrice dell’associazione Stomp Out Bullying, Ross Ellis (associazione a cui avrebbe dovuto essere destinato l’intero ricavato delle vendite), ha di recente dichiarato che “non sappiamo chi sia questa donna e non abbiamo mai ricevuto una donazione”.
Di fronte a questo grosso pasticcio, però, a rimetterci non sono stati solo Balocco e l’influencer da 29 milioni e passa di follower, ma tutto il settore del fundraising, che adesso si trova ingiustamente nell’occhio del ciclone, costretto a dover rispondere alle accuse e allo scetticismo di chi non si fida più delle raccolte fondi, facendo spesso confusione tra le diverse responsabilità in gioco.
Per sgomberare il campo dai dubbi, abbiamo così deciso di raccogliere le voci e i pareri di alcuni professionisti della beneficenza e del fundraising italiano, che ci spiegano in cosa consiste questo mestiere, qual è o dovrebbe essere il ruolo dei testimonial e che cosa non ha funzionato nel caso dei pandoro Balocco griffato Ferragni.
Il fundraiser, una figura versatile tra gli enti non profit e i donatori
Il fundraiser è una figura fondamentale per le Organizzazioni Non Profit (ONP), anche se ancora poco conosciuta in Italia, al di fuori degli addetti al settore. Si tratta di un mestiere molto versatile che prevede diverse attività, le quali dipendono dal ruolo e dall’anzianità del singolo.
Sul sito di ASSIF (Associazione Italiana Fundraiser) è presente una definizione piuttosto completa di fundraiser: “Il fundraiser è colui che opera in modo professionale ed etico, in maniera remunerata, nella definizione e realizzazione delle strategie di comunicazione sociale, marketing sociale e raccolta fondi per organizzazioni del non profit. Il fundraiser supporta l’organizzazione nella ricerca della sostenibilità attraverso la cura della relazione con i donatori e il perseguimento della buona causa degli enti non profit”.
Andrea Romboli, oggi presidente di ASSIF, è stato tra i fondatori dell’Associazione, nata nell’ormai lontano 2000: “È nata con lo scopo di raggruppare le persone che si occupano di questo lavoro, identificare la categoria, darle dei valori e un codice etico di riferimento. Il fundraiser si può definire come una sorta di imprenditore del dono. Si tratta di una professione multidisciplinare, che richiede molta formazione e che al momento non è regolamentata: questo fa sì che il primo che rischia di non essere pagato è proprio il fundraiser. Negli ultimi anni ASSIF si sta impegnando affinché i fundraiser vengano tutelati e pagati per il lavoro che svolgono. Noi, ad esempio, consigliamo di non farsi mai pagare a percentuale: si tratta di un mestiere, e come tale deve essere trattato”.
Nel libro Fundraiser: professionista o missionario? (Guerini e Associati, 2005) Valerio Melandri e Giorgio Vittadini hanno stilato un elenco delle varie funzioni che può svolgere questo tipo di professionista: tra le altre, supportare l’organizzazione nella gestione amministrativa e direttiva delle attività di raccolta fondi; curare la relazione con il donatore; creare e aggiornare liste di donatori e potenziali donatori; pianificare e realizzare i programmi di raccolta fondi coordinandosi con il personale dell’ente e i volontari; restituire e rispondere al Consiglio Direttivo dei risultati della raccolta fondi e proporre i budget di investimento rispetto a questa area; curare le relazioni pubbliche e le campagne di comunicazione; lavorare all’analisi dei programmi di fundraising e nella pianificazione delle attività future.
“Il fundraising si può fare in due modi: dentro un ente non profit, e in quel caso il fundraiser diventa il responsabile della raccolta di sostegno in tutte le sue forme, o all’esterno dell’ente, come fanno i consulenti o i formatori, che guidano e accompagnano le realtà che non sono specializzate nel dono”, spiega Livia Accorroni, consulente, formatrice, social media manager e membro di Fundraiserperpassione S.R.L., società benefit che raggruppa quindici professionisti che operano nel settore.
Ad oggi la professione del fundraiser non è riconosciuta sotto il punto di vista legale, ma richiede comunque l’acquisizione di particolari competenze e conoscenze. Esistono corsi di formazione ad hoc e percorsi di laurea triennale e specialistica incentrati sulla gestione delle organizzazioni non profit. Vi sono poi dei Master universitari di primo livello sempre sulla gestione delle realtà del non profit, come il Master in Fundraising dell’Università di Bologna – sede di Forlì, il Master in Fundraising Management CSR e Sustainability della Social Change School e il Master Promotori della Fondazione Italia per il Dono. Al momento in Italia non ci sono dottorati di ricerca dedicati al tema.
Santi, poeti e donatori
Nel 2011 in Italia, secondo l’ultimo censimento ISTAT delle istituzioni non profit italiane, lavoravano più di 300.000 enti non profit. Per questi lavorano circa cinque milioni di volontari e un milione tra dipendenti e collaboratori. Numeri in crescita di circa il 30% rispetto all’ultimo censimento ISTAT del 2001.
Nel 2022 più di un italiano su due (il 55%) ha fatto almeno una donazione a un’associazione; il 20% in più rispetto al 2021 e ben il 34% in più del 2020. Cresce anche la donazione media tra i donatori a ONP, passata da 61 a 69 euro, mentre è calata l’entità delle donazioni informali, scese da 32 a 22 euro. I dati, contenuti nell’indagine Italiani Solidali realizzata da Doxa nel 2023, testimoniano la grande generosità del popolo italiano.
L’incremento è dovuto, oltre alle donazioni destinate all’Ucraina, alla componente sempre più preponderante che utilizza i canali online, costituita in gran parte dalle generazioni più giovani, Millennial e Gen Z. Il report, inoltre, mette in risalto il rimbalzo post-pandemia: in base alle dichiarazioni dei redditi 2021, gli italiani hanno donato 1,1 miliardi in più rispetto all’anno precedente.
Anche le aziende fanno la loro parte nella beneficenza. Nel 2021 l’ammontare delle deduzioni/detrazioni da parte di società di capitali e di società di persone è aumentato: nelle dichiarazioni dei redditi 2021 le deduzioni/detrazioni per donazioni ed erogazioni liberali ammontavano a a quasi 253 milioni di euro per le società di capitali e a quasi 4 milioni di euro per le società di persone, segnando rispettivamente un +28% e un +30% rispetto alle dichiarazioni fatte nel 2020. In entrambi i casi, però, la crescita delle donazioni è accompagnata da un calo degli atti donativi (-15% per le società di capitali e -24% per le società di persone), dimostrando che sono sempre meno le aziende che si impegnano concretamente nel sociale.
L’anno del COVID-19 aveva fatto registrare un picco di donazioni da parte delle imprese, che aveva fatto sperare in un cambio di passo. Due anni dopo, però, i primi dati sul 2022 certificano l’esistenza di un momento difficile sul fronte del corporate fundraising, a causa dell’impatto dell’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia sulle aziende, che in molti casi hanno preferito dirottare aiuti e fondi verso gli stakeholder o i dipendenti.
L’edizione 2022 della ricerca su Corporate Social Investment ed ESG – realizzata da Dynamo Academy con SDA Bocconi Sustainability Lab, sulla base delle dichiarazioni non finanziarie di 213 aziende – rileva come solo un quarto delle aziende del campione sia trasparente in termini quantitativi sulle proprie donazioni: prendendo in esame le 58 aziende che rendicontano una donazione, nel 2021 il valore mediano della donazione è stato di 356.000 euro, in calo – anche se il campione è cambiato – rispetto ai 508.000 euro del 2020.
Affaire Balocco, a Ferragni serviva un esperto di fundraising
Livia Accorroni preferisce il termine “fundraising” a “raccolta fondi”, che fa riferimento solo all’aspetto economico.
“L’etimologia del termine inglese spiega molto meglio della traduzione italiana il significato di questo mestiere”, afferma, “e vuol dire far risorgere un ente non profit attraverso i fondi. Per fondi, in realtà, non si intende solo soldi, ma quattro cose distinte. Una di queste è sicuramente il denaro; il tempo (quello dei volontari, ad esempio, che sono dei donatori di tempo); i beni, prodotti o servizi – le cosiddette ‘donazioni in kind’; partnership commerciali che prevedono una compravendita di tipo solidale. Il tutto all’interno di una cura delle relazioni tra tutti i diversi soggetti coinvolti, perché il dono viaggia solo dentro una relazione. Il fundraiser cerca infatti di instaurare con i donatori relazioni di medio-lungo periodo, che siano basate sulla trasparenza e sulla fiducia”.
Per la consulente “oggi, nel mondo delle raccolte fondi, si va sempre di più verso una disintermediazione, anche grazie all’utilizzo di piattaforme online come GoFundMe, che permettono a chiunque di lanciare una raccolta fondi per sostenere una causa. In questi casi non c’è un ente non profit che fa da intermediario tra i donatori e chi fa fundraising”. È proprio ciò che è accaduto nel caso Ferragni-Balocco: “In quel caso l’imprenditrice ha peccato di hybris: la filantropia e la solidarietà sono soggette a regole, sono una tecnica, così come il marketing. Lei non avrebbe mai avviato una campagna di marketing senza consultare un esperto, mentre in questo frangente ha pensato di potersi arrogare un’iniziativa filantropica nazionale senza chiedere un parere”.
Per Valerio Melandri, uno dei massimi esperti di fundraising in Italia, fondatore del Master in Fundraising dell’Università di Bologna e padre dal 2008 del Festival del Fundraising (il più grande festival italiano dedicato al mondo della raccolta fondi e della sostenibilità per il non profit), si è trattato più che altro di un’operazione di co-branding. Romboli la definisce invece un’operazione di cause-related marketing (ossia la vendita di un prodotto che sostiene una buona causa, promossa da un’azienda).
“Il problema è sorto – spiega Melandri – quando è stato tirato in ballo il marchio dell’ente non profit, l’Ospedale Regina Margherita di Torino, che si è prestato a questa operazione poco trasparente.”
Secondo Accorroni in Italia la figura del fundraiser è ancora poco conosciuta, e per questo molte aziende e imprenditori pensano di poter procedere in autonomia: “Con il supporto di un consulente del dono, sicuramente Ferragni e Balocco non sarebbero arrivati a commettere quegli errori. Poi in questo caso c’è stato anche del dolo, quindi la questione è ancora più grave, ma voglio sperare che il tutto sia nato in realtà da una leggerezza e dall’ignoranza riguardo alle professioni del dono. In ogni caso, chi ci ha rimesso davvero in questa storia è stato il mondo del fundraising, perché Ferragni ha avuto sì un calo e un danno d’immagine, ma in qualche modo si risolleverà, mentre i pregiudizi su questo settore saranno duri a morire. È venuta meno la fiducia dei donatori”.
Corporate fundraising, come funziona la beneficenza che si fa e si dice
Il corporate fundraising è una branca del fundraising che si occupa delle relazioni con le aziende, alle quali si possono chiedere doni o collaborazioni di natura commerciale.
Per instaurare partnership di successo “la prima cosa da fare è conoscersi e capire se ci sono affinità valoriali, affinché non si rischi di risultare incoerenti con il messaggio che si vuole mandare”, dice Accorroni. “Nella cassetta degli attrezzi dell’ente non profit non devono poi mancare consulenti di settore, come il commercialista, il legale e il notaio. Da una parte l’ente non profit dev’essere bravo a non farsi cannibalizzare dall’azienda, dall’altra l’azienda deve stare attento a non farsi sfruttare, e a sincerarsi che l’impatto di quella donazione sia misurabile, misurato, comunicabile e comunicato. A tutto questo si aggiunge una forte attenzione alla tutela dell’immagine e della reputazione, perché è tutto ciò che l’ente non profit possiede. Nel caso Balocco-Ferragni – aggiunge – anche l’ente non profit ha avuto le sue responsabilità: probabilmente la necessità dei soldi ha prevalso su tutto il resto. In generale non bisogna aver paura di queste partnership commerciali, che alla fine non sono altro che contratti. L’importante è farli bene e con serietà, mettendo tutto per iscritto”.
“Se trovi una persona – donatore o donatrice – che, in base alla reputazione che si è costruita, è in grado di donare un sostegno al tuo ente, va bene. Se lo fa in modo etico e i suoi valori sono coerenti con quelli dell’ente, ancora meglio. L’importante è mettere tutto nero su bianco e far sì che ogni messaggio che esce dall’influencer sulla partnership sia preventivamente approvato: non possiamo dare la reputazione del nostro brand in pasto a qualcuno”.
Per Melandri, “in questo settore il testimonial dovrebbe offrire il suo supporto gratis. Se viene pagato, il suo si trasforma in un servizio a pagamento, il che può essere oggetto di critiche e controversie. Nel corso della mia carriera non ho mai pagato un testimonial”, aggiunge, “nessuno mi ha mai chiesto neanche un rimborso spese (nemmeno Fiorello, Renzo Arbore, Guccini, per fare alcuni nomi). La scelta del testimonial giusto è importante perché si porta dietro la sua comunità, che mette a disposizione della non profit, la quale probabilmente non riuscirebbe a intercettarla da sola”.
Secondo l’esperto, il caso Ferragni è più unico che raro in questo senso, “forse il primo di sempre”. Ciò che invece è più diffuso è l’abitudine a non specificare l’entità o la percentuale del ricavato di una vendita che andrà in beneficenza: “C’è un problema di trasparenza. Non si tratta solo della Ferragni, è la prassi comune. Ci si nasconde dietro alla scusa ‘lo faccio per beneficenza’, per cui non mi sento obbligato a dirti la quantità esatta di denaro che donerò. Si crea così un’asimmetria informativa nella comunicazione, su cui la gente fa affidamento, sbagliando”.
Non solo falsa beneficenza: i Ferragnez sono stati criticati più volte anche per aver ostentato troppo le proprie donazioni. Accorroni, però, non è d’accordo con il detto che recita il bene si fa ma non si dice: “Ritengo che far affiorare almeno la punta dell’iceberg del bene che si fa sia fondamentale, perché non si parla mai abbastanza di solidarietà e di donazioni che cambiano la vita delle persone e del Pianeta; il buon esempio, invece, contamina positivamente gli altri. Questo è vero soprattutto per gli imprenditori, che osservano con interesse come si muovono i loro competitor”.
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Photo credits: fundraising.it
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