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Gianni Rosas, ILO: “Dare a tutti i Paesi una chance per ridurre la povertà nella filiera. Anche all’Italia”
Il direttore dell’ufficio dell’International Labour Organization, intervistato da SenzaFiltro, traccia un identikit dei lavoratori sfruttati e dei Paesi sfruttatori. La soluzione è la trasparenza, per tutti: grandi marchi, fornitori e consumatori
Lotta al caporalato e allo sfruttamento, impegno per la tutela della sicurezza e dei diritti umani dei lavoratori. I legislatori e gli imprenditori hanno davanti molte sfide perché il settore del tessile e dell’abbigliamento possa sostenersi in modo etico.
In un mondo sempre più globalizzato, dietro ogni singolo capo finito ci sono le storie e le sfide di migliaia di lavoratori, soprattutto donne, che ogni giorno affrontano povertà e abusi. Abbiamo chiesto a Gianni Rosas, direttore dell’ufficio dell’International Labour Organization (ILO) per l’Italia e San Marino, di farci un quadro sulla situazione in Italia e nel mondo.
Come è cambiata la geografia del lavoro nel settore tessile dagli anni Ottanta ad oggi?
Quello del tessile e dell’abbigliamento, tra tutti i settori economici, è quello che ha più risentito della globalizzazione, in termini di cambiamenti nell’organizzazione della produzione e del lavoro. Fino alla fine degli anni Ottanta la maggior parte dei capi proveniva dall’America del Nord e dai Paesi europei. A partire dagli anni Novanta, con la globalizzazione e l’apertura dei mercati, e ancor di più nel 2005, quando è entrato in vigore l’Accordo Multifibre che liberalizzava il sistema delle quote, la produzione si è spostata su altre regioni, e in particolare in Asia. Oggi tra i due terzi e i tre quarti della filiera produce in Asia, con quasi la metà di lavoratrici e lavoratori (oltre 42 milioni sui 94 milioni a livello mondiale) occupati negli stabilimenti di alcuni Paesi asiatici. Va detto che l’intera produzione di un capo finito non avviene mai in uno stesso stabilimento o in uno stesso Paese, ma si scinde in diverse unità produttive che possono arrivare, in alcuni contesti, anche al lavoro a domicilio. Ed è una sfida molto importante, quella del controllo del rispetto dei diritti umani dei lavoratori e delle lavoratrici. All’interno delle case è difficile fare controlli e assicurarsi che non lavorino i bambini, che non ci siano situazioni di sfruttamento e che l’ambiente sia adeguato. I Paesi asiatici protagonisti sono la Cina e il Bangladesh, ma anche la Giordania per quanto riguarda gli Stati arabi e la Turchia. Nel continente africano segnalo la Tunisia, il Marocco e l’Etiopia.
Quali sono le caratteristiche di questo settore produttivo?
Innanzitutto, è altamente femminilizzato. A livello mondiale la maggioranza della forza lavoro è rappresentata da lavoratrici; in certi Paesi parliamo del 90% del totale della forza lavoro. Questo dato, però, purtroppo non corrisponde al miglioramento delle condizioni di vita delle lavoratrici occupate nel settore, né a una loro presenza in ruoli dirigenziali e decisionali. In Bangladesh, o in Birmania, Myanmar, Pakistan, o Sri Lanka, il salario minimo è inferiore all’equivalente di 100 dollari al mese; quindi parliamo di cifre molto basse che non permettono alle donne di provvedere in modo adeguato alle esigenze delle loro famiglie e di condurre una vita dignitosa, a fronte di 15-16 ore di lavoro al giorno. Purtroppo si risparmia sempre sulla manodopera, come è avvenuto durante la pandemia e come accade quando aumentano i costi delle materie prime.
Oltre all’equo compenso che manca, quali sono i problemi più urgenti?
Di sicuro la salute e la sicurezza sul lavoro. L’ILO è impegnata da sempre per promuoverle, al fine di evitare il reiterarsi di incidenti gravissimi che hanno visto centinaia di persone perdere la vita in fabbrica, come avvenuto in Pakistan e Bangladesh, per fare un esempio. La parola d’ordine deve essere prevenzione, e bisogna garantire l’adeguatezza e la sicurezza dei luoghi di lavoro, la formazione degli operai, e non solo. Inoltre non è raro che i dipendenti, e le dipendenti in particolare, si trovino di fronte alla minaccia di perdere il lavoro se denunciano maltrattamenti, abusi, sfruttamento e persino molestie sessuali.
Anche in Italia il settore ha un’incidenza importante.
Anche l’Italia ha subito le conseguenze della globalizzazione, e rispetto al passato oggi ci sono molti prodotti che arrivano dall’estero. Si tratta di prodotti semilavorati, se non addirittura finiti. Questo ha portato a un calo nel numero di lavoratori, e il settore oggi conta circa 350.000 occupati, anche qui in prevalenza donne. Di certo nel nostro Paese le condizioni di lavoro sono migliori rispetto ad altre realtà che abbiamo citato, e ci sono maggiori controlli e disposizioni specifiche sulla salute e sicurezza dei lavoratori. Non esistono statistiche ufficiali sulla situazione, né su eventuali casi di sfruttamento, però ogni tanto sulla cronaca giudiziaria compare qualche caso di lavoratori, spesso stranieri, che sono vittime di intermediazione illecita e caporalato, come è stato tempo fa scoperto in Veneto; oppure in Puglia, dove sono stati identificati anche bambini di età compresa tra i 12 e i 15 anni che lavoravano invece di andare a scuola. In alcuni distretti, inoltre, la forza lavoro è per la maggior parte straniera, composta da cinesi o altre nazionalità, e spesso non è facile individuare violazioni dei diritti e delle norme vigenti. Ci sono poi i casi di aziende italiane che sono state rilevate da stranieri, che a loro volta impiegano manodopera migrante. Il settore è quindi in continua evoluzione e bisogna impegnarsi per garantire condizioni di lavoro dignitose e una concorrenza leale tra le imprese.
Che cosa si sta facendo per migliorare le condizioni di lavoro nel settore?
L’ILO ha un programma internazionale. Tra le varie iniziative, ad esempio, stiamo lavorando in Bangladesh, in collaborazione con imprese multinazionali anche italiane, per raccogliere fondi per garantire la pensione alle persone che sono rimaste invalide a seguito del crollo del Rana Plaza, un edificio che ospitava diverse fabbriche per la produzione di capi per l’esportazione, che ha causato la morte di oltre 1.134 persone. Inoltre supportiamo la stipula e l’attuazione di accordi sulla sicurezza delle fabbriche e sulle norme antincendio, sia in Bangladesh che in Pakistan, dove i sistemi di applicazione, controllo e ispezione sono piuttosto deboli. C’è, quindi, un impegno da parte di diverse multinazionali per favorire l’applicazione di queste regole.
In questi Paesi è anche molto diffuso il lavoro minorile.
Questo è un altro nodo saliente, sul quale molto è stato fatto, ma che vede persistere diversi problemi. Si tratta di processi che richiedono tempo per garantire la tutela dei diritti e l’uscita dalla povertà che si tramanda da una generazione all’altra.
Quindi oltre ai legislatori, anche le aziende stanno cominciando ad applicare le regole.
È responsabilità delle imprese che hanno sedi all’estero vigilare sul rispetto delle norme e operare nel pieno rispetto dei diritti umani, assicurandosi che in tutti i vari passaggi non accadano abusi e violazioni. Se riscontrano casi di impiego di minori o di violazione delle norme di sicurezza, devono smettere di lavorare con quel determinato partner. Così il problema si potrà combattere alla radice. È altresì importante vigilare sui diritti dei lavoratori a chiedere salari dignitosi, a riunirsi in sindacati e associazioni di categoria, come pure ad affermare il diritto alla parità di trattamento e alla non discriminazione. Non possiamo che essere preoccupati se pensiamo, ad esempio, alla questione dei diritti fondamentali del lavoro e ai diritti umani in Birmania, coi lavoratori costretti a stare in fabbrica dalle 60 alle 100 ore alla settimana con stipendi irrisori, o in situazioni di lavoro forzato e di schiavitù moderna. Ho citato la Birmania, ma ci sono purtroppo altri Paesi in cui non solo non si fanno passi in avanti sul piano dei diritti degli operai, ma si registrano continue violazioni. Quando ai lavoratori è consentito far sentire la propria voce e queste situazioni arrivano alle imprese appaltanti e ai consumatori, ci possono essere dei significativi cambiamenti.
E il consumatore che cosa può fare?
Le scelte del consumatore sono molto importanti, ma spesso chi acquista non sa quali siano i passaggi che hanno portato alla realizzazione del prodotto finito e quali siano tutti i Paesi coinvolti nella filiera. Oltre al Sud-Est asiatico anche l’Africa, i Paesi nordafricani, la Giordania e i Paesi dell’Est Europa giocano un ruolo importante. Spesso si punta alla delocalizzazione per reperire manodopera a basso costo, con poca attenzione al diritto a un giusto compenso, a uno stabilimento di lavoro sicuro e a norma, oltre che alla tutela delle norme ambientali. È giusto dare a tutti i Paesi una chance per ridurre la povertà e tutelare i diritti sociali dei lavoratori. Questo tema riguarda anche l’Italia.
E il fast fashion non è mai una scelta etica.
Basti pensare che per produrre una maglietta che paghiamo pochi euro e usiamo una stagione servono almeno mille litri di acqua e che, per garantire quel prezzo di vendita, si punta al ribasso dei costi del lavoro lungo la filiera di fornitura. Questo deve spingere a fare scelte etiche che riconoscano i diritti sociali di chi lavora, nella consapevolezza che esiste sì il consumismo, ma anche una realtà di consumatori con potere d’acquisto limitato a causa dei bassi salari. Il problema è quindi globale e interessa i lavoratori che producono i beni, ma anche i lavoratori che li comprano. È importante responsabilizzare tutti alla trasparenza; anche le aziende, che oggi sono sempre più attente a prevenire i danni reputazionali derivati da comportamenti scorretti di uno o più fornitori operanti nelle filiere globali.
In copertina: Fabbrica di tinture a Shaoxing in Cina, questo impianto si trova all’interno della zona industriale di Binhai. Foto@Greenpeace
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