La proposta di legge contro le delocalizzazioni approda alla Camera: ecco che cosa prevede. I primi firmatari Yana Chiara Ehm e Matteo Mantero: “Giornata storica, si può sanare un vuoto legislativo che la politica non ha mai voluto affrontare.”
Siria, il business della ricostruzione è un’altra guerra
Nato da manifestazioni pacifiche represse nel sangue, il conflitto siriano dura da un decennio e si è trasformato in una crisi internazionale e umanitaria, la peggiore dalla Seconda guerra mondiale. Qual è la situazione del Paese, oggi?
Nel 2013 un medico di un ospedale da campo della provincia di Aleppo denunciava che cominciavano a scarseggiare alcuni tipi di farmaci e strumentazione medica. La guerra in Siria era iniziata da due anni. Sono passati otto anni da allora, dieci dall’inizio del conflitto, e mentre la crisi umanitaria è diventata, secondo l’ONU, la più grave dalla Seconda guerra mondiale, quello che non è mai mancato nel Paese dei gelsomini sono le armi, nonostante una serie di iniziative internazionali per impedirne la vendita.
Più armi che cibo: la Siria dopo un decennio di conflitto
Il Consiglio dell’Unione europea, con la Decisione 2011/273/PESC, ha disposto “l’embargo sulle armi, il divieto di esportare attrezzature per la repressione interna, (…) il congelamento dei fondi e delle risorse economiche di determinate persone ed entità ritenute responsabili della violenta repressione a danno della popolazione civile in Siria”. In applicazione di questa Decisione, il 10 maggio 2011 entrava in vigore il Reg. (UE) n. 442/2011.
Provvedimenti simili sono stati adottati anche dagli Stati Uniti, ma non dalla Russia, di cui Damasco è storica alleata. Con l’era di Putin le basi militari russe al porto di Tartus sono state ampliate ed è aumentato in modo considerevole il rifornimento di armi di ogni tipo, compresi razzi e missili a lunga gittata. I due Paesi hanno firmato nel 2013 un accordo ventennale che prevede la concessione a effettuare trivellazioni in acque siriane per l’estrazione di petrolio e gas. Un altro grande alleato del governo di Damasco, che in cambio dell’accesso al Mediterraneo fornisce uomini e mezzi.
Nonostante le restrizioni, quindi, in questi dieci anni per le strade siriane, ormai disseminate di cadaveri e macerie, è stato più facile trovare fucili e ordigni che viveri e farmaci. Uno scenario drammatico che spinge a riflettere sul difficile rapporto tra diritti umani e business in teatri di guerra.
Secondo il World Food Programme oggi 9,3 milioni di persone, quindi il 46% dei siriani, stanno affrontando carenze alimentari. L’80% della popolazione vive ormai sotto la soglia della povertà anche a causa della svalutazione della Lira siriana, che ha perso oltre il 70% del suo valore. Il costo dei beni al consumo è aumentato anche del 200%. La svalutazione giunge dopo l’entrata in vigore, il 18 giugno 2020 con un ulteriore intervento a dicembre dello stesso anno, del Caesar Syria Civilian Protection Act, firmato dal presidente americano Donald Trump, che prevede sanzioni su trentanove figure di spicco dell’establishment damasceno, tra cui il presidente siriano Bashar al Assad e sua moglie Asma, ma anche su diversi enti e fondazioni riconducibili all’élite vicina al governo.
Mezzo milione di vittime, tredici milioni tra profughi e sfollati: i numeri della guerra in Siria
Dal 2011 a oggi in Siria si è passati dalle prime manifestazioni pacifiche contro il regime di Bashar al Assad a una vera e propria guerra, che ha assunto i contorni di una crisi internazionale in cui è intervenuto anche il terrorismo con l’avvento del Daesh, conosciuto anche come Isis.
A subire le conseguenze delle violenze, in un contesto che ha visto la comunità internazionale pressoché immobile, sono, naturalmente, i civili. Secondo le più recenti stime dell’ONU, le vittime sono oltre mezzo milione, mentre sono ben sette milioni i siriani che vivono nella condizione di sfollati interni – anche da anni.
Quasi sei milioni sono, invece, i siriani che vivono come profughi principalmente nei Paesi limitrofi, ma anche in Europa, in particolare in Germania, dove grazie alla politica di accoglienza della cancelliera Merkel sono arrivati un milione di rifugiati. La maggior parte dei Siriani fuggiti dalla guerra si trova in Turchia, circa 3,5 milioni, divisi tra campi profughi frontalieri, villaggi e città al confine e le grandi metropoli del nord.
Gli altri hanno trovato riparo in Giordania, Iraq e Libano, un Paese grande come l’Abruzzo che conta circa quattro milioni di abitanti e ha accolto oltre un milione di siriani. La gravissima crisi economica e politica che sta vivendo Beirut ha però creato una situazione di esasperazione tra la popolazione, che oggi è insofferente alla presenza dei rifugiati, considerati un peso e un’emergenza sociale.
Il governo e il business della ricostruzione in spregio ai diritti umani
Con il decreto 66 del 2012 e la Legge 10 del 2018 il governo di Damasco ha introdotto una normativa per cui può arbitrariamente confiscare i beni mobili e immobili di soggetti considerati “antigovernativi”, senza che questi possano presentare alcun appello.
Per monitorare le conseguenze di queste leggi e denunciarne gli abusi, alcuni avvocati siriani rifugiati a Londra hanno fondato, insieme a colleghi inglesi, il Syrian Legal Development Programme, che opera in virtù delle normative internazionali in materia. Il team mantiene un monitoraggio degli sviluppi a livello militare, economico e politico, preparando le sue iniziative legali per denunciare violazioni commesse da imprese e Ong in materia di rispetto dei diritti umani. Il business della ricostruzione, infatti, fa gola a molti, disposti ad aggirare le leggi e le restrizioni per prendere parte a questo processo.
Alcune famiglie, per non perdere per sempre il diritto ad avere un posto dove tornare in Siria e per non vedersi espropriare case e proprietà, cercano di tornare in patria. Secondo l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, sono solo 13.000 le persone che hanno fatto effettivamente ritorno alle proprie case. Come documentato da diverse Ong (tra le quali Operazione Colomba), molte persone al momento del rientro vengono però arrestate, così come accade a quelle che vengono rimpatriate forzatamente. Su 1.916 casi ufficiali di deportazione documentate dal Syrian Network for Human Rights, fino all’agosto 2019, 784 persone sono state arrestate e altre 638 sono scomparse.
A proposito di arresti, va citato un report di Amnesty International, pubblicato nel 2017 sulla drammatica situazione nel famigerato carcere di Saydnaya, dove solo tra il 2011 e il 2015 ben 13.000 persone sono state torturate e poi impiccate. Il SNHR ha anche documentato 15 morti per tortura in detenzione di rifugiati rimpatriati, di cui 11 deportati proprio dal Libano.
Il Coronavirus su un Paese in macerie e la guerra dei bambini
La vulnerabilità dei siriani è ulteriormente aggravata dalla pandemia di Coronavirus, in un contesto nel quale curarsi è molto difficile, se non impossibile.
Secondo un report della Ong Physicians for Human Rights, i bombardamenti indiscriminati su obiettivi civili hanno colpito il 50% degli ospedali, provocando la distruzione o il danneggiamento di oltre 570 tra ospedali e strutture sanitarie. Ben quaranta di questi attacchi sono stati perpetrati tra aprile 2019 e febbraio 2020. Questo tipo di violenze, contrario a tutte le convenzioni internazionali, ha anche provocato la morte di più di mille medici, operatori sanitari e soccorritori.
La crisi in Siria infatti è caratterizzata anche da continue violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. La dichiarazione delle Nazioni Unite del 2005 sulla responsabilità di protezione dei civili è stata violata più volte in Siria, con il blocco da parte del regime e dei terroristi dell’Isis all’accesso degli aiuti umanitari in alcune aree, e la mancata protezione dei civili da stupri, violenze e massacri.
Passerà alla storia il comunicato bianco diffuso dall’Unicef il 20 febbraio 2018 con una nota: “Non abbiamo più parole per descrivere la sofferenza dei bambini e il nostro sdegno”. In questo quadro drammatico, infatti, sono proprio i bambini ad aver pagato il prezzo più alto: secondo il SNHR sono quasi 30.000 quelli rimasti uccisi, mentre secondo l’Unicef il conflitto ne ha colpiti circa 5,5 milioni. Oltre la metà dei profughi e degli sfollati, infatti, è composta da minori, e metà di loro non va più a scuola. Scrivere la parola futuro, per loro, diventerà particolarmente difficile.
Se la corsa a ricostruire case, strade e siti archeologici è già partita (non certo per amore dei siriani, che oggi subiscono un esilio forzato di massa), nessuno si preoccupa della ricostruzione delle relazioni umane, famigliari, comunitarie di un Paese dove per secoli hanno convissuto etnie e confessioni diverse, che oggi si guardano con dolore e paura a causa della guerra e della deriva settaria che ha preso. Che cosa potrà essere una Siria senza i siriani?
Photo credits: Asmae Dachan
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