Fusione, acquisizione, sparizione. Come ti aggiro il divieto di licenziamento

Che cosa succede alle aziende italiane? Tramite operazioni di M&A è possibile evitare i divieti governativi: a rischio fino a due milioni di posti di lavoro.

Siamo giunti ormai alla fine di questo anno 2020, che per effetto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 ha visto cambiare completamente il tessuto socioeconomico di tutti i Paesi, più o meno industrializzati.

Pochissime le attività risparmiate dai prolungati periodi di lockdown decisi dai governi allo scopo di limitare la diffusione dei contagi. A partire dal marzo scorso, a colpi di DPCM che hanno scandito a ritmo quindicinale la nostra vita e di decreti-legge emanati, convertiti, riveduti e corretti, tutte le attività economiche hanno subito grossi contraccolpi dovuti alle chiusure forzate, riaperture a singhiozzo, protocolli di sicurezza spesso costosi.

L’Italia delle aziende ha due anime, ma rischia di avere un solo destino

Quando sentiamo parlare della nostra economia sembra sempre che tutte le aziende abbiano la stessa dimensione, che si trovino nelle stesse zone con lo stesso grado di sviluppo e lo stesso target di clientela.

Niente di più sbagliato. Chi conosce davvero la geografia economica italiana sa che ci sono zone di grande industrializzazione ad alta densità abitativa, dotate di servizi (di trasporto, commercio, di cura della persona), e altre (tante, tantissime) che sono invece dislocate sulle colline, in zone montane, nelle isole o nei famosi “borghi” italiani, dove le attività sono perlopiù piccole realtà artigianali sostenute dalla forza delle relazioni. Luoghi dove tutto è più difficile anche nella quotidianità per la mancanza o la scarsa efficienza dei servizi di trasporto, viabilità, accessibilità, reti di distribuzione delle utenze, dal riscaldamento alla connessione telefonica e Internet. Da questo viene fuori un’Italia con due anime: quella dei piccoli centri e delle micro imprese e l’altra, delle grandi organizzazioni e delle città.

È bene considerare queste due anime perché, dopo dieci mesi dal primo lockdown, si vivono diverse fasi. Le piccole aziende sono quelle che hanno provato e provano a resistere e alla fine non ce la fanno; le grandi, almeno in alcuni settori, hanno maggiori possibilità di assorbire il colpo iniziale subìto e avere prospettive di ripartenza.

Aziende che in ogni caso si sono trovate con personale in esubero perché il mercato ha cessato di esistere. A partire dall’interruzione dei trasporti che ha vanificato l’organizzazione “PULL”, basata sulla catena del valore che parte dall’ordine del cliente per innescare la produzione just in time dei soli articoli già venduti, tanto apprezzata dai manager per i buoni risultati che in molti casi era riuscita a realizzare. Tanti, con il perdurare della situazione negativa, decidono di vendere.

Aziende che aggirano il divieto di licenziamento: ecco come funziona

I dati degli ultimi mesi indicano un aumento di operazioni di M&A (Merger and Acquisition) che hanno riguardato vari settori e dimensioni aziendali. Un fenomeno che in Toscana, ad esempio, ha riguardato anche tante produzioni di alta gamma nel settore delle pelletterie, evidenziando due situazioni tipiche.

La prima è quella delle aziende che vendono perché sono con l’acqua alla gola per problemi finanziari e di sottocapitalizzazione (situazioni che spesso hanno origini lontane); in pratica vendono il “debito” e non l’azienda. La seconda è invece quella di chi acquista e vuole acquistare, di fatto, il solo know-how, con una precisa strategia: portare all’estero le produzioni di basso livello e lasciare qui solo il top di gamma, con l’intenzione di estendere l’operazione a tutto il distretto produttivo per includere chi disegna, concia, taglia e infine produce il bene “finito”. Un processo di integrazione orizzontale e verticale per avere il controllo di linee produttive di eccellenza.

Ciò produce anche effetti positivi, a partire dalla capitalizzazione delle aziende per finire con il ritorno al Made in Italy di produzioni di alto livello. Ci sono però tanti effetti negativi. Le produzioni top restano in Italia, ma il capitale prodotto no. Non arricchisce il patrimonio locale, aziendale, nazionale: viene trasferito all’estero, direttamente alla casa madre.

Sono poi anche i dipendenti a fare le spese di questo processo, perché chi rileva il brevetto o il know-how si tiene solo i più qualificati, quelli che il know-how lo portano nelle linee di produzione; gli altri vanno a casa, in NASpI, dopo il licenziamento intimato per cessazione dell’attività, che è una delle ipotesi in cui non si applica il divieto introdotto da marzo con il Decreto “Cura Italia” e via via prorogato fino al 31 gennaio 2021 con il Decreto “Ristori” di ottobre, mentre già è in discussione alle Camere il disegno di legge di Bilancio che dovrebbe estenderne la proroga fino al 31 marzo 2021. Chi vende, infatti, non cede l’azienda o un suo ramo, e chi compra acquista solo il know-how: di fatto l’azienda “cedente” cessa definitivamente la propria attività e licenzia senza violare il divieto; chi acquista solo brevetti e know-how apre una nuova attività e assume chi vuole.

In pratica queste operazioni sono congegnate in modo tale che non si configuri un trasferimento di azienda o di un ramo di essa, che comporterebbe la continuità del rapporto di lavoro di tutti di dipendenti con l’acquirente come previsto dall’art. 2112 del Codice civile, e conseguentemente l’applicabilità del divieto di licenziamento.

Operazioni di M&A ovunque: se i piccoli piangono, i grandi non ridono

Il COVID-19 ha accelerato operazioni di M&A anche nel settore alberghiero e della ristorazione; a Venezia, ad esempio, sono molte le attività che per questo motivo sono state messe in vendita. In altri settori queste operazioni vengono compiute ormai da diversi anni e riguardano anche piccole e micro imprese, che utilizzano anche uno strumento come “Laltra Borsa”, dove si fanno transazioni per società non quotate, S.r.l., spezzature; un mercato rivolto a chi possiede meno di 400.000 euro di capitale liquido. Cosa non di poco conto, dato che i cosiddetti “piccoli” fanno insieme l’80% della produzione totale italiana.

E di piccoli con il fiato corto ce ne sono tanti, tantissimi. Chi non ce la fa più per i troppi costi e i troppi disagi divide, liquida, chiude e licenzia; sta fermo un periodo e poi magari riapre sotto altra denominazione, sfruttando gli incentivi delle semplificazioni e degli sgravi contributivi. C’è anche chi tenta di riconvertirsi, cogliendo le opportunità di mercato create dalla stessa emergenza sanitaria. Il 2020 ha visto una crescita enorme del settore biomedicale, che non sarà certamente un fenomeno di breve periodo, ma che richiede forti investimenti, dato che solo le certificazioni necessarie hanno un costo che può arrivare a 400.000 euro.

Non mancano esempi di grandi realtà e catene distributive che accusano il colpo; per citare alcuni dati, Zara ha già previsto di chiudere 3.000 negozi e H&M addirittura 6.000. Si tratta di attività che non rappresentano un’intera area economica, ma solo un segmento, e quindi non producono effettivo sviluppo e prosperità nelle aree dove sono realizzate, dato che mancano parti rilevanti del sistema. Resta comunque il fatto che a seguito di queste chiusure ci saranno migliaia di dipendenti a casa: considerando una media di 10-15 addetti a negozio stiamo parlando di 100.000 lavoratori in meno solo per Zara e H&M, cosa che fa prevedere anche fino a 2.000.000 di posti di lavoro persi in totale per tutti i settori.

Una previsione, se non intervengono situazioni nuove, a cui per essere realizzata basta la cessazione del divieto di licenziamento, che non può essere prorogato all’infinito e che già oggi presenta numerosi profili di dubbia costituzionalità riguardo al principio di libertà di iniziativa economica, sancito dall’art. 41 della legge fondamentale italiana.

Per la ripartenza servono 150 miliardi, e una nuova narrazione

Per invertire la tendenza gli interventi finanziari sinora attuati dal governo appaiono inadeguati. La realtà è che servono almeno 150 miliardi di soldi “veri” per finanziare la ripresa, da reperire attraverso l’emissione di un debito speciale a 30/50 anni per avere un impatto sostenibile sul bilancio dello Stato. Se si continua a pensare di gestire la situazione con i protocolli di Basilea e il suo sistema di rating i finanziamenti non li prenderà più nessuno: prova ne sia che i famosi “400 miliardi” del Decreto Rilancio, che erano solo una garanzia e non prescindevano dal merito creditizio, sono stati un clamoroso flop.

Il merito creditizio per le aziende si attribuisce in base ai bilanci, in molti casi non particolarmente floridi già prima del COVID. Chi oggi resiste alla crisi o tenta di farlo lo fa ormai con bilanci discutibili, che non chiudono in perdita solo perché contengono crediti inesigibili se non addirittura inesistenti, e presentano altre, diffuse anomalie contabili.

È l’occasione giusta, quindi, per anticipare l’obbligo di adozione dei principi contabili internazionali IAS/IFRS per la redazione dei bilanci di tutte le aziende, anche delle piccole, medie e micro imprese. L’applicazione di criteri finanziari e di valutazioni espresse in termini di flussi di cassa e di fair value garantisce infatti maggiore trasparenza e migliore intellegibilità dell’informativa finanziaria, a tutto vantaggio di chi sull’affidabilità di quell’informativa fonda le proprie decisioni di investimento, facilitando così anche il processo di acquisizione dei finanziamenti.

A questo punto serve una seria analisi della situazione in cui versano tutte le aziende – piccole, medie e grandi, in tutti i settori – per tentare di salvare il nostro tessuto economico. Serve uno strumento di grande respiro, come lo fu il progetto che portò alla fondazione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale negli anni Trenta del secolo scorso, durante la recessione che seguì il crollo della Borsa americana del 1929.

Serve una nuova narrazione, non più basata sulla “conta dei morti” (quante aziende hanno chiuso, sono state vendute o hanno già portato i libri in tribunale), ma centrata su una seria pianificazione del futuro, realistica e concreta, che garantisca a tutti adeguati spazi e occasioni di lavoro.

Photo credits: www.ladiscussione.com

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