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Settimana Di 4 Giorni

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Settimana Di 4 Giorni - Informazione senza filtro

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L'umanità ha perso almeno due ore di sonno a livello collettivo, e il bilancio è forse anche peggiore: colpa di un sistema lavorativo dai carichi e dagli orari vetusti. Una riflessione che parte dal libro <em>Manifesto pisolini</em> di Virginia Cafaro e coinvolge in intervista il neuroscienziato e professore universitario Luigi De Gennaro

Questo lavoro inquina il sonno: meno power nap, più riposo

<p>Sindacati e operai battono un colpo: approvata con consenso quasi unanime la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale. Tra i punti principali la settimana lavorativa di 35 ore retribuite come 40, aumenti stipendiali e welfare aziendale</p>


CCNL Metalmeccanici, l'immagine dell'annuncio dell'approvazione della piattaforma tra sigle sindacali

salvoro

Salvoro

Francesco Salvoro

Appassionato di sviluppo organizzativo, da quindici anni presta servizio nel mondo delle risorse umane, con esperienze in importanti realtà italiane come Maxi Di, Everel Group e Burgo Group. Laureato in giornalismo e relazioni pubbliche all’Università di Verona grazie a una tesi reportage sui Balcani Occidentali, ha in seguito conseguito un Master in gestione risorse umane e competenze interculturali. Per molti anni ha collaborato nella provincia veronese con periodici locali e portali dedicati al mondo dello sport. Nel 2017 ha condotto per Radio Popolare Verona una rubrica settimanale intitolata “Lavori in Onda”. Dal 2020 è socio investitore della libreria indipendente “Lo Spazio” di Pistoia, a testimonianza della sua grande passione per la narrativa. Da sempre orientato al sociale, il modello di riferimento è Peppino Impastato e il simbolo la rosa di Sarajevo. &nbsp; E-mail: francesco.s@fiordirisorse.eu

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Francesco Salvoro - Informazione senza filtro

CCNL Metalmeccanici e settimana corta: plebiscito tra i lavoratori

Approvata la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale. Tra i punti principali la settimana lavorativa di 35 ore retribuite come 40.

CCNL Metalmeccanici e settimana corta: plebiscito tra i lavoratori - Informazione senza filtro

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La vicenda degli operai Whirlpool di Napoli raccontata dal documentario "Via Argine 310" di Gianfranco Pannone: un capitolo di una crisi che prima o poi toccherà tutti. Le testimonianze del regista, del collettivo e di Maurizio De Giovanni

Napoli, via Argine 310: gli ex operai Whirlpool ci stanno chiamando uno a uno

Gli enti pubblici sono sensibili all'inclusione delle persone LGBT e reagiscono con attività di formazione e accoglienza. Vediamo come con Cinzia Melis, della segreteria nazionale della rete RE.A.DY.

Orientamento sessuale, il 16,8% dei discriminati abbandona i territori. E la PA fa rete

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Tre lavoratori in regime orario di settimana corta attorno a un tavolo

Ancora troppo lunga la settimana corta all&#8217;italiana

In Italia mercato del lavoro e sindacati sono ancora molto indietro rispetto al tema della settimana corta; forse troppo. La nostra analisi.

Ancora troppo lunga la settimana corta all'italiana

Ancora troppo lunga la settimana corta all'italiana - Informazione senza filtro

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<p>Si stimano <strong>trecento esuberi</strong> per l’Italia, riguardo alla <strong>crisi</strong> <strong>Electrolux</strong>; gli stabilimenti dove è stato più ridotto il volume produttivo sono quello di Forlì e quello di Porcia in provincia di Pordenone. Sono questi i risultati dell’incontro avvenuto lo scorso 8 novembre tra l’azienda e le organizzazioni sindacali.</p>



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<h2 id="h-electrolux-in-italia-quanti-dipendenti-quali-stabilimenti">Electrolux in Italia: quanti dipendenti, quali stabilimenti</h2>



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<p>A raccontare anni di lotte dalla linea di produzione di Susegana (Treviso) è <strong>Augustin Breda</strong>, operaio che non ha mai voluto abbandonare le linee produttive, ma che nel suo ruolo di RSU FIOM CGIL dello stabilimento di Susegana ha preso una laurea in giurisprudenza per essere più performante nelle lotte sindacali.</p>



<p>“La fase attuale è arrivata <em>obtorto collo</em> nel <strong>2021</strong>. L’azienda aveva previsto a budget una crescita delle vendite, programmando una maggior produzione”, racconta.</p>



<p>I principali stabilimenti italiani sono <strong>Porcia</strong>, dove si producono lavatrici di grande taglia, <strong>Vallenoncello</strong> (Pordenone) con elettrodomestici per i grandi alberghi, <strong>Susegana</strong> con i frigoriferi da incasso per il settore del mobile, <strong>Solaro</strong> (Milano) per le lavastoviglie, <strong>Forlì </strong>con piani cottura e forni; l’ultima acquisizione del 2017 è lo stabilimento ex Best di <strong>Cerreto d’Esi</strong>, che produce cappe e ha circa duecento dipendenti.</p>



<p>Sono circa <strong>5.000 i dipendenti italiani della multinazionale</strong>, 12.000 quelli in Europa, 52.000 nel mondo, in un settore, quello del bianco, che è stato trainante per decenni per l’Italia.</p>



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<h2 id="h-la-versione-di-electrolux">La versione di Electrolux</h2>



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<p>Lo scorso 28 ottobre la multinazionale svedese ha diffuso il <strong>rapporto</strong> sul terzo trimestre del 2022, annunciando <strong>perdite nette per 55.3 milioni di euro</strong>, a fronte di un volume di vendite in crescita dell’1,2% nell’ultimo anno, per un valore complessivo che ammonta a circa 3 miliardi e 200.000 euro. Questo con un fatturato di oltre 125 miliardi di euro nel 2021, cresciuto di 10 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, stimato a <strong>138 miliardi di euro nel 2022</strong>. Il rapporto tra fatturato e dipendente è di 2.415.000 euro.</p>



<p>L’azienda annuncia nel rapporto una <strong>riduzione significativa dei costi</strong>, per “debolezza della domanda di mercato e insufficienza nella filiera di approvvigionamento, con benefici duraturi nel 2023 e 2024”. In Europa le vendite del gruppo sono in frenata: meno 9.7%.</p>



<p>“Volumi inferiori hanno comportato un calo degli utili. Con il notevole calo del volume, il prezzo ha compensato la significativa inflazione dei costi, con costi aggiuntivi derivanti dai restanti vincoli della catena di approvvigionamento. È stata ridotta la spesa discrezionale, il margine operativo lordo include una componente non ricorrente di 32,3 milioni di euro per l’uscita dal mercato russo”.</p>



<p><strong>Jonas Samuelson</strong>, durante la presentazione del rapporto, ha detto: “In Europa prevediamo che le spedizioni sul mercato saranno negative. Alta <strong>inflazione</strong> generale, <strong>tassi di interesse in aumento</strong> e l’invasione russa dell’<strong>Ucraina</strong> hanno provocato un forte calo della fiducia dei consumatori, e quindi anche nella domanda. La sostituzione sta mitigando in una certa misura questo calo della domanda”.</p>



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<h2 id="h-augustin-breda-fiom-cgil-lasceranno-scadere-i-contratti-a-termine">Augustin Breda, FIOM CGIL: “Lasceranno scadere i contratti a termine”</h2>



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<p>Nell’incontro con i sindacati dell’8 novembre Electrolux ha annunciato per Solaro una piattaforma produttiva per le lavastoviglie, ritenute un mercato in crescita, con investimenti per 102 milioni di euro tra il 2023 ed il 2026, per una produzione che dovrebbe passare dagli attuali 780.000 pezzi annui, a 1.319.000 nel 2026.</p>



<p>“Anche <strong>Whirlpool</strong> ha annunciato l’intenzione di <strong>abbandonare la produzione in Europa</strong>”, prosegue Breda. “È stato effettuato un aumento dei dipendenti tra il 2021 e il primo semestre 2022, i lavoratori in contratto a termine a <strong>Susegana</strong> sono 250 su 1.500 dipendenti. Per Susegana sui frigo prodotti sono stati posti 800.000 euro in meno rispetto al budget realizzato l’anno precedente; il calo delle vendite si è registrato lo scorso luglio, mentre la prospettiva di scenario positivo c’è stata fino ad aprile. Si sono registrati poi la crescita dei prezzi, l’aumento dei prodotti energetici e la guerra, con una frenata significativa per gli altri stabilimenti, che hanno prodotto dal 30 al 40% in meno rispetto alle previsioni. A Susegana il calo è più contenuto, del 10-12%, perché si produce per il settore del mobile”.</p>



<p>Negli stabilimenti di <strong>Forlì</strong> e <strong>Porcia</strong> sino a ora sono circa 60 i turni di <strong>cassa integrazione</strong>, contro i 20 di Susegana, ma di fatto già si sta tagliando sui lavoratori a termine, come denuncia Augustin Breda.</p>



<p>“Dopo luglio il calo delle vendite ha come conseguenza che <strong>paghino i contratti a termine</strong>, per cui si ha una riduzione dell’organico: si lasciano semplicemente scadere i contratti, <strong>non si rinnovano</strong>, un’operazione che sarà conclusa entro dicembre, quando saranno circa <strong>750</strong> i lavoratori in meno. A Susegana si interviene in un quadro di trasferimento produttivo di stabilimento; è stato edificato un secondo stabilimento Genesi, oltre a Cairo dove è prodotto il modello tradizionale. È stata prevista una maggiore produzione di frigo da incasso che sta per lasciare il posto alla <strong>nuova fabbrica</strong> costruita ex novo, con impianti altamente automatizzati 4.0, finanziata con fondi europei e nazionali, per essere installata in Italia.”</p>



<p>“Questa fabbrica dovrebbe sostituire la vecchia con due o tre turni da sei ore, i lavoratori saranno in gran parte reimpiegati lì. Si produrranno frigoriferi innovativi ma molto costosi: circa <strong>2.200 euro per il modello di punta</strong>, che ora sta sui 1.000 euro. In questa bella tempesta perfetta è scattata la cassa integrazione per difficoltà economica, la scommessa ad alzare il livello di gamma dei prodotti è <strong>un’incognita</strong> riguardo la possibilità di trovare le quote di mercato necessarie ai prodotti in tutta l’Unione europea.”</p>



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<h2 id="h-4-000-tagli-a-livello-globale-electrolux-scappa-ma-il-nuovo-stabilimento-lo-ha-pagato-lo-stato">“4.000 tagli a livello globale”: Electrolux scappa, ma il nuovo stabilimento lo ha pagato lo Stato</h2>



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<p>La multinazionale ha annunciato <strong>tagli globali di personale per 4.000 unità</strong>, pari a circa l’8% degli occupati. Il sindacalista FIOM CGIL analizza la situazione dell’Italia. </p>



<p>“È lo stabilimento di Porcia a soffrire di più, per Solaro è stato bloccato il 15% circa di produzione. <strong>I tagli per l’Italia sono di circa trecento dipendenti</strong>, che un turnover pensionistico potrebbe risolvere; potrebbero intervenire nel settore della ricerca e sviluppo e del supply chain, più che sulla produzione o sulla struttura tecnica aziendale. Aumenteranno le giornate di cassa integrazione, a Porcia, Solaro e Forlì ci saranno ulteriori tagli alla produzione”.</p>



<p>Breda e i sindacati chiedono, come avvenuto per Whirlpool, un livello di <strong>interlocuzione istituzionale ministeriale ed europeo</strong>. Ha detto che in Europa si agisce anticipando gli eventi da parte dei sindacati, studiando soluzioni appena si manifestano tendenze di crisi. In Italia, al contrario, si mette una toppa quando gli eventi sono già accaduti.</p>



<p>“In modo unitario come RSU abbiamo chiesto alle istituzioni di intervenire per l’intero settore, considerando anche quello che sta accadendo in Whirlpool. L’<strong>Electrolux</strong> merita un’interlocuzione con un livello di confronto ministeriale ed europeo, per capire come si muove questa multinazionale che ha ricevuto <strong>tanti aiuti, pari all’80% dell&#8217;ammortamento</strong> per il nuovo stabilimento di Susegana, costato 130 milioni di euro; quindi circa 90 milioni di euro di aiuti. Tutto il settore degli elettrodomestici dovrebbe muoversi unito. La politica non dovrebbe intervenire solo per mettere le toppe dopo che il problema si è presentato, ma si dovrebbe fare anticipazione degli eventi, quando cambiano le prospettive di mercato, come avviene all’estero. La crisi è scoppiata a giugno, il primo incontro tra azienda e sindacati è stato a novembre, quando l’azienda aveva già avvisato che ci sarebbe stata una forte frenata del mercato”.</p>



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<h2 id="h-gianluca-ficco-segretario-nazionale-uilm-va-posta-al-nuovo-governo-la-questione-sostenibilita-sul-settore-elettrodomestici">Gianluca Ficco, Segretario nazionale UILM: “Va posta al nuovo governo la questione sostenibilità sul settore elettrodomestici”</h2>



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<p>Anche <strong>Gianluca Ficco</strong>, Segretario nazionale UILM che segue da vicino la crisi aziendale, commenta: “Ci aspettiamo trecento esuberi, non sappiamo ancora a chi toccherà. Si è registrato un forte calo di volumi produttivi negli stabilimenti di Porcia e Forlì. Per esperienza sappiamo che, quando il calo di volumi diventa strutturale, c&#8217;è appunto il rischio di esuberi”.</p>



<p>“È positivo che siano stati confermati gli investimenti, il 9 novembre si è tenuta un’assemblea a Solaro con l’inserimento di alcuni temi nella trattativa aziendale, quali il numero di pezzi ora, lo scivolo pensionistico per i lavoratori che nel 2023 usufruiranno della cassa integrazione, la creazione di un bacino per riassumere i tempi determinati che sono già stati chiamati. Alla luce di quanto emerso nell’assemblea di Solaro, va posta al <strong>nuovo governo</strong> la questione della <strong>sostenibilità del settore degli elettrodomestici in Italia</strong>, anche alla luce dell’annuncio di Whirlpool di voler abbandonare l’Europa.”</p>



<p>“È un settore con margini di profittabilità sempre più ridotti, che risente fortemente dell’<strong>incremento dei costi energetici</strong>; quindi chiediamo un confronto al Governo, che ha sempre annunciato di volersi occupare della questione della politica industriale – l’hanno detto più volte nelle loro interviste. Ci assicureremo che non sia solo materia di dichiarazioni giornalistiche, ma di impegno concreto.”</p>



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Tagli Electrolux. Augustin Breda, FIOM CGIL: &#8220;L&#8217;Europa anticipa le crisi, l&#8217;Italia le insegue&#8221;


<p>Chissà se ci scrolleremo davvero di dosso la pandemia e soprattutto il modo in cui l’abbiamo gestita, arrivando a fare una <strong>gara tra i diritti </strong>e mettendo al primo posto il diritto alla <strong>salute</strong> rispetto al diritto al <strong>lavoro</strong>.</p>



<p>Con il <strong>reintegro dei medici</strong>, <strong>infermieri</strong>, <strong>operatori sanitari</strong> e <strong>psicologi</strong> <strong>non vaccinati</strong> dal 2 novembre scorso, due mesi prima rispetto al 31 dicembre previsto, e con tutte le polemiche che ne sono scaturite, il dubbio è più che lecito.</p>



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<h2 id="h-i-medici-sospesi-andrebbero-puniti-i-commenti-all-indomani-del-primo-decreto-meloni">I medici sospesi andrebbero puniti: i commenti all’indomani del primo decreto Meloni</h2>



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<p>“Non mi farò mai curare da un medico no vax”, “chiederò al medico che ho di fronte se è vaccinato o meno”, “i medici che non credono nella scienza e non hanno fatto il vaccino dovrebbero avere delle spillette per distinguersi dagli altri”. Sono solo alcune delle frasi lette su Twitter poco dopo che, il 29 ottobre scorso, si era diffusa la notizia che gli operatori sanitari potevano rientrare al lavoro, dopo esserne stati allontanati nell’aprile 2021 con il Decreto-legge n.44 e successive modifiche.</p>



<p>In uno Stato in cui diritto alla salute e diritto al lavoro dovrebbero stare sulla stessa riga, un <strong>approccio così punitivo</strong> non dovrebbe avere ragione di esistere. Parliamo tanto di misure per contrastare la disoccupazione, di sostegno alla povertà, e poi togliamo il lavoro a chi ha tutti i titoli per portarlo avanti e ha espresso una libera scelta in merito alla sua salute.</p>



<p>Ma non solo: lo facciamo in uno dei settori che annaspa di più, ossia quello della <strong>sanità</strong>.</p>



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<h2 id="h-quando-i-diritti-sono-dispari-depauperamento-delle-cure-e-violazione-della-libera-scelta"><a></a>Quando i diritti sono dispari: depauperamento delle cure e violazione della libera scelta</h2>



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<p>Con l’obbligo vaccinale imposto al personale sanitario sono stati sospesi<strong> 4.000 operatori sanitari </strong>– stando ai numeri ufficiali – che avrebbero potuto curare persone affette dal COVID-19 ma anche da altre malattie, fare prevenzione e, come medici di base, avrebbero potuto dare ognuno sostegno a <strong>1.500 assistiti</strong> (numero massimo previsto per ciascun medico di famiglia).</p>



<p>Abbiamo fatto venire meno gli infermieri negli ospedali, e in un momento di grossi problemi psicologici – le tante richieste del bonus psicologo lo hanno dimostrato – abbiamo tolto la possibilità di colloqui con degli specialisti a chi si sentiva fragile. Magari non dal punto di vista fisico, ma da quello mentale.</p>



<p>Ma non solo: <strong>abbiamo tolto il lavoro a chi aveva studiato per conquistarselo</strong>, era stato in corsia nei primi mesi del COVID-19 e aveva curato a distanza chi aveva preso un virus nei primi tempi totalmente sconosciuto.</p>



<p>“Lo abbiamo fatto per prevenire la diffusione dei contagi”, si disse allora, ed è lo stesso leitmotiv su cui puntano regioni come la <strong>Campania</strong> e la <strong>Puglia</strong>, che oggi “alzano un muro contro i medici sospesi”. Peccato che poi si sia scoperto che, per quel che riguarda il contagio, il vaccino non riesca affatto a prevenirlo. E questo nonostante lo stesso<strong> giuramento di Ippocrate</strong> chieda di “rispettare e facilitare il diritto alla<strong> libera scelta del medico</strong>”, e di “rispettare i colleghi anche in caso di <strong>contrasto di opinioni</strong>”.</p>



<p>Un <strong>depauperamento delle libertà </strong>reso evidente da alcuni giudici, come Roberto Beghini del Tribunale di Padova, che ha riammesso un’operatrice sociosanitaria con la sentenza del 28 aprile scorso ritenendo l’obbligo vaccinale “<strong>inutile e gravemente pregiudizievole</strong>”. Cui ha fatto eco, nel luglio scorso, il giudice Susanna Zanda del Tribunale di Firenze riammettendo una psicologa sospesa. Se vogliamo che diritto alla salute e diritto al lavoro stiano davvero sullo stesso piano forse dovremmo partire da qui. Il che non significa “buttare all’aria tutto il lavoro di contrasto alla pandemia”, ma imparare dai propri errori e puntare sulla difesa di tutti i diritti costituzionali. Nessuno escluso.</p>



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<p><em>Photo credits: torial.com</em></p>


Reintegrati i sanitari sospesi: il diritto al lavoro vale quanto quello alla salute

<p class="has-text-align-right"><em>Traduzione dallo spagnolo di Clara Piemontese.</em></p>
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<p>Dopo diverse decadi di ibernazione, l&#8217;idea di <strong>ridurre l’orario</strong> di lavoro ha nuovamente fatto irruzione nel dibattito pubblico europeo. Questa proposta di trasformazione sta guadagnando sempre più sostenitori e alcuni governi, come quello della <strong>Comunità Valenciana</strong> (Spagna), stanno sviluppando programmi pionieristici di politica pubblica per incentivare la <strong>settimana di lavoro di 4 giorni</strong> o l’orario di <strong>32 ore settimanali</strong>.</p>
<p>Le <strong>ragioni</strong> per riaprire il dibattito sull’estensione dell’orario di lavoro sono fondamentalmente tre, e riguardano le grandi sfide contemporanee che dobbiamo affrontare nel campo dell&#8217;economia, del benessere sociale e della lotta al cambiamento climatico.</p>
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<h2 id="h-4-giorni-lavorativi-perche-la-spagna-ha-deciso-di-adottarli">4 giorni lavorativi, perché la Spagna ha deciso di adottarli</h2>
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<p>In primo luogo, si parte dall’evidenza che <strong>lunghi orari di lavoro</strong> sono essenzialmente <strong>controproducenti</strong> per l’economia. Infatti i Paesi del Sud, come l’Italia o la Spagna, figurano tra quelli che lavorano in media più ore all’anno, con livelli di produttività sostanzialmente inferiori a quelli registrati in altri Paesi come la Germania o i Paesi nordici, che lavorano molte meno ore.</p>
<p>D&#8217;altra parte, questa maggiore estensione dell’orario di lavoro si traduce in <strong>molteplici problemi sociali e sanitari</strong>, come l’incapacità di conciliare vita famigliare e professionale o la crescita esponenziale dei problemi di salute mentale legati alla pressione sul lavoro.</p>
<p>Tutto questo ha un <strong>costo</strong> per le <strong>persone</strong>, ma anche per le <strong>imprese</strong> in termini di licenziamenti e assenteismo.</p>
<p>Infine, è sempre più evidente che la situazione di <strong>emergenza climatica</strong> in cui viviamo ci impone di adottare, anche a livello economico, misure che ci aiutino a promuovere uno stile di vita più tranquillo, sano e meno intensivo nell’uso di energia e materie prime.</p>
<p>È per tutte queste ragioni che diverse organizzazioni, sindacati, partiti politici e governi di tutto il mondo stanno valutando la possibilità di incentivare la riduzione dell’orario di lavoro come un buon modo per rispondere simultaneamente a queste tre sfide: costruire un’economia intelligente e più produttiva, dare priorità alla salute umana e agire con decisione per combattere il cambiamento climatico.</p>
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<h2 id="h-la-settimana-corta-della-comunita-valenciana-aiuti-alle-imprese-per-ridurre-giorni-e-orari-di-lavoro">La settimana corta della Comunità Valenciana: aiuti alle imprese per ridurre giorni e orari di lavoro</h2>
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<p>Nel caso della Spagna, il <strong>governo regionale della Comunità Valenciana</strong>, nel 2018, è stato il primo a considerare la possibilità di sviluppare un programma di <strong>incentivi per la riduzione dell’orario di lavoro senza perdita di salario</strong>.</p>
<p>Fino ad oggi si erano sviluppate esperienze pilota, a livello aziendale, in diversi Paesi – come la Nuova Zelanda o il Giappone – che avevano ottenuto ottimi risultati. In questo senso, è stata presa in considerazione la possibilità di elaborare un <strong>programma di aiuti di Stato</strong> per incentivare un maggior numero di imprese a aderire a questo modello e a valutarne i possibili benefici.</p>
<p>Il programma, in vigore dalla metà di quest’anno, eroga un <strong>sussidio pubblico</strong> alle imprese che decidono di <strong>ridurre</strong> l’orario di lavoro a 4 giorni o 32 ore settimanali, <strong>mantenendo i livelli salariali</strong> e affrontando questo processo in modo consensuale con i rappresentanti sindacali.</p>
<p>L’azienda può ricevere un <strong>aiuto decrescente</strong> per lavoratore per un periodo di tre anni: il primo anno può ricevere fino a <strong>5.500 €</strong>, il secondo <strong>2.750 €</strong> e il terzo <strong>1.370 €</strong>. L’obiettivo è quello di accompagnare le imprese durante questo periodo di transizione, fino all’adozione di miglioramenti organizzativi che consentano di aumentare la produttività.</p>
<p>Le imprese devono elaborare un piano d’azione per migliorare i loro livelli di produttività e devono anche mantenere i livelli di occupazione e i salari. Sono ammesse imprese di ogni dimensione e settore.</p>
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<h2 id="h-in-spagna-i-4-giorni-lavorativi-diventano-programma-di-stato">In Spagna i 4 giorni lavorativi diventano programma di Stato</h2>
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<p>Oltre al programma di Valencia, è attualmente in fase di progettazione un <strong>programma elaborato dal governo spagnolo</strong> per l’insieme dello Stato.</p>
<p>L&#8217;approccio è leggermente diverso, in quanto gli <strong>aiuti</strong> sono limitati alle sole <strong>imprese industriali</strong> e si configurano come una politica di sostegno all’innovazione organizzativa, ma gli obiettivi sono simili: promuovere una riduzione dell’orario di lavoro di almeno il 10% e testare i risultati ottenuti. Si prevede che il programma sarà aperto alle domande delle imprese entro la fine dell’anno.</p>
<p>Possiamo quindi affermare che la Spagna, e la Comunità Valenciana in particolare, sono diventate i punti di riferimento per l’istituzionalizzazione delle nuove politiche di riduzione dell’orario di lavoro.</p>
<p>Imparare da queste esperienze può essere una grande opportunità per tutti i Paesi del Mediterraneo. Come <strong>l’Italia</strong>, che condivide condizioni economiche e lavorative simili e che può trovare nella riduzione dell’orario di lavoro un’alternativa trasformativa e di progresso per un modello economico più sostenibile e incentrato sul miglioramento del <strong>benessere</strong> delle persone.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/settimana-di-4-giorni/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Settimana di 4 giorni</a></strong>.</em></p>
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<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>
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<p><em>Photo credits: collettiva.it</em></p>


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Joan Sanchis i Munoz

Professore di Economia Associata presso l’Università di Valencia e Consigliere alle politiche per l&#8217;occupazione del Governo della Comunità valenziana. La sua carriera accademica e professionale si è concentrata principalmente sui campi delle politiche pubbliche, della geografia economica e dell&#8217;economia urbano-regionale. Si considera un individuo creativo, dinamico e critico, con una profonda motivazione a trasformare e migliorare la nostra società.

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4 giorni lavorativi in Spagna: se la chiami siesta sei di Confindustria

Un approfondimento sulle sperimentazioni di Comunità Valenciana e Stato spagnolo con la settimana lavorativa corta, sul suo funzionamento e sui suoi obiettivi. Ne scrive in esclusiva per noi Joan Sanchis i Muñoz, professore di Economia associata dell&#8217;Università di Valencia.

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seven

Scuola e lavoro sommerso, oggi l’insegnante è più impiegato che docente


<p><strong>Settimana corta al lavoro</strong>: sì o no? C’è chi la ritiene la soluzione ideale, chi una trovata di marketing e di employer branding, e <strong>chi la sta già sperimentando</strong> da qualche anno in <strong>Italia</strong>, ancor prima che se ne tornasse a parlare per via di Intesa Sanpaolo. Che, per chi non lo sapesse, ha proposto quattro giorni a settimana, passando da 7,5 ore di lavoro quotidiane a 9.</p>



<p>Ma cosa ne pensano i<strong> dipendenti</strong>? E ci sono altri modi per lavorare meno, mantenendo lo stesso stipendio e trovando forse l’agognato work-life balance?<br><br><em>SenzaFiltro</em> lo ha chiesto a chi in prima persona vive il frutto di queste decisioni: i dipendenti, appunto. Abbiamo parlato con<strong> sei persone </strong>che lavorano in quattro aziende diverse. E no, non sono tutte di grandi dimensioni. Ecco che cosa ci hanno detto.</p>



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<h2 id="h-alessandro-di-zupit-piu-che-settimana-corta-la-nostra-e-una-giornata-corta-e-ci-da-una-concentrazione-totale">Alessandro di Zupit: “Più che settimana corta, la nostra è una giornata corta. E ci dà una concentrazione totale”</h2>



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<p>Dalle parti di Trento, in <strong>Zupit</strong>, le <strong>30 ore</strong> sono la norma. O almeno lo sono da quattro anni: “Quando sono arrivato era già così”, racconta <strong>Alessandro Mariotti</strong>, technical leader (responsabile tecnico) in questa realtà che conta 30 dipendenti. Qui si sviluppano software, con metodologie agili e <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/settimana-corta-aziende-900-contratti/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">settimana</a><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/settimana-corta-aziende-900-contratti/"> corta</a>: “Per noi è più una<strong> giornata corta</strong>: lavoriamo <strong>dalle 8 alle 14</strong>, tutto filato, e dopodiché il <strong>pomeriggio è libero</strong>. Ogni tanto capita di fare qualcosa in più, ma è un’eccezione. A livello contrattuale, abbiamo un part-time di 6 ore al giorno”.</p>



<p>La giornata corta è stata comunque una conquista per questa piccola impresa che lavora in ottica di “miglioramento continuo”. All’inizio si facevano le “classiche” 40 ore: “Anche se era prevista una parte da dedicare alla formazione, che oggi è lasciata agli individui”, aggiunge Alessandro. “Nell’informatica è un’esigenza molto sentita, pertanto di solito le dedichiamo parte del nostro tempo libero. Con le 30 ore lavoriamo meno, e abbiamo più tempo per formarci, ma soprattutto per altre cose: sono riuscito a seguire la ristrutturazione di casa mia. Diversamente, sarebbe stato impossibile”.</p>



<p>Per Zupit è oggi una “scommessa consolidata”, ma “<strong>non è sempre facile </strong>organizzare le <strong>riunioni</strong> con i <strong>clienti</strong>, così come i colloqui per cercare nuove persone (di solito libere dopo il lavoro). Poi, certo, dipende dai casi: se abbiamo un cliente grosso tendiamo a fare qualche riunione extra, ma cerchiamo di far passare il messaggio: quando ci chiedono di contattarci nel pomeriggio, la risposta è tendenzialmente no”.</p>



<p>E le “<strong>emergenze</strong>” come vengono gestite? “Con i <strong>Service Level Agreement</strong> (<em>accordi sul livello di servizio, N.d.R.</em>) interveniamo nei tempi garantiti che tutelano allo stesso tempo il nostro orario, poi dipende dal canone che paga il cliente. Ma in generale si privilegia quello che l’azienda ha deciso per le persone”.</p>



<p>Se vi state chiedendo se in 30 ore si riesce a fare quello che si fa in 40, Alessandro risponde con un gran sorriso: “Sì, senza dubbio: il mio lavoro è <strong>pura concentrazione</strong>. Quando facevo le 8 ore a un certo punto non rendevo più come al mattino. In altre aziende, poi, mi capitava <strong>di farne 45 a settimana</strong>, altro che 40! Inoltre, se arrivi a casa tutti i giorni alle 18, l’umore con cui vai al lavoro è diverso. Oggi sono più felice e concentrato, e da remoto ancora più produttivo. Ogni giovedì, comunque, con il mio team ci ritroviamo in ufficio perché abbiamo bisogno di vederci”.</p>



<p>Essere in ufficio alle 8 però non è facile per chi vive lontano: “Sono colleghi che non vengono quasi mai, è vero, ma tutto questo, insieme ad altri benefit, sta creando una bella comunità: da parte di tutti c’è una voglia di partecipare notevole”, conclude Alessandro prima di lasciarci per andare a fare la spesa (sono le 14.30 di un venerdì).</p>



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<h2 id="h-con-la-flexi-week-possiamo-prendere-8-ore-a-settimana-anche-spalmate-su-piu-giorni-l-esperienza-di-awin">“Con la flexi-week possiamo prendere 8 ore a settimana, anche spalmate su più giorni”. L’esperienza di Awin</h2>



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<p>Per <strong>Awin Italia</strong>, azienda di affiliate marketing parte di Axel Springer Group, con diverse sedi nel mondo e 1.350 dipendenti di cui 37 in Italia, la settimana corta è in realtà una “<strong>flexi-week</strong>”: il “giorno off” non è fisso, ma flessibile. Si può optare per una giornata intera, e non per forza il venerdì, decidere per due mezze giornate o spalmare le 8 ore.</p>



<p>“Così riesco a organizzarmi come meglio credo, a gestire le faccende domestiche non solo nel weekend e tanto altro, avendo una libertà a volte invidiabile”, spiega <strong>Caterina</strong> <strong>Poppi</strong>, che gestisce le partnership con gli influencer.</p>



<p>Awin ha introdotto ufficialmente la settimana corta nel <strong>luglio 2022</strong>, dopo una fase <strong>di test prolungata</strong>, con inizio nel gennaio 2021 e in qualche modo necessaria: “Si trattava di una cosa nuova cui non avevamo mai pensato”, spiega Caterina. “Soprattutto avevamo legato la modalità di lavoro per obiettivi (<em>oggi i dipendenti lavorano in modalità ibrida</em>, <em>N.d.R.</em>) al periodo di emergenza. In un certo senso eravamo preparati, ma dovevamo abituarci”.</p>



<p>Nella sede italiana, la settimana corta è figlia delle decisioni a livello internazionale: “<strong>L’esperimento è partito nel Regno Unito </strong>ed è stato subito esteso a tutti i paesi: meno ore a parità di stipendio”, racconta Daiana Iacono, responsabile del team italiano. “È un’idea nata nell’aprile 2020. In quel periodo l’azienda aveva concesso il venerdì perché eravamo sempre tutti a casa, quindi molto operativi. Sono poi serviti dei mesi per capire come gestire il tutto da un punto di vista fiscale e legale, finché ora è diventata parte del nostro modo di lavorare. Devo dire che <strong>guadagnare fisicamente del tempo</strong> rende la giornata<strong> più lunga</strong>. Per me poi vuol dire andare a prendere mia figlia a scuola, cosa che non facevo mai”.</p>



<p>Alla flexi-week partecipano tutti, eccezion fatta per gli stagisti perché, spiega Daiana, dovendo “accumulare un numero di ore dovremmo allungare lo stage, il che non ha senso”.</p>



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<h2 id="h-la-nostra-settimana-corta-funziona-grazie-ai-micro-team-ma-si-rischia-di-perdere-lo-spirito-di-squadra">“La nostra settimana corta? Funziona grazie ai micro team, ma si rischia di perdere lo spirito di squadra”</h2>



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<p>La settimana corta per Awin “funziona grazie alla gestione in <strong>micro team di 4-5 persone</strong>: così riusciamo a coprire le <strong>40 ore settimanali </strong>senza un giorno di chiusura fisso”. E i clienti? “Sono informati dell’assenza perché, se scrivono, ricevono una mail in cui il dipendente spiega che è il suo day off e in copia ci sono le altre persone del team”, spiega Daiana.</p>



<p>Un modus operandi che, secondo Caterina, <strong>fa gestire meglio l’ansia</strong>: “Se non rispondo subito a una mail, non è per forza un male. Nel mio lavoro bisogna pensare la strategia per un cliente e avere del tempo in più <strong>ti aiuta a mettere le cose in prospettiva</strong>. Siamo abituati a volere tutto e subito, ma un giorno è un tempo accettabile per dare un feedback a qualcuno”.</p>



<p>Tra i lati negativi della settimana corta, secondo alcuni studi, c’è il fatto di dover assumere più personale per sopperire alle mancanze, così come il dover lavorare di più negli altri giorni: “Per noi le nuove assunzioni sono legate all’aumento di clienti, non alla flexi-week”, precisa Daiana. E quanto alle ore in più, Caterina ammette che, lavorando con gli influencer, può capitare più che altro che non riesca a prendere tutte le 8 ore libere: “Quando ci sono delle campagne limitate nel tempo o dei ritardi nella consegna di materiale può succedere, ma non è la prassi e, soprattutto, <strong>non lavoro mai nel weekend</strong>”.</p>



<p>Tutto bello dunque? Qualche lato negativo c’è: “Quando devi <strong>fissare le riunioni non è facile</strong>, è sempre un incastro tra le varie disponibilità”, ammette Daiana. E “si <strong>è un po’ perso</strong> lo <strong>spirito di team</strong>, nel senso che rispetto a prima non vivi allo stesso modo l’arrivo di un collega nuovo”, aggiunge Caterina. “Era cambiato già con lo smart working: si impara a conoscersi meno. Cerchiamo di ‘rimediare’ organizzando eventi estivi, invernali e altre iniziative”.</p>



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<h2 id="h-per-abituarsi-alla-settimana-corta-ci-vuole-una-mentalita-diversa-e-del-tempo-l-esperienza-in-carter-benson">“Per abituarsi alla settimana corta ci vuole una mentalità diversa e del tempo”. L’esperienza in Carter &amp; Benson</h2>



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<p>Anche in <strong>Carter &amp; Benson</strong>, società di head hunting che fa parte di IMD International Search con poco meno di 1.000 dipendenti nel mondo, di cui 40 in Italia, la settimana corta prevede la possibilità di scegliere le 8 ore “off” in libertà. Anche in questo caso, abituarsi alla nuova modalità non è stato immediato, come ci raccontano <strong>Veronica Sartori </strong>e <strong>Silvia Zanini</strong>, entrambe “principal”; si occupano cioè di coordinare e supervisionare i team operativi, sono il punto di riferimento per i clienti e garantiscono la consegna dei vari progetti.</p>



<p>“Per me non è stato facile entrare in queste logiche, anche se apprezzo tantissimo la settimana corta e non abitando a Milano mi aiuta molto”, dice Veronica. “Essendo una persona forse con troppo senso del dovere, <strong>faticavo a prendermi i miei spazi</strong>. Pur cogliendone la positività <strong>non riuscivo a adattarla ai miei ritmi</strong>. Avevo paura di perdermi qualche pezzo o qualche comunicazione con il cliente.”</p>



<p>Una sorta di FOMO, <strong>Fear Of Missing Out legata al lavoro</strong>: “Credo sia dovuto al fatto che faccio un lavoro che mi piace e nel tempo sono cresciute le mie responsabilità. Pian piano sono riuscita a raggiungere un equilibrio e con le persone del mio team ci sono un’armonia e una seniority tali che mi rendono molto tranquilla. Seguo ogni progetto insieme a un’altra persona, in questo modo siamo entrambe informate”.</p>



<p>Le fa eco Silvia, che ricorda come la settimana corta ha alcune difficoltà nella “messa a terra: è necessario un <strong>cambio di mentalità </strong>oltre a del tempo per adattarsi. E un <strong>maggiore sforzo a livello organizzativo</strong>. Credo sia necessaria la ‘cultura’ non solo da parte dell&#8217;azienda o dell’AD, ma proprio dei dipendenti. L’azienda ci invita a prenderci settimanalmente le ore off proprio perché, sebbene non obbligatorie, di sicuro sono importanti. Certo, il nostro è un lavoro ‘sali e scendi’, con picchi e periodi di maggiore calma, ma come lo gestisci dipende da te e da come vuoi impostarlo”.</p>



<p>Non mancano i<strong> lati positivi della settimana corta</strong>, che ci illustra Veronica: “Ho sicuramente degli spazi in più e staccare ti fa <strong>lavorare meglio</strong>. Ricarico le pile e <strong>non ho quel senso di stanchezza perenne</strong>, il che mi porta a sviluppare aspetti legati a quel senso di responsabilità che ho sempre avuto. Procedere per obiettivi ti permette di organizzare al meglio le tue attività, e l’azienda ha una grande fiducia nei confronti dei dipendenti, il che è stimolante e ti fa sentire parte di essa”.</p>



<p>La pensa allo stesso modo Silvia: “Poter essere padroni del proprio tempo e sapere di avere delle ore per sé ti permette di fare altro, come lo sport. Ma non solo: si instaura <strong>un metodo di valutazione di performance</strong> sempre<strong> più meritocratico </strong>e non basato sulle ore in ufficio. Così sono i risultati a parlare. E in termini di produttività, è un <strong>incentivo al contrario</strong>: sai che per goderti quelle ore libere devi aver fatto il tuo, e così riesci a fare anche ciò che di norma facevi nel quinto giorno”.</p>



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<h2 id="h-in-velvet-media-si-va-oltre-lo-smart-working-e-la-settimana-corta-con-il-myway-work">In Velvet Media si va oltre lo smart working e la settimana corta con il Myway Work</h2>



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<p>Per <strong>Velvet Media</strong>, agenzia di marketing di Castelfranco Veneto con 150 dipendenti, invece, non si può parlare né di settimana corta né di smart working tradizionale. Lo chiamano <strong>Myway Work</strong> perché ogni dipendente può scegliere quante ore lavorare e in che modalità. Purché abbia obiettivi specifici e si dia, come si legge sul comunicato stampa, “priorità alle commesse dei clienti con ancor maggiore determinazione”.</p>



<p><strong>Andrea Zaniolo</strong>, manager dell’innovazione (all’inglese Chief Innovation Officer) ci spiega: “Abbiamo <strong>spostato il focus da giornate e ore a obiettivi</strong>, il tutto grazie a due parole chiave: responsabilizzazione e squadra”.</p>



<p>In soldoni che cosa significa? “Che non lascio il posto di lavoro se non mi assicuro che i miei colleghi non abbiano bisogno di me. Nessuno mi impedisce di giocare a calcetto durante l’orario di ufficio, ma devo appunto essere sicuro di questo. Anche perché <strong>il</strong> <strong>concetto di tempo è variabile</strong>: non è detto che due persone impieghino le stesse ore per fare le medesime cose. Ma non solo: a parità di stipendio lavoriamo meglio. Se ho una giornata storta perché devo per forza fare quella cosa? Oggi ho avuto una giornata piena? Perché non prendere il mattino dopo per riposare, se non inficia il lavoro degli altri? Ognuno sa quali sono le sue urgenze”.</p>



<p>Questo modo di lavorare, che Velvet Media sperimenta da 5 mesi, comporta secondo Andrea “una crescita personale dal punto di vista della responsabilità e dell’organizzazione. Inoltre non hai <strong>l’ansia assurda di essere al lavoro alle 9</strong>”.</p>



<p>Ha ovviamente qualche lato negativo: “Bisogna prenderci le misure e quando sei in smart working devi considerare di <strong>non avere il collega di fronte</strong>, per quanto i sistemi digitali ti aiutino”. Come dire: nuove modalità sì, ma senza dimenticare che il lavoro è anche e soprattutto relazione.</p>



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<p><em>Photo credits: centodieci.it</em></p>


Settimana corta lavorativa, parla chi l&#8217;ha provata: flessibilità non vuol dire equilibrio

<p>“Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare liberi”. L’ultimo obiettivo è quello aggiunto da <strong>Giorgio Maran</strong>, giovane attivista politico e sociale, alla formula tradizionale e originaria per spiegare con immediatezza l’urgenza e la necessità di arrivare a riorganizzare il lavoro e fissare in <strong>4 giorni e 32 ore</strong>, a parità di retribuzione, il tempo ordinariamente impegnato dalle lavoratrici e dai lavoratori per produrre reddito per se stessi e beni e servizi per la comunità.</p>
<p>Il suo libro – <strong><em>Il tempo non è denaro</em></strong> (Tempi Moderni-Altrimedia) – prova a offrire una risposta, logica e strutturata, agli effetti determinati sulla vita di chi lavora da fattori come l’automazione e la digitalizzazione dei processi produttivi, o la segmentazione ingenerata da precarietà e sfruttamento.</p>
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<p><strong>Affermare che oggi lavoriamo più di un contadino del 1200 o un minatore del 1600 è solo una provocazione, vero?</strong></p>
<p>No, è la verità. A quell’epoca si poteva arrivare a lavorare anche 14 ore al giorno, e oggi sarebbe impensabile; però si seguivano i ritmi della natura, che prevedono anche lunghi periodi di fermo delle attività, e un terzo dell’anno era occupato da festività religiose che vietavano il lavoro. In effetti, a sentire diversi storici, i lavoratori hanno compiuto il loro maggiore sforzo all’epoca della prima rivoluzione industriale, che ha segnato l’apice di un processo di intensificazione dell’attività lavorativa a cui sono seguite le battaglie per i diritti dei lavoratori, compresi giorni e orario di lavoro.</p>
<p><strong>Un’evocazione, quella dei contadini e dei minatori, utile a introdurre uno degli elementi culturali a fondamento della sua riflessione sulla settimana corta a parità di orario: raccontare il lavoro in modo più aderente alla realtà.</strong></p>
<p>Si è affermata la retorica del lavoro come elemento nobilitante, quindi come elemento che ci realizza anche nella vita, e addirittura ci definisce come persone. In realtà, non è così. Il lavoro è gravoso, determina sfruttamento, è poco o per nulla democratico, perché il lavoratore non può decidere o partecipare alla decisione su cosa fare e come farlo. Una retorica così radicata nella nostra cultura, personale e comunitaria, che la mancanza di lavoro continua a essere la principale preoccupazione per i cittadini europei, e non ad esempio la povertà e la mancanza di reddito. Se avere un lavoro e avere un reddito sono sullo stesso piano, perché non chiediamo un reddito e chiediamo di lavorare? Questa riflessione non nega il valore individuale e sociale del lavoro. Le battaglie per il lavoro e contro lo sfruttamento hanno cambiato in meglio la condizione personale dei lavoratori e garantito più diritti all’intera comunità; è nei luoghi di lavoro che hanno trovato terreno fertile battaglie come quelle per la pensione o la formazione o l’istruzione. Il lavoro ci consente di contribuire alla vita sociale, ci offre una collocazione e dà un senso al nostro agire, promuove le relazioni personali al di fuori della famiglia, e molto altro. Ma, se non lavoro, sono ancora oggi un cittadino di seconda classe, mentre io credo che si debba affermare anche il diritto a essere liberi dal lavoro e a essere liberi mentre si lavora. Insomma, non possiamo vivere solo per produrre e consumare.</p>
<p><strong>Di qui l’affermazione “il lavoro non emancipa”.</strong></p>
<p>È del tutto evidente che il lavoro non sempre emancipa dal bisogno. Lavorare non esclude la povertà e ce ne stiamo rendendo conto con crescente drammaticità. Un terzo dei percettori del Reddito di Cittadinanza svolge un lavoro povero e non guadagna a sufficienza per evitare di chiedere e ottenere il sostegno. C’è una macroscopica questione salariale che ancora si fatica a far notare.</p>
<p><strong>Avendo a mente il lavoro precario e povero, ultraflessibile e frammentato, illegale e privato dei diritti fondamentali, può avere davvero senso impegnarsi nella riflessione sulla riduzione dei giorni e delle ore di lavoro?</strong></p>
<p>Non vedo concorrenza. Ridurre l’orario significa, ad esempio, ridurre migliaia di casi di part time involontario, quello imposto per convenienza dall’impresa o imposto dalle necessità di vita dei lavoratori. Significa redistribuire il peso del lavoro, quindi redistribuire reddito, ricchezza, potere, libertà e tempo. Significa riposizionare l’obiettivo della piena occupazione nell’orizzonte della politica, da cui è scomparso senza che questo abbia determinato reazioni visibili e condivisibili.</p>
<p><strong>Torniamo alla povertà. Perché diventato così difficile parlarne, quindi mettere mano a una strategia concreta di contrasto e prevenzione?</strong></p>
<p>La povertà è ormai una colpa, se a valutarla sono i più ricchi, o un esercizio di furbizia sociale, per tanti imprenditori e politici. Non è così e lo spiego facendo ricorso al volontariato. In Italia i volontari sono milioni, persone che vogliono sentirsi utili alla società, e per soddisfare questo bisogno individuale svolgono un lavoro vero e proprio che contribuisce positivamente alla vita della comunità. Questo dimostra, a mio parere, che la gran parte delle persone ha piacere a lavorare, a essere un soggetto attivo. Poi c’è chi è impossibilitato a lavorare e ha diritto a essere assistito e sostenuto. E c’è una parte che possiamo definire pigra; ma mi pare che ci siano tutte le condizioni necessarie a produrre reddito e ricchezza anche per questa minoranza, invece di colpevolizzarla.</p>
<p><strong>Lei afferma che a mancare non è semplicemente il lavoro; manca il “lavoro di qualità”. Detta così sembra una banalità.</strong></p>
<p>Con il tempo abbiamo scambiato il mezzo con il fine. Creare lavoro è importante e credo sia necessario rispondere meglio ad alcuni bisogni, diversi dal lavorare fine a se stesso. Il lavoro di qualità, il lavoro buono, è quello che produce ricchezza per tutti. La pandemia, ad esempio, ci ha plasticamente dimostrato quanto siano fondamentali la sanità territoriale, l’istruzione e la formazione, la salute mentale, la riconversione ecologica, la riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico e privato. Applicarsi alla realizzazione di questi obiettivi promuoverebbe, appunto, lavoro di qualità. Più spesso, invece, si pensa a creare lavoro purchessia, senza valutare le conseguenze sistemiche. E così determiniamo la desertificazione commerciale dei centri cittadini, consumiamo inutilmente suolo, favoriamo lo sfruttamento dei lavoratori.</p>
<p><strong>La settimana lavorativa di 4 giorni mira ad aumentare gli spazi di libertà mentre il contesto economico affronta una grave crisi produttiva. Come si supera questa contrapposizione?</strong></p>
<p>Prendiamo il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”. È indubbiamente un positivo atto di riappropriazione del proprio tempo e del proprio spazio; potremmo definirlo un atto di ribellione al sistema produttivo e la presa di coscienza diffusa dell’esistenza di una crisi sistemica nell’attuale organizzazione del lavoro. Però è pur sempre una soluzione individuale a un problema collettivo; in alcuni casi è l’evidenza di un privilegio, perché chi lascia il lavoro può permetterselo. Con la proposta della settimana corta si prova a dare una risposta collettiva a bisogni collettivi. Si prova a costruire un discorso nuovo e diverso sull’organizzazione del lavoro che offra risposte nuove a bisogni nuovi.</p>
<p><strong>Promuovere l’innalzamento del salario minimo e la riduzione della settimana di lavoro a parità di retribuzione non rischia di creare un corto circuito?</strong></p>
<p>L’aumento del salario minimo è più facilmente comprensibile, ma non sono concetti e azioni concorrenti. Non sono pochi i casi in cui i salari dovranno comunque aumentare, anche riducendo l’orario di lavoro. Entrambi i temi sono sul tavolo della politica, ma non sono ancora patrimonio comune delle forze politiche che si sono dimostrate più sensibili, ed è proprio la frammentazione a impedire che s’imponga nel dibattito.</p>
<p><strong>Lei scrive della necessità di riprendere la lotta di classe. Non le sembra un poco comprensibile ritorno al passato?</strong></p>
<p>Guardi che la lotta di classe la stanno facendo, contro i lavoratori, e la stanno vincendo. Io credo sia necessario ripartire dai diritti e dalle libertà dei lavoratori per ricostruire i rapporti di forza nella società. In questo senso, è necessaria una nuova lotta di classe.</p>
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<p><em>L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.</em></p>
<p><em>Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.&nbsp;</em></p>
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<p><em>Photo credits: luinonotizie.it</em></p>


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Gianni di Bari

Ho speso 34 dei miei quasi 58 anni ad occuparmi di comunicazione. Ho iniziato come giornalista, pubblicista dal ‘92 e professionista dal ’97, per testate locali, regionali e nazionali. Sono passato alla comunicazione per le aziende e per le istituzioni, che pratico tutt’oggi. L&#8217;interesse professionale si è focalizzato sulla promozione delle produzioni agroalimentari italiane, anche facendo leva sulle connessioni tra cibo e cultura, e su azioni di marketing territoriale orientate all&#8217;incremento dei flussi turistici, anche attraverso la valorizzazione delle forme d&#8217;arte tradizionali. Nel mentre ho fatto parte del gruppo di progettazione e organizzazione del Gargano Film Festival, prima rassegna cinematografica estiva realizzata nel territorio garganico, e del concorso Sud in Corto, realizzato in collaborazione con la Warner Bros. Ho presieduto il Circolo Arci Bellamì, luogo di promozione della cultura teatrale e musicale di base, e gestito la vineria Anime Brille, nel centro storico di Foggia, dove organizzo rassegne teatrali, musicali e librarie. Il tempo del mio volontariato lo dedico all&#8217;organizzazione e alla comunicazione di eventi culturali e comunitari per l’associazione Casa Di Vittorio. MOTTO Sono senza filtro perché condividere un’opinione diversa fa bene a chi legge &#8212; e-mail gianni.db@fiordirisorse.eu Città di origine Foggia Città di adozione Quella dove trascorrerò la vecchiaia in riva al mare Titolo di studio Diploma di maturità scientifica Il mio lavoro È prevalente l’attività di comunicazione istituzionale e assistenza legislativa. Poi organizzo eventi ed elaboro progetti di marketing territoriale mentre collaboro a Senza Filtro Per SenzaFiltro scrivo di Attualità e politica Film preferito C’era una volta in America (Sergio Leone), però ho pianto al termine di The rise of Skywalker (ultimo capitolo della saga di Star Wars 40 anni dopo il primo visto al cinema) Disco preferito “Harvest” Neil Young (solo perché è stata la mia porta d’accesso al rock ‘n ‘roll) Libro preferito Tutto ciò che hanno scritto Borges e Calvino

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Giorgio Maran: &#8220;Lavoriamo più dei minatori del 1600. La settimana corta è necessaria&#8221;

Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare liberi: intervistiamo l&#8217;attivista politico e autore del libro &#8220;Il tempo non è denaro&#8221;, sostenitore della settimana lavorativa corta di 4 giorni e 32 ore.

Giorgio Maran: &#8220;Lavoriamo più dei minatori del 1600. La settimana corta è necessaria&#8221; - Informazione senza filtro

https://backend.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/10/Giorgio-Maran.jpg


<p>“Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare liberi”. L’ultimo obiettivo è quello aggiunto da <strong>Giorgio Maran</strong>, giovane attivista politico e sociale, alla formula tradizionale e originaria per spiegare con immediatezza l’urgenza e la necessità di arrivare a riorganizzare il lavoro e fissare in <strong>4 giorni e 32 ore</strong>, a parità di retribuzione, il tempo ordinariamente impegnato dalle lavoratrici e dai lavoratori per produrre reddito per se stessi e beni e servizi per la comunità.</p>



<p>Il suo libro – <strong><em>Il tempo non è denaro</em></strong> (Tempi Moderni-Altrimedia) – prova a offrire una risposta, logica e strutturata, agli effetti determinati sulla vita di chi lavora da fattori come l’automazione e la digitalizzazione dei processi produttivi, o la segmentazione ingenerata da precarietà e sfruttamento.</p>



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<p><strong>Affermare che oggi lavoriamo più di un contadino del 1200 o un minatore del 1600 è solo una provocazione, vero?</strong></p>



<p>No, è la verità. A quell’epoca si poteva arrivare a lavorare anche 14 ore al giorno, e oggi sarebbe impensabile; però si seguivano i ritmi della natura, che prevedono anche lunghi periodi di fermo delle attività, e un terzo dell’anno era occupato da festività religiose che vietavano il lavoro. In effetti, a sentire diversi storici, i lavoratori hanno compiuto il loro maggiore sforzo all’epoca della prima rivoluzione industriale, che ha segnato l’apice di un processo di intensificazione dell’attività lavorativa a cui sono seguite le battaglie per i diritti dei lavoratori, compresi giorni e orario di lavoro.</p>



<p><strong>Un’evocazione, quella dei contadini e dei minatori, utile a introdurre uno degli elementi culturali a fondamento della sua riflessione sulla settimana corta a parità di orario: raccontare il lavoro in modo più aderente alla realtà.</strong></p>



<p>Si è affermata la retorica del lavoro come elemento nobilitante, quindi come elemento che ci realizza anche nella vita, e addirittura ci definisce come persone. In realtà, non è così. Il lavoro è gravoso, determina sfruttamento, è poco o per nulla democratico, perché il lavoratore non può decidere o partecipare alla decisione su cosa fare e come farlo. Una retorica così radicata nella nostra cultura, personale e comunitaria, che la mancanza di lavoro continua a essere la principale preoccupazione per i cittadini europei, e non ad esempio la povertà e la mancanza di reddito. Se avere un lavoro e avere un reddito sono sullo stesso piano, perché non chiediamo un reddito e chiediamo di lavorare? Questa riflessione non nega il valore individuale e sociale del lavoro. Le battaglie per il lavoro e contro lo sfruttamento hanno cambiato in meglio la condizione personale dei lavoratori e garantito più diritti all’intera comunità; è nei luoghi di lavoro che hanno trovato terreno fertile battaglie come quelle per la pensione o la formazione o l’istruzione. Il lavoro ci consente di contribuire alla vita sociale, ci offre una collocazione e dà un senso al nostro agire, promuove le relazioni personali al di fuori della famiglia, e molto altro. Ma, se non lavoro, sono ancora oggi un cittadino di seconda classe, mentre io credo che si debba affermare anche il diritto a essere liberi dal lavoro e a essere liberi mentre si lavora. Insomma, non possiamo vivere solo per produrre e consumare.</p>



<p><strong>Di qui l’affermazione “il lavoro non emancipa”.</strong></p>



<p>È del tutto evidente che il lavoro non sempre emancipa dal bisogno. Lavorare non esclude la povertà e ce ne stiamo rendendo conto con crescente drammaticità. Un terzo dei percettori del Reddito di Cittadinanza svolge un lavoro povero e non guadagna a sufficienza per evitare di chiedere e ottenere il sostegno. C’è una macroscopica questione salariale che ancora si fatica a far notare.</p>



<p><strong>Avendo a mente il lavoro precario e povero, ultraflessibile e frammentato, illegale e privato dei diritti fondamentali, può avere davvero senso impegnarsi nella riflessione sulla riduzione dei giorni e delle ore di lavoro?</strong></p>



<p>Non vedo concorrenza. Ridurre l’orario significa, ad esempio, ridurre migliaia di casi di part time involontario, quello imposto per convenienza dall’impresa o imposto dalle necessità di vita dei lavoratori. Significa redistribuire il peso del lavoro, quindi redistribuire reddito, ricchezza, potere, libertà e tempo. Significa riposizionare l’obiettivo della piena occupazione nell’orizzonte della politica, da cui è scomparso senza che questo abbia determinato reazioni visibili e condivisibili.</p>



<p><strong>Torniamo alla povertà. Perché diventato così difficile parlarne, quindi mettere mano a una strategia concreta di contrasto e prevenzione?</strong></p>



<p>La povertà è ormai una colpa, se a valutarla sono i più ricchi, o un esercizio di furbizia sociale, per tanti imprenditori e politici. Non è così e lo spiego facendo ricorso al volontariato. In Italia i volontari sono milioni, persone che vogliono sentirsi utili alla società, e per soddisfare questo bisogno individuale svolgono un lavoro vero e proprio che contribuisce positivamente alla vita della comunità. Questo dimostra, a mio parere, che la gran parte delle persone ha piacere a lavorare, a essere un soggetto attivo. Poi c’è chi è impossibilitato a lavorare e ha diritto a essere assistito e sostenuto. E c’è una parte che possiamo definire pigra; ma mi pare che ci siano tutte le condizioni necessarie a produrre reddito e ricchezza anche per questa minoranza, invece di colpevolizzarla.</p>



<p><strong>Lei afferma che a mancare non è semplicemente il lavoro; manca il “lavoro di qualità”. Detta così sembra una banalità.</strong></p>



<p>Con il tempo abbiamo scambiato il mezzo con il fine. Creare lavoro è importante e credo sia necessario rispondere meglio ad alcuni bisogni, diversi dal lavorare fine a se stesso. Il lavoro di qualità, il lavoro buono, è quello che produce ricchezza per tutti. La pandemia, ad esempio, ci ha plasticamente dimostrato quanto siano fondamentali la sanità territoriale, l’istruzione e la formazione, la salute mentale, la riconversione ecologica, la riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico e privato. Applicarsi alla realizzazione di questi obiettivi promuoverebbe, appunto, lavoro di qualità. Più spesso, invece, si pensa a creare lavoro purchessia, senza valutare le conseguenze sistemiche. E così determiniamo la desertificazione commerciale dei centri cittadini, consumiamo inutilmente suolo, favoriamo lo sfruttamento dei lavoratori.</p>



<p><strong>La settimana lavorativa di 4 giorni mira ad aumentare gli spazi di libertà mentre il contesto economico affronta una grave crisi produttiva. Come si supera questa contrapposizione?</strong></p>



<p>Prendiamo il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”. È indubbiamente un positivo atto di riappropriazione del proprio tempo e del proprio spazio; potremmo definirlo un atto di ribellione al sistema produttivo e la presa di coscienza diffusa dell’esistenza di una crisi sistemica nell’attuale organizzazione del lavoro. Però è pur sempre una soluzione individuale a un problema collettivo; in alcuni casi è l’evidenza di un privilegio, perché chi lascia il lavoro può permetterselo. Con la proposta della settimana corta si prova a dare una risposta collettiva a bisogni collettivi. Si prova a costruire un discorso nuovo e diverso sull’organizzazione del lavoro che offra risposte nuove a bisogni nuovi.</p>



<p><strong>Promuovere l’innalzamento del salario minimo e la riduzione della settimana di lavoro a parità di retribuzione non rischia di creare un corto circuito?</strong></p>



<p>L’aumento del salario minimo è più facilmente comprensibile, ma non sono concetti e azioni concorrenti. Non sono pochi i casi in cui i salari dovranno comunque aumentare, anche riducendo l’orario di lavoro. Entrambi i temi sono sul tavolo della politica, ma non sono ancora patrimonio comune delle forze politiche che si sono dimostrate più sensibili, ed è proprio la frammentazione a impedire che s’imponga nel dibattito.</p>



<p><strong>Lei scrive della necessità di riprendere la lotta di classe. Non le sembra un poco comprensibile ritorno al passato?</strong></p>



<p>Guardi che la lotta di classe la stanno facendo, contro i lavoratori, e la stanno vincendo. Io credo sia necessario ripartire dai diritti e dalle libertà dei lavoratori per ricostruire i rapporti di forza nella società. In questo senso, è necessaria una nuova lotta di classe.</p>



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<p><em>Photo credits: luinonotizie.it</em></p>



<p>Uno spettro si aggira per l&#8217;Italia: lo spettro della <strong>povertà</strong>. Quotidianamente masticata nel <strong>Sud</strong> del Paese, fatta della disperazione e della mancanza di futuro di migliaia persone, disoccupate o precarie, per lo più giovani; paventata come prospettiva sempre più vicina e verosimile dalla classe media del <strong>Centro Nord</strong>.</p>



<p>È una dicotomia netta, una <strong>polarizzazione geografica e socioeconomica</strong> che le ultime elezioni hanno tradotto in voti: Nord compattamente al centrodestra, Sud con una maggiore competitività politica del <strong>Movimento</strong> <strong>5 Stelle</strong>. La situazione risulta chiara osservando soprattutto i dati delle circoscrizioni elettorali: dal Centro in su, in tutte il primo partito è FdI, mentre nell’altra metà del Paese è il M5S. Sullo sfondo il <strong>PD</strong>, arroccato in alcune aree storicamente “fedeli”, come Toscana ed Emilia-Romagna, e che si connota ormai come la forza politica della conservazione, punto di riferimento per quella fascia di popolazione – sempre più risicata – che vive ancora in condizioni di benessere. Cioè di privilegio, data la difficilissima situazione dell’Italia.</p>



<p>Insomma la povertà, più o meno vissuta, più o meno temuta, ha deciso l’esito elettorale. D’altra parte per anni è stata ribadita da tutti la necessità di liberarsi dalle ideologie, ciarpame dallo stantio odore di Novecento, anacronistiche nel nostro tempo di magnifiche sorti e progressive, e la politica si è perfettamente conformata a questa visione. Non c’è da stupirsi che i cittadini, al momento del voto, si affidino a chi promette di tutelare meglio i loro interessi personali: al <strong>Nord</strong> il <strong>mantenimento</strong> o la <strong>riconquista del benessere</strong>, al <strong>Sud</strong> qualche <strong>salvagente</strong> <strong>per non annegare nella miseria</strong>. È per questo che vale la pena andare a vedere che cosa caratterizza queste aree da un punto di vista socioeconomico, e visto che le elezioni le ha vinte il centrodestra, cercare di capire se le politiche economiche che propone sono davvero in grado di rispondere alle diverse esigenze di un Paese così spaccato.</p>



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<h2 id="h-michele-raitano-il-centrodestra-e-diventato-il-partito-del-ceto-medio-per-questo-ha-vinto-al-centro-nord">Michele Raitano: “Il centrodestra è diventato il partito del ceto medio. Per questo ha vinto al Centro Nord”</h2>



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<p>Secondo i dati ISTAT, il <strong>Nord Italia</strong> ha <strong>tassi di povertà relativa</strong> compresi tra il <strong>3,8%</strong> della Valle d’Aosta e il <strong>10,2%</strong> di Piemonte e Liguria. È qui che il centrodestra ha mietuto più consensi, con punte di oltre il 56% in Veneto e del 51% in Lombardia. I perché di questo radicamento territoriale ce li spiega bene <strong>Michele Raitano</strong>, professore ordinario di Politica economica all’Università La Sapienza di Roma, membro dell’Osservatorio Internazionale per la Coesione e l’Inclusione Sociale ed esponente della scuola di pensiero promossa da Federico Caffè.</p>



<p>“Al Nord gli indicatori di povertà sono in peggioramento, soprattutto sulla popolazione immigrata, che vota poco, ma il tessuto economico tutto sommato per adesso tiene. Chi si trova in una posizione nella quale ancora riesce a ottenere qualcosa dal mercato, ma comincia a perdere terreno e a impoverirsi, reagisce chiedendo sostegno allo Stato non per avere un supporto economico, ma per creare una barriera contro chi percepisce come problema. Il <strong>centrodestra</strong> si è fortemente radicato al <strong>Nord</strong> perché è diventato <strong>il partito del ceto medio che si sta impoverendo</strong>, che teme di scivolare ancora più giù e concentra la propria attenzione sui migranti perché sono l’unico elemento che riesce a individuare, senza ragionare davvero su costi e benefici e senza avere una chiave di lettura più complessa delle questioni.”</p>



<p>Decisamente più drammatica è la situazione del <strong>Mezzogiorno</strong>, dove il <strong>tasso di povertà relativa</strong> è del <strong>25,3%</strong>, dove si concentra la metà dei disoccupati dell’intero Paese e dove lavora solo una donna su tre (complice anche la cronica carenza di servizi per l’infanzia), a fronte di sei su dieci del Nord. Qui la necessità di difendere i pochi strumenti di sostegno al reddito, primo fra tutti il <strong>Reddito di Cittadinanza</strong>, ha reso meno schiacciante la vittoria dell&#8217;alleanza Meloni-Salvini-Berlusconi.</p>



<p>“Laddove il mercato non arriva più, dove le condizioni sono tremende, i salari bassissimi e le uniche possibilità di sopravvivenza della popolazione sono legate all’intervento pubblico <strong>si vota chi dà molta importanza a questi sussidi</strong>, chi non li considera il male assoluto. <strong>Non è certo questione di voto di scambio</strong>, come ha detto qualcuno, ma di difesa di un interesse, come è naturale che sia”, dice Michele Raitano.</p>



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<h2 id="h-il-centrodestra-orientato-a-piccoli-interventi-che-non-facciano-perdere-voti-e-che-accentueranno-le-disuguaglianze">“Il centrodestra orientato a piccoli interventi che non facciano perdere voti e che accentueranno le disuguaglianze”</h2>



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<p>Dunque, che fare? Il Governo può davvero permettersi di rispondere solo alle esigenze di una parte residuale del Paese? Alla luce di questi dati di realtà, le <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/lavoro-programma-centrodestra/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">ricette economiche del centrodestra</a> – come per esempio eliminare il Reddito di Cittadinanza – rischiano di essere insufficienti, inadeguate e destinate ad acuire la spaccatura del Paese. La questione della povertà non si può mettere sotto il tappeto e il nuovo governo dovrà affrontarla, in un modo o nell’altro, anche se si continua a parlare di soluzioni in favore del ceto medio a rischio impoverimento, come la <strong>flat tax</strong>, di certo non rivolte a chi è indigente.</p>



<p>A mancare sono soprattutto le misure che dovrebbero intervenire sul <strong>lavoro</strong>, su una <strong>redistribuzione</strong> <strong>della ricchezza</strong> e su una decisa politica di <strong>contrasto all’evasione fiscale</strong>, il tema più scabroso con il quale nessuno sembra volersi cimentare, quella voragine che ogni anno inghiotte oltre cento miliardi di euro e che rappresenta la madre di tutti i problemi.</p>



<p>“<strong>Migliorare il RdC</strong> partendo dai suggerimenti avanzati dal Comitato tecnico scientifico presieduto da <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/chiara-saraceno-rdc-da-riformare-orlando-ignora/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Chiara Saraceno</a></strong>, agire sulla contrattazione con leggi sulla rappresentanza, intervenire sulle forme contrattuali e potenziare il controllo sul loro rispetto, avviare una seria politica di incremento delle retribuzioni, introdurre il salario minimo e adottare misure di redistribuzione tout cort della ricchezza: è su queste azioni che dovrebbe concentrarsi una politica economica che abbia al centro l’interesse dello sviluppo del Paese e dell&#8217;intera società”, spiega Raitano.</p>



<p>“Viceversa, mi sembra che il centrodestra sia piuttosto orientato a introdurre <strong>piccoli interventi che non facciano perdere voti</strong> e rappresentino un costo non percepito per lo Stato, come aumentare la flat tax per gli autonomi o introdurre sgravi differenziati e regimi agevolati, per esempio alle scuole private. In questo modo si crea un aumento del divario sociale, perché si riduce la redistribuzione della ricchezza, e al contempo si accresce la disparità tra chi può evadere e chi non può. È probabile che si sceglierà di fare qualche piccolo <strong>condono</strong>, che non si spalma equamente su tutta la popolazione, e di aumentare la flat tax sugli autonomi fino a 100.000 euro, incentivando così le imprese a rimanere piccole e a nascondere quello che si fattura oltre una certa cifra.”</p>



<p>Insomma, è tutta questione di priorità. È vero, governare è una sfida, e governare l&#8217;Italia – realtà eterogenea e non sempre incline al rispetto delle regole, con una pubblica amministrazione che a tratti zoppica – rende tutto più complesso. Ed è anche certo che le situazioni di forte disagio ed enorme difficoltà lavorativa sono tante, e sono materia con la quale è facile rimanere bruciati. Ma se il <strong>nuovo esecutivo</strong> non si mostrerà capace di avere una visione ampia e inclusiva sulla società italiana, corre il rischio che <strong>il Paese gli esploda in mano</strong>.</p>



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<p><em>Photo credits: clarusonline.it</em></p>


Geografia del voto: è il centrodestra il partito del ceto medio

<p><strong>Settimana corta al lavoro</strong>: sì o no? C’è chi la ritiene la soluzione ideale, chi una trovata di marketing e di employer branding, e <strong>chi la sta già sperimentando</strong> da qualche anno in <strong>Italia</strong>, ancor prima che se ne tornasse a parlare per via di Intesa Sanpaolo. Che, per chi non lo sapesse, ha proposto quattro giorni a settimana, passando da 7,5 ore di lavoro quotidiane a 9.</p>
<p>Ma cosa ne pensano i<strong> dipendenti</strong>? E ci sono altri modi per lavorare meno, mantenendo lo stesso stipendio e trovando forse l’agognato work-life balance?</p>
<p><em>SenzaFiltro</em> lo ha chiesto a chi in prima persona vive il frutto di queste decisioni: i dipendenti, appunto. Abbiamo parlato con<strong> sei persone </strong>che lavorano in quattro aziende diverse. E no, non sono tutte di grandi dimensioni. Ecco che cosa ci hanno detto.</p>
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<h2 id="h-alessandro-di-zupit-piu-che-settimana-corta-la-nostra-e-una-giornata-corta-e-ci-da-una-concentrazione-totale">Alessandro di Zupit: “Più che settimana corta, la nostra è una giornata corta. E ci dà una concentrazione totale”</h2>
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<p>Dalle parti di Trento, in <strong>Zupit</strong>, le <strong>30 ore</strong> sono la norma. O almeno lo sono da quattro anni: “Quando sono arrivato era già così”, racconta <strong>Alessandro Mariotti</strong>, technical leader (responsabile tecnico) in questa realtà che conta 30 dipendenti. Qui si sviluppano software, con metodologie agili e <a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/settimana-corta-aziende-900-contratti/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">settimana</a><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/settimana-corta-aziende-900-contratti/"> corta</a>: “Per noi è più una<strong> giornata corta</strong>: lavoriamo <strong>dalle 8 alle 14</strong>, tutto filato, e dopodiché il <strong>pomeriggio è libero</strong>. Ogni tanto capita di fare qualcosa in più, ma è un’eccezione. A livello contrattuale, abbiamo un part-time di 6 ore al giorno”.</p>
<p>La giornata corta è stata comunque una conquista per questa piccola impresa che lavora in ottica di “miglioramento continuo”. All’inizio si facevano le “classiche” 40 ore: “Anche se era prevista una parte da dedicare alla formazione, che oggi è lasciata agli individui”, aggiunge Alessandro. “Nell’informatica è un’esigenza molto sentita, pertanto di solito le dedichiamo parte del nostro tempo libero. Con le 30 ore lavoriamo meno, e abbiamo più tempo per formarci, ma soprattutto per altre cose: sono riuscito a seguire la ristrutturazione di casa mia. Diversamente, sarebbe stato impossibile”.</p>
<p>Per Zupit è oggi una “scommessa consolidata”, ma “<strong>non è sempre facile </strong>organizzare le <strong>riunioni</strong> con i <strong>clienti</strong>, così come i colloqui per cercare nuove persone (di solito libere dopo il lavoro). Poi, certo, dipende dai casi: se abbiamo un cliente grosso tendiamo a fare qualche riunione extra, ma cerchiamo di far passare il messaggio: quando ci chiedono di contattarci nel pomeriggio, la risposta è tendenzialmente no”.</p>
<p>E le “<strong>emergenze</strong>” come vengono gestite? “Con i <strong>Service Level Agreement</strong> (<em>accordi sul livello di servizio, N.d.R.</em>) interveniamo nei tempi garantiti che tutelano allo stesso tempo il nostro orario, poi dipende dal canone che paga il cliente. Ma in generale si privilegia quello che l’azienda ha deciso per le persone”.</p>
<p>Se vi state chiedendo se in 30 ore si riesce a fare quello che si fa in 40, Alessandro risponde con un gran sorriso: “Sì, senza dubbio: il mio lavoro è <strong>pura concentrazione</strong>. Quando facevo le 8 ore a un certo punto non rendevo più come al mattino. In altre aziende, poi, mi capitava <strong>di farne 45 a settimana</strong>, altro che 40! Inoltre, se arrivi a casa tutti i giorni alle 18, l’umore con cui vai al lavoro è diverso. Oggi sono più felice e concentrato, e da remoto ancora più produttivo. Ogni giovedì, comunque, con il mio team ci ritroviamo in ufficio perché abbiamo bisogno di vederci”.</p>
<p>Essere in ufficio alle 8 però non è facile per chi vive lontano: “Sono colleghi che non vengono quasi mai, è vero, ma tutto questo, insieme ad altri benefit, sta creando una bella comunità: da parte di tutti c’è una voglia di partecipare notevole”, conclude Alessandro prima di lasciarci per andare a fare la spesa (sono le 14.30 di un venerdì).</p>
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<h2 id="h-con-la-flexi-week-possiamo-prendere-8-ore-a-settimana-anche-spalmate-su-piu-giorni-l-esperienza-di-awin">“Con la flexi-week possiamo prendere 8 ore a settimana, anche spalmate su più giorni”. L’esperienza di Awin</h2>
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<p>Per <strong>Awin Italia</strong>, azienda di affiliate marketing parte di Axel Springer Group, con diverse sedi nel mondo e 1.350 dipendenti di cui 37 in Italia, la settimana corta è in realtà una “<strong>flexi-week</strong>”: il “giorno off” non è fisso, ma flessibile. Si può optare per una giornata intera, e non per forza il venerdì, decidere per due mezze giornate o spalmare le 8 ore.</p>
<p>“Così riesco a organizzarmi come meglio credo, a gestire le faccende domestiche non solo nel weekend e tanto altro, avendo una libertà a volte invidiabile”, spiega <strong>Caterina</strong> <strong>Poppi</strong>, che gestisce le partnership con gli influencer.</p>
<p>Awin ha introdotto ufficialmente la settimana corta nel <strong>luglio 2022</strong>, dopo una fase <strong>di test prolungata</strong>, con inizio nel gennaio 2021 e in qualche modo necessaria: “Si trattava di una cosa nuova cui non avevamo mai pensato”, spiega Caterina. “Soprattutto avevamo legato la modalità di lavoro per obiettivi (<em>oggi i dipendenti lavorano in modalità ibrida</em>, <em>N.d.R.</em>) al periodo di emergenza. In un certo senso eravamo preparati, ma dovevamo abituarci”.</p>
<p>Nella sede italiana, la settimana corta è figlia delle decisioni a livello internazionale: “<strong>L’esperimento è partito nel Regno Unito </strong>ed è stato subito esteso a tutti i paesi: meno ore a parità di stipendio”, racconta Daiana Iacono, responsabile del team italiano. “È un’idea nata nell’aprile 2020. In quel periodo l’azienda aveva concesso il venerdì perché eravamo sempre tutti a casa, quindi molto operativi. Sono poi serviti dei mesi per capire come gestire il tutto da un punto di vista fiscale e legale, finché ora è diventata parte del nostro modo di lavorare. Devo dire che <strong>guadagnare fisicamente del tempo</strong> rende la giornata<strong> più lunga</strong>. Per me poi vuol dire andare a prendere mia figlia a scuola, cosa che non facevo mai”.</p>
<p>Alla flexi-week partecipano tutti, eccezion fatta per gli stagisti perché, spiega Daiana, dovendo “accumulare un numero di ore dovremmo allungare lo stage, il che non ha senso”.</p>
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<h2 id="h-la-nostra-settimana-corta-funziona-grazie-ai-micro-team-ma-si-rischia-di-perdere-lo-spirito-di-squadra">“La nostra settimana corta? Funziona grazie ai micro team, ma si rischia di perdere lo spirito di squadra”</h2>
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<p>La settimana corta per Awin “funziona grazie alla gestione in <strong>micro team di 4-5 persone</strong>: così riusciamo a coprire le <strong>40 ore settimanali </strong>senza un giorno di chiusura fisso”. E i clienti? “Sono informati dell’assenza perché, se scrivono, ricevono una mail in cui il dipendente spiega che è il suo day off e in copia ci sono le altre persone del team”, spiega Daiana.</p>
<p>Un modus operandi che, secondo Caterina, <strong>fa gestire meglio l’ansia</strong>: “Se non rispondo subito a una mail, non è per forza un male. Nel mio lavoro bisogna pensare la strategia per un cliente e avere del tempo in più <strong>ti aiuta a mettere le cose in prospettiva</strong>. Siamo abituati a volere tutto e subito, ma un giorno è un tempo accettabile per dare un feedback a qualcuno”.</p>
<p>Tra i lati negativi della settimana corta, secondo alcuni studi, c’è il fatto di dover assumere più personale per sopperire alle mancanze, così come il dover lavorare di più negli altri giorni: “Per noi le nuove assunzioni sono legate all’aumento di clienti, non alla flexi-week”, precisa Daiana. E quanto alle ore in più, Caterina ammette che, lavorando con gli influencer, può capitare più che altro che non riesca a prendere tutte le 8 ore libere: “Quando ci sono delle campagne limitate nel tempo o dei ritardi nella consegna di materiale può succedere, ma non è la prassi e, soprattutto, <strong>non lavoro mai nel weekend</strong>”.</p>
<p>Tutto bello dunque? Qualche lato negativo c’è: “Quando devi <strong>fissare le riunioni non è facile</strong>, è sempre un incastro tra le varie disponibilità”, ammette Daiana. E “si <strong>è un po’ perso</strong> lo <strong>spirito di team</strong>, nel senso che rispetto a prima non vivi allo stesso modo l’arrivo di un collega nuovo”, aggiunge Caterina. “Era cambiato già con lo smart working: si impara a conoscersi meno. Cerchiamo di ‘rimediare’ organizzando eventi estivi, invernali e altre iniziative”.</p>
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<h2 id="h-per-abituarsi-alla-settimana-corta-ci-vuole-una-mentalita-diversa-e-del-tempo-l-esperienza-in-carter-benson">“Per abituarsi alla settimana corta ci vuole una mentalità diversa e del tempo”. L’esperienza in Carter &amp; Benson</h2>
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<p>Anche in <strong>Carter &amp; Benson</strong>, società di head hunting che fa parte di IMD International Search con poco meno di 1.000 dipendenti nel mondo, di cui 40 in Italia, la settimana corta prevede la possibilità di scegliere le 8 ore “off” in libertà. Anche in questo caso, abituarsi alla nuova modalità non è stato immediato, come ci raccontano <strong>Veronica Sartori </strong>e <strong>Silvia Zanini</strong>, entrambe “principal”; si occupano cioè di coordinare e supervisionare i team operativi, sono il punto di riferimento per i clienti e garantiscono la consegna dei vari progetti.</p>
<p>“Per me non è stato facile entrare in queste logiche, anche se apprezzo tantissimo la settimana corta e non abitando a Milano mi aiuta molto”, dice Veronica. “Essendo una persona forse con troppo senso del dovere, <strong>faticavo a prendermi i miei spazi</strong>. Pur cogliendone la positività <strong>non riuscivo a adattarla ai miei ritmi</strong>. Avevo paura di perdermi qualche pezzo o qualche comunicazione con il cliente.”</p>
<p>Una sorta di FOMO, <strong>Fear Of Missing Out legata al lavoro</strong>: “Credo sia dovuto al fatto che faccio un lavoro che mi piace e nel tempo sono cresciute le mie responsabilità. Pian piano sono riuscita a raggiungere un equilibrio e con le persone del mio team ci sono un’armonia e una seniority tali che mi rendono molto tranquilla. Seguo ogni progetto insieme a un’altra persona, in questo modo siamo entrambe informate”.</p>
<p>Le fa eco Silvia, che ricorda come la settimana corta ha alcune difficoltà nella “messa a terra: è necessario un <strong>cambio di mentalità </strong>oltre a del tempo per adattarsi. E un <strong>maggiore sforzo a livello organizzativo</strong>. Credo sia necessaria la ‘cultura’ non solo da parte dell&#8217;azienda o dell’AD, ma proprio dei dipendenti. L’azienda ci invita a prenderci settimanalmente le ore off proprio perché, sebbene non obbligatorie, di sicuro sono importanti. Certo, il nostro è un lavoro ‘sali e scendi’, con picchi e periodi di maggiore calma, ma come lo gestisci dipende da te e da come vuoi impostarlo”.</p>
<p>Non mancano i<strong> lati positivi della settimana corta</strong>, che ci illustra Veronica: “Ho sicuramente degli spazi in più e staccare ti fa <strong>lavorare meglio</strong>. Ricarico le pile e <strong>non ho quel senso di stanchezza perenne</strong>, il che mi porta a sviluppare aspetti legati a quel senso di responsabilità che ho sempre avuto. Procedere per obiettivi ti permette di organizzare al meglio le tue attività, e l’azienda ha una grande fiducia nei confronti dei dipendenti, il che è stimolante e ti fa sentire parte di essa”.</p>
<p>La pensa allo stesso modo Silvia: “Poter essere padroni del proprio tempo e sapere di avere delle ore per sé ti permette di fare altro, come lo sport. Ma non solo: si instaura <strong>un metodo di valutazione di performance</strong> sempre<strong> più meritocratico </strong>e non basato sulle ore in ufficio. Così sono i risultati a parlare. E in termini di produttività, è un <strong>incentivo al contrario</strong>: sai che per goderti quelle ore libere devi aver fatto il tuo, e così riesci a fare anche ciò che di norma facevi nel quinto giorno”.</p>
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<h2 id="h-in-velvet-media-si-va-oltre-lo-smart-working-e-la-settimana-corta-con-il-myway-work">In Velvet Media si va oltre lo smart working e la settimana corta con il Myway Work</h2>
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<p>Per <strong>Velvet Media</strong>, agenzia di marketing di Castelfranco Veneto con 150 dipendenti, invece, non si può parlare né di settimana corta né di smart working tradizionale. Lo chiamano <strong>Myway Work</strong> perché ogni dipendente può scegliere quante ore lavorare e in che modalità. Purché abbia obiettivi specifici e si dia, come si legge sul comunicato stampa, “priorità alle commesse dei clienti con ancor maggiore determinazione”.</p>
<p><strong>Andrea Zaniolo</strong>, manager dell’innovazione (all’inglese Chief Innovation Officer) ci spiega: “Abbiamo <strong>spostato il focus da giornate e ore a obiettivi</strong>, il tutto grazie a due parole chiave: responsabilizzazione e squadra”.</p>
<p>In soldoni che cosa significa? “Che non lascio il posto di lavoro se non mi assicuro che i miei colleghi non abbiano bisogno di me. Nessuno mi impedisce di giocare a calcetto durante l’orario di ufficio, ma devo appunto essere sicuro di questo. Anche perché <strong>il</strong> <strong>concetto di tempo è variabile</strong>: non è detto che due persone impieghino le stesse ore per fare le medesime cose. Ma non solo: a parità di stipendio lavoriamo meglio. Se ho una giornata storta perché devo per forza fare quella cosa? Oggi ho avuto una giornata piena? Perché non prendere il mattino dopo per riposare, se non inficia il lavoro degli altri? Ognuno sa quali sono le sue urgenze”.</p>
<p>Questo modo di lavorare, che Velvet Media sperimenta da 5 mesi, comporta secondo Andrea “una crescita personale dal punto di vista della responsabilità e dell’organizzazione. Inoltre non hai <strong>l’ansia assurda di essere al lavoro alle 9</strong>”.</p>
<p>Ha ovviamente qualche lato negativo: “Bisogna prenderci le misure e quando sei in smart working devi considerare di <strong>non avere il collega di fronte</strong>, per quanto i sistemi digitali ti aiutino”. Come dire: nuove modalità sì, ma senza dimenticare che il lavoro è anche e soprattutto relazione.</p>
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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/settimana-di-4-giorni/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Settimana di 4 giorni</a></strong>.</em></p>
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<p><em>Photo credits: centodieci.it</em></p>


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Cristina Maccarrone

Siciliana trapiantata a Milano, innamorata profondamente della sua terra ma anche del capoluogo meneghino. Scrive tanto, twitta e posta su LinkedIn parlando di lavoro, scrittura online e dell’essere freelance. Lo è dal 2017 dopo una felice esperienza come direttore di giornale (Walk on Job) e una meno felice come dipendente in azienda (come content e community manager) quando ha capito che essere una “libera battitrice” era ed è il suo modo di lavorare. Collabora con giornali online e aziende di cui cura la content strategy e scrive contenuti in ottica SEO. Oltre a organizzare e tenere corsi di formazione, sia con aziende che con liberi professionisti. A oggi pensa che voleva fare la giornalista sin da bambina (da qui liceo classico, laurea in Lettere e master in formazione e media), ma non avrebbe mai immaginato l’avrebbe fatto così e insieme a tanto altro. Ha scritto 3 manuali “dall’aspetto di saggio”: Scrivere per informare, L&#8217;impresa come media, Content marketing per eventi, che sono stati scelti in alcune università come libri di testo. Adora parlare con le persone e il suo giornalismo su SenzaFiltro è fatto essenzialmente di questo: dare voce a chi non ce l’ha per raccontare diritti violati, storie e modi di vivere cui nessuno presta attenzione. Sono SenzaFiltro perché non mi piacciono le “verità rivelate”, le imposizioni dettate dall’alto senza capire che non per tutti va bene la stessa cosa. E perché cerco di mettermi sempre nei panni di chi ho davanti (a volte pure troppo). &#8212; e-mail: cristina.m@fiordirisorse.eu Città di origine: Furci Siculo, un paese di 3.000 abitanti sul mar Jonio messinese Città di adozione: Milano Titolo di studio: Laurea in Lettere e master in Formazione e media Il mio lavoro: Giornalista freelance, content strategist e SEO copywriter per vari blog aziendali Per SenzaFiltro scrivo di: lavoro, salute e società Film preferito: “Le fate ignoranti” (ma adoro Elio Germano) Disco preferito: “American Idiot” dei Green Day e “Così com’è” degli Articolo 31 Libro preferito: I libri di Elena Ferrante e John Fante (e tanti altri…) e il mio Scrivere per informare insieme a Riccardo Esposito

Cristina Maccarrone Archivi

Cristina Maccarrone - Informazione senza filtro

Da 40 a 32 ore settimanali, in alcuni casi 30, e c’è chi addirittura non pone limiti né di orario né di luoghi. Sono le esperienze di 4 aziende, di varie dimensioni, che attuano la settimana corta. Ma a raccontarle, stavolta, sono i dipendenti.

Settimana corta lavorativa, parla chi l&#8217;ha provata: flessibilità non vuol dire equilibrio - Informazione senza filtro

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<p>Di COVID-19 si può guarire, di <strong>Long COVID </strong>forse no. O meglio, può succedere che le <strong>conseguenze del virus</strong> siano così pesanti da minare non solo la salute, ma anche il<strong> lavoro</strong>. Il che può tradursi in mancato rinnovo del contratto, situazioni in cui si viene costretti a licenziarsi, ma anche perdita di un impiego in nero senza alcun diritto all’indennità di disoccupazione.</p>



<p><em>SenzaFiltro</em> ha raccolto le<strong> storie di tre donne</strong> che a causa del Long COVID non lavorano più, innanzitutto perché non sono nelle condizioni per farlo, ma anche perché non hanno trovato supporto né nei datori di lavoro né in cure per stare meglio.</p>



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<h2 id="h-che-cos-e-il-long-covid-e-quali-sono-i-suoi-sintomi">Che cos’è il Long COVID e quali sono i suoi sintomi</h2>



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<p>Ma facciamo un passo indietro. <strong>Che cosa vuol dire Long COVID</strong>? Secondo l’OMS si ha questa condizione se una persona con un’infezione, probabile o confermata, sviluppa <strong>sintomi entro tre mesi</strong>, se questi <strong>continuano </strong>per almeno <strong>due mesi</strong> e non si riesce a spiegarne la causa con una diagnosi alternativa.</p>



<p>Si stima che, nei 53 Paesi della regione europea dell’OMS, a essere affette dal Long COVID siano state almeno 17 milioni di persone per almeno tre mesi nel 2020 e 2021. I <strong>sintomi </strong>possono colpire quasi tutti gli organi con effetti che includono disturbi del sistema respiratorio e nervoso. Ma ci possono essere anche disturbi neurocognitivi – tra cui la <strong>brain fog</strong>, “nebbia mentale” con perdita di concentrazione e memoria – metabolici, cardiovascolari, gastrointestinali, oltre a malessere, affaticamento, dolori muscoloscheletrici.</p>



<p>I <strong>lavoratori affetti da Long COVID</strong>, secondo lo studio <em><a href="https://osha.europa.eu/it/publications/impact-long-covid-workers-and-workplaces-and-role-osh" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Impatto del Long COVID sui lavoratori e sui luoghi di lavoro e ruolo della SSL</a></em> dell’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, possono anche avere affanno, palpitazioni, difficoltà nel dormire, il che inficia la cosiddetta <strong>produttività</strong>. Per il 33% di chi aveva già patologie, il Long COVID può influire in modo negativo.</p>



<p>Ma spesso colpisce anche chi è in ottima salute, come le tre donne che abbiamo intervistato.</p>



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<h2 id="h-ericka-ho-contratto-il-covid-19-al-lavoro-ma-a-causa-del-long-covid-non-mi-e-stato-rinnovato-il-contratto">Ericka: “Ho contratto il COVID-19 al lavoro, ma a causa del Long COVID non mi è stato rinnovato il contratto”</h2>



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<p><strong>Ericka Olaya Andrade</strong>, 46 anni, è una donna piena di vita, ma da quando ha preso il COVID-19 nel marzo 2020 ogni cosa le costa una fatica enorme.</p>



<p>Quando ci sentiamo è uno di quei giorni in cui ha un po’ di <strong>autonomia</strong>, “ma in genere ho <strong>trenta minuti al massimo</strong>, mi sforzo anche per fare la doccia. Ho problemi alla mani che mi impediscono persino di aprire una scatoletta, ho stanchezza cronica, insonnia, alopecia e, a causa del COVID-19, si è riattivato il Citomegalovirus. Per non parlare delle discromie cutanee, dei problemi con gusto e olfatto, della perdita di memoria e concentrazione. Non sai quante pentole ho buttato perché metto l’acqua sul fuoco e me ne dimentico! Mi sanguinano le gengive e di recente mi sono rotti i denti. Ma devo sostenere tutte le spese da sola. Nonostante mi abbiano diagnosticato il PTSD (<em>disturbo post traumatico da stress, N.d.R.</em>) e altri problemi cognitivi, in una città come<strong> Milano</strong>, dove vivo da 25 anni, <strong>non è possibile</strong> essere presi in cura per una <strong>riabilitazione convenzionata</strong>”.</p>



<p>Eppure Ericka<strong> ha contratto il COVID-19 al lavoro</strong>: “Nel gennaio 2020 sono stata assunta con un contratto temporaneo in una multinazionale tedesca per la quale mi occupavo di promuovere le aziende europee in Asia. Fin dai primi giorni in cui ho fatto la formazione, mi sono resa conto di essere in un <strong>ambiente malsano</strong>. C’erano persone che, con la febbre, venivano lo stesso in ufficio. Inoltre, non veniva applicata<strong> nessuna norma </strong>relativa all’<strong>igiene </strong>e alla <strong>sicurezza</strong>: non avevamo una postazione fissa, lavoravamo in quindici in una sala, le cuffie che ci davano non erano nuove. Dovevo persino portarmi il sapone da casa! E quando dalla sezione finanza sono stata spostata alla sezione moda, la situazione è peggiorata”.</p>



<p>Ericka ha cominciato a stare male intorno al 15 marzo, aveva la tosse, ma non pensava fosse COVID-19, tant’è che <strong>ha lavorato a casa per tre settimane</strong>. Dopo la prima, ha contattato il medico di base perché “avevo così tanta stanchezza che, anche se vivo in 40 metri quadri, arrivare in bagno era una fatica. E poi mal di testa folli, non volevo mangiare perché masticare era doloroso”.</p>



<p>Il medico, però, non le è stato di grande aiuto, <strong>non le ha fatto fare un tampone</strong> e non si è preso carico della situazione, il che poi si è rivelato controproducente. Finché un giorno Ericka ha chiamato il <strong>Pronto Soccorso</strong> dicendo di avere la febbre – “come mi avevano suggerito di fare per essere presa in cura” – ed è stata ricoverata in ospedale.</p>



<p>“Avevo una <strong>polmonite interstiziale non diagnosticata</strong>. Non ho potuto camminare per venti giorni. Sono uscita che ero positiva e sono stata trasferita al COVID Hotel Michelangelo, di fronte alla stazione, dove sono rimasta due mesi e mezzo”.</p>



<p>I mesi di assenza si ripercuotono sul lavoro. Inizialmente, il contratto di somministrazione le viene rinnovato fino al 30 giugno. “Il mio datore di lavoro non ha mai denunciato la mia situazione come infortunio di lavoro e io, che sono di origine colombiana, confesso che non conoscevo tutta la normativa italiana, non sapevo come muovermi né tantomeno potevo farlo per andare dal sindacato. Il 25 giugno, una volta accertata la guarigione, ho scritto all’HR dell’azienda e all’agenzia di somministrazione, anche perché <strong>altri colleghi </strong>avevano già avuto la<strong> proroga</strong>. Mi si dice che dovrò fare una visita medica aziendale e mi rendo disponibile. Peccato che <strong>non mi fanno più sapere nulla </strong>e di fatto si conclude il rapporto di lavoro”.</p>



<p>A oggi, nonostante faccia numerosi corsi di formazione, per Ericka trovare un impiego è impossibile. “Se non riesco a essere autonoma a casa, come faccio? Ecco perché, con il CAF, sto chiedendo la <strong>pensione di inabilità</strong> che viene data a chi non può più lavorare. Vivo da sola e spendo tanto per le cure, come posso fare altrimenti?”.</p>



<p>Per chi si trova in una situazione simile, l’INCA CGIL invita a <a href="https://www.collettiva.it/copertine/lavoro/2022/07/18/news/il_covid_contratto_sul_lavoro_e_un_infortunio-2246350/" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">denunciare il contagio</a> e ricorda che c’è <strong>tempo tre anni</strong> per ottenere un risarcimento per il danno subito e i suoi postumi.</p>



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<h2 id="h-cinzia-discriminata-perche-ritenuta-contagiosa-e-lo-smart-working-e-stata-una-concessione">Cinzia: “Discriminata perché ritenuta contagiosa e lo smart working è stata una concessione”</h2>



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<p>Nella storia di <strong>Cinzia</strong> (nome di fantasia), 45 anni e residente a <strong>Parma</strong>, il Long COVID si mescola a<strong> mobbing</strong>, <strong>discriminazioni </strong>e a uno <strong>smart working</strong> che sembra una “<strong>concessione</strong>”.</p>



<p>Anche per lei il calvario è iniziato nel <strong>marzo 2020</strong>, quando era stata assunta da pochi giorni come impiegata nell’ufficio acquisti di una piccola azienda. Cinzia ha contratto il COVID-19 in ospedale, dove il <strong>padre</strong> era ricoverato per una malattia neurodegenerativa. Anche la <strong>madre</strong> è stata male a causa del virus, finché “<strong>in quindici giorni ho perso entrambi</strong>”, dice con la voce rotta da una tristezza che è ancora molto presente. E che si aggiunge a quello che ha dovuto e deve sopportare.</p>



<p>Inizialmente il COVID-19 dura sei settimane: “Sono stata curata a casa perché ho lasciato il posto in ospedale a mia madre. Una volta negativa, sono rientrata al lavoro. Avevo già speso una fortuna tra tampone, visita dallo pneumologo ed esami del sangue. A fine maggio <strong>sto di nuovo male</strong>. Ho <strong>febbricola</strong>, emicranie fortissime, tachicardia, stanchezza cronica, inoltre svenimenti di tipo ischemico-epilettico”.</p>



<p>Ed è in quel momento che inizia la battaglia con l’azienda: “Facevo parecchie assenze e a un certo punto <strong>si diffuse il panico</strong> che fossi <strong>ancora contagiosa</strong>, quindi nessuno voleva starmi vicino. Mi mandano dal medico aziendale che non mi visita, legge tutti gli esami che avevo fatto e mi chiede perché non avessi fatti altri”.</p>



<p>Risultato: per l’azienda Cinzia<strong> non è idonea a lavorare in sede</strong> e le viene concesso lo <strong>smart working</strong>. “Sono l’unica cui viene dato e, pur di non farmi entrare, un collega<strong> mi porta la borsa fuori dall’azienda</strong>. Per me è un duro colpo: andare al lavoro voleva dire svagarsi, un modo per elaborare il lutto”.</p>



<p>Conclusa questa fase, Cinzia viene riammessa in azienda e fino alla fine di settembre 2020 va tutto bene: “I disturbi vanno e vengono ma niente di così eclatante, nel frattempo porto avanti le mie indagini per capire cosa ho. Finché non<strong> ho un crollo</strong>: non sto più in piedi, la testa è come una lavatrice, svengo all’improvviso perdendo conoscenza dopo pochi secondi. Una volta mentre guidavo ho visto la curva dritta. Ho chiamato l’azienda, sono andata nuovamente in malattia (solo dopo riconosciuta dall’INPS come legata al COVID-19). Dei medici <strong>mi dicono che sono depressa</strong> e mi prescrivono degli antidepressivi, ma io sapevo che non era così”.</p>



<p>Cinzia trova sostegno all’Ospedale Mondino di Pavia, dove è stato aperto un ambulatorio NeuroCOVID, e in seguito a Modena, che è “l’unico che posso permettermi con il servizio sanitario. Per il resto devo pagare tutto”.</p>



<p>La situazione degenera nei primi mesi del 2021: “Quando c’è stato un caso di COVID-19 al lavoro ho preteso che mi dessero lo smart working. Avevo paura. L’ho ottenuto ma mi chiamavano quando non ero connessa, <strong>mi controllavano</strong> e <strong>mi</strong> <strong>facevano lavorare di più</strong>, finché ho capito che così non potevo andare avanti. In accordo con i sindacati, sono stata <strong>licenziata</strong> per giustificato motivo soggettivo: niente indennità, scarsa buonuscita, ma almeno ho ottenuto la disoccupazione”. Che sta per finire: “Se non fosse per il mio compagno, non saprei come vivere. Ho fatto dei colloqui, ma ogni volta che dico quanto è successo, non mi prendono. Alla mia figura si richiede di essere attiva, ma io passo più giorni a letto che in piedi e finora nessuno mi ha proposto lo smart working. <strong>Prima del COVID-19 ero una macchina da guerra</strong>. Giocavo a tennis, andavo in montagna. Ora <strong>non sono più nulla</strong>”.</p>



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<h2 id="h-anna-il-long-covid-mi-ha-tolto-anche-il-lavoro-in-nero">Anna: “Il Long COVID mi ha tolto anche il lavoro in nero”</h2>



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<p><strong>Anna</strong> (nome di fantasia), 39 anni, ha la voce affannata, fatica a parlare, ma nonostante questo non vuole smettere di farlo, tanta è la voglia di raccontare cosa le è successo.</p>



<p>Residente a <strong>Napoli</strong>, ha contratto il COVID-19 nel 2021, ma i suoi tamponi sono sempre stati negativi. Se ne accorge perché la figlia maggiore di 14 anni è contagiata, e ovviamente le presta le cure.</p>



<p>“Ero asintomatica, ma dopo tre giorni mi sono svegliata con <strong>dolori muscolari</strong> e un <strong>affanno</strong> che aumentava sempre di più. Da persona che è sempre stata forte fisicamente, mi sono spaventata e sono stata portata in ospedale. I tamponi che mi hanno fatto erano sempre negativi, nonostante avessi una saturazione molto bassa, fino a 85. Mi dimettono e <strong>mi dicono che sono ansiosa</strong>, <strong>depressa</strong>, quando io stavo bene psicologicamente”.</p>



<p>Da lì inizia il suo calvario: il fatto che <strong>non sia mai risultata positiva</strong> non la aiuta, ma le analisi che porta avanti (quasi tutte a sue spese), una volta escluse altre patologie, cominciano a far ipotizzare che abbia avuto il COVID-19, che peraltro torna a farle visita nell’aprile scorso.</p>



<p>La storia di Anna si differenzia dalle altre perché mentre lotta per la salute <strong>non ha diritto</strong> a nessuna <strong>indennità di malattia</strong>, né a ferie e permessi perché <strong>lavorava in nero in un bar</strong>. Dal momento in cui è stata male ha dovuto dire addio allo stipendio, “nonostante i miei titolari mi hanno sempre aspettata”.</p>



<p>Non cerca altro perché “al momento sono impresentabile, non mi posso affaticare, quando lo faccio ho dolori al petto. Non posso stare neanche vicina a fonti di calore, quando succede mi collassano tutti i muscoli, compresi quelli della respirazione. Ci penso spesso: se avessi avuto un lavoro in regola, avrei avuto maggiore aiuto, ma è la realtà di questa città dove per fortuna ho tanti amici che mi sostengono, anche economicamente. Qualcuno mi dice: ‘Prova a farti fare un’<strong>esenzione</strong>’. Già; ma <strong>per quale patologia</strong>, se questa <strong>non è riconosciuta</strong>?”.</p>



<p>Ericka, Cinzia e Anna fanno parte del gruppo “<a href="https://www.facebook.com/groups/3044276745637072" target="_blank" rel="noreferrer noopener nofollow">Noi che il COVID lo abbiamo sconfitto. Sindrome Post COVID #LongCovid</a>”, creato da <strong>Morena Colombi</strong> nel maggio 2020. Oggi conta 39.000 persone che ogni giorno si confrontano su sintomi e conseguenze di un virus che, al di là dei numeri dei contagi, continua a fare vittime, anche quando sembra passato.</p>



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Long COVID, se tra i sintomi c&#8217;è la perdita del lavoro


<p>“Una volta il punto di forza dei <strong>partiti di sinistra</strong> e in particolare del PCI era la <strong>presenza </strong>massiccia e articolata<strong> sul territorio</strong>. Non mi riferisco soltanto alle sezioni che erano la struttura portante della politica nei quartieri, ma anche alla presenza dei militanti nei luoghi di lavoro, nei consigli di fabbrica, nei sindacati e nelle associazioni che monitoravano il sociale. C’era una tradizionale sensibilità in quella direzione. Ora tutto è cambiato. Il partito di massa è stato smantellato da anni. Il <strong>PD</strong> è da almeno un ventennio che non guarda cosa avviene nelle periferie, nella parte più povera ed emarginata del Paese. Non è un caso che i punti di forza elettorali del partito siano i centri storici. È troppo tempo che il PD sta nelle stanze del potere senza guardare cosa avviene nelle viscere della società. Sarà difficile tornare indietro se non si <strong>rifonda radicalmente il partito</strong>.”</p>



<p><strong>Emilio Randazzo</strong> non lo vedevo da anni, da quando da studente andavo a distribuire davanti alla fabbrica volantini dal titolo “studenti-operai uniti nella lotta”. Lui è un ex operaio della Breda, il colosso siderurgico di Sesto San Giovanni, ex Stalingrado di Italia, che negli anni Ottanta fu smantellato a seguito del gigantesco processo di deindustrializzazione che assieme alle grandi fabbriche liquidò anche la classe operaia, e più in generale il proletariato urbano. Ora è fuori dalla politica militante da anni, ma la passione non si è spenta, e guarda con orrore i flussi elettorali che registrano uno <strong>spostamento verso il centrodestra delle generazioni più giovani</strong>.</p>



<p>Randazzo era militante del PCI, poi PDS, poi DS e poi PD. Ora in quell’area che veniva occupata dalla Breda, dalla Pirelli, dalla Magneti Marelli e altre più piccole fabbriche c’è l’Università Statale di Milano, un enorme multisala e il teatro Arcimboldi. E al posto dell’ex partito di massa che occupava fabbriche e quartieri con le sezioni e le cellule di partito c’è la fiamma di <strong>Giorgia Meloni</strong>, che alle ultime elezioni proprio nella ex Stalingrado d’Italia ha incassato una quantità inaspettata di voti grazie al lavoro nel sociale fatto negli ultimi anni. Una ragnatela silenziosa ma attiva, fatta di circoli di quartiere e di presenza nelle istituzioni locali, supportata da un’opposizione che non ha badato a spese e che ha raccolto l’adesione anche dei residui di classe operaia e ceto medio basso.</p>



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<h2 id="h-da-partito-di-massa-a-partito-di-governo-evoluzione-e-involuzione-del-pd">Da partito di massa a partito di governo: evoluzione e involuzione del PD</h2>



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<p>Mentre la <strong>borghesia progressista</strong> milanese si stringeva attorno alle bandiere del sindaco <strong>Sala</strong> e del PD in una Milano tecnologica simboleggiata dal Bosco Verticale e dal futuribile centro direzionale, nell’hinterland e nella <strong>periferia</strong> si insediavano prima la <strong>Lega</strong> poi <strong>Fratelli d’Italia</strong>, prendendo così d’assedio il centro sinistra.</p>



<p>C’è chi dice, come Massimo Cacciari, che <strong>il PD non sia mai nato</strong>. Può essere. Ma è certo che da molti anni il principale partito della sinistra, uno dei maggiori perdenti delle ultime elezioni, a un certo punto della sua lunga storia abbia <strong>tradito la strategia del partito di massa</strong> voluto da Palmiro Togliatti alla fine della Seconda guerra mondiale per realizzare “la via italiana al socialismo”. Una strategia che negli anni Settanta, precisamente nel 1976, portò il partito di Enrico Berlinguer a conquistare la maggioranza degli elettori, superando per la prima volta la DC.</p>



<p>Gli osservatori più attenti sostengono che la svolta da partito di massa a partito di potere avvenne all’inizio del nuovo millennio, quando <strong>Massimo d’Alema</strong>, superando il fattore K che per anni aveva impedito ai comunisti di entrare nelle stanze dei bottoni, divenne presidente del consiglio. A quell’epoca, mi spiega un vecchio comunista, scattò l’illusione che si potesse <strong>governare senza tenere conto della base sociale</strong> che aveva retto per decenni il partito, fino alla scissione con Rifondazione Comunista che portò con sé una parte della struttura di massa del partito.</p>



<p>Ognuno dei cinque segretari che si sono alternati ai vertici del PD negli ultimi anni si è ripromesso di <strong>tornare nelle aree popolari</strong> dove era nato, ma alla fine prevaleva la logica del potere. Ora probabilmente il Pd dovrà fare i conti proprio con la sua storia per uscire dal tunnel delle sconfitte, anche se dai primi vagiti dopo la débâcle non sembra che la lezione sia servita.</p>



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<h2 id="h-lorenza-rossi-fdi-noi-presenti-sul-territorio-da-tempo-e-all-opposizione-solitaria">Lorenza Rossi, FdI: “Noi presenti sul territorio da tempo e all’opposizione solitaria”</h2>



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<p>Se si bussa alla porta del <strong>circolo di Fratelli d’Italia</strong>, sotto casa, si respira un’altra aria.</p>



<p>Un entusiasmo da vincitori. Quando chiedo di parlare con i responsabili del circolo o con gli organizzatori, che mi possano spiegare come è strutturata Fratelli d’Italia sul territorio, <strong>Lorenza Rossi</strong>, della segreteria del circolo, mi chiede in primo luogo qual è il giornale che rappresento. Quando gli spiego che <em>SenzaFiltro</em>, giornale che si occupa di lavoro, vuole monitorare il <strong>rapporto tra i partiti e il territorio</strong> è ben contenta di mettermi in contatto con il coordinatore provinciale, che alla fine non si farà vivo. Tuttavia Lorenza Rossi qualche dato e qualche valutazione me lo fornisce volentieri.</p>



<p>“Da tempo siamo presenti sul territorio con i circoli di quartiere e i circoli ambientali. Tenga conto che Fratelli d’Italia ha avuto tutto il tempo di radicarsi nelle città come in provincia grazie a un’opposizione solitaria, anche nelle aree nelle quali la Lega era molto forte, come in Veneto o nell’hinterland milanese. Non è un caso che oggi Fratelli d’Italia a Milano e provincia sia il primo partito.”</p>



<p>Analizzando i <strong>flussi elettorali</strong> sembrerebbe che il vostro partito ha fatto <strong>man bassa di voti sottraendoli alla Lega</strong>. Lei conferma questa tendenza? “Direi di sì. Non solo abbiamo portato via voti alla Lega, ma abbiamo preso i voti da quelle aree di società deluse dalla politica dei partiti di sinistra. Rispetto alla Lega è evidente quello che è avvenuto: gli elettori non hanno perdonato al partito di Matteo Salvini di aver <strong>partecipato al</strong> <strong>governo Draghi</strong>”.</p>



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<h2 id="h-dal-33-all-8-la-lega-abbandona-il-territorio-il-territorio-abbandona-la-lega">Dal 33 all’8%: la Lega abbandona il territorio, il territorio abbandona la Lega</h2>



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<p>La sconfitta più indigesta è quella appunto della <strong>Lega</strong>.</p>



<p><strong>Matteo Salvini</strong> fa finta di niente, ma nel suo entourage, malgrado le bocche cucite nella comunicazione ufficiale, c’è chi comincia a mettere in discussione la sua strategia di tentare la strada del partito nazionale, con poco successo. Al Sud è stato un disastro, al Nord c’è stato il sorpasso della fiamma tricolore. Un esponente della Lega milanese, che negherebbe ogni cosa se facessimo il suo nome, imputa proprio all’<strong>abbandono del territorio </strong>una delle cause della <strong>sconfitta</strong>.</p>



<p>“Non possiamo nascondere i fatti. La Lega Nord aveva una presenza massiccia sul territorio soprattutto in Veneto, ma anche in Lombardia, dove non dobbiamo dimenticarci che è nata. Era quella la sua forza, lo stesso Salvini negli anni precedenti al governo con i 5 Stelle era riuscito a costruire una rete di alleanze con ceti produttivi e aree lasciate allo sbando dal centrosinistra che ci dava forza e portava voti. Tanti voti. Poi il <strong>governo giallo-verde</strong>, l’<strong>illusione di una Lega nazionale </strong>e la <strong>partecipazione al governo Draghi</strong> hanno bruciato progressivamente quel legame con i territori coltivati negli anni e hanno aperto un’autostrada per il nostro alleato Fratelli d’Italia, che passo dopo passo ha superato la Lega nel giro di qualche anno. Il crollo è drammatico se si pensa che siamo passati dal 33% alle europee all’8% delle ultime elezioni”.</p>



<p>La sconfitta della Lega brucia soprattutto in <strong>Veneto</strong>, dove imprenditori leghisti ricordano a Salvini che il loro partito negli anni ha dissipato voti al Nord: “Verificare che un partito romano-centrico superi la Lega nelle nostre zone è deprimente”.</p>



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<h2 id="h-il-movimento-5-stelle-e-il-rdc-passpartout-per-parlare-ai-ceti-a-rischio">Il Movimento 5 Stelle e il RdC, passpartout per parlare ai ceti a rischio</h2>



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<p>Singolare ma significativo il caso del <strong>Movimento 5 Stelle</strong>, il partito più d’opinione e meno territoriale del panorama politico italiano.</p>



<p>Il movimento fondato da <strong>Beppe Grillo</strong> e guidato da <strong>Giuseppe Conte</strong>, malgrado il crollo di voti dal 33 al 15% in soli quattro anni, in finale di campagna elettorale ha tenuto botta grazie soprattutto alla difesa a oltranza del <strong>Reddito di Cittadinanza</strong>, una conquista inventata da Beppe Grillo che è e rimane un punto di non ritorno per le aree povere del Paese perché tocca gli interessi materiali di milioni di persone.</p>



<p>All’uscita di un CAF intercetto un uomo sui cinquant’anni che ha appena fatto <strong>domanda per ottenere il Reddito di Cittadinanza</strong>.</p>



<p>“È in questo modo – osserva Fabrizio – che i grillini hanno <strong>conquistato la mia simpatia</strong> e la simpatia di molte persone che non si occupano di politica, ma che sono in una condizione di indigenza e di precarietà. <strong>Io non li avevo mai votati prima</strong>. Spero che il nuovo governo tenga conto di questa realtà. Togliere il Reddito di Cittadinanza in questo momento sarebbe un disastro per tanta gente che sente l’arrivo di una crisi che fa paura”.</p>



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<p><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/politica/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Politica</a></strong>.</em></p>



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<p><em>Photo credits: mapio.net</em></p>


Partiti, senza territorio non si governa: a Milano e in Italia ha vinto chi è rimasto

<p>La <strong>settimana corta</strong> è uno degli argomenti più chiacchierati dell’ultimo periodo, lavorare meno per lavorare meglio, anche se di concreti approfondimenti ancora non c’è nessuna traccia. Si rifà il trucco da mesi Carter &amp; Benson, società di head hunting e consulenza per le imprese che, attraverso le interviste del CEO William Griffini, racconta di un esperimento possibile. Ma attenzione, dice Griffini, “sfatiamo un mito: è impossibile che le persone producano di più lavorando otto ore in meno”. Un’iniziativa, quindi, utile solo per migliorare reputazione e immagine aziendale. “L’organizzazione è applicabilissima e il modello replicabile ovunque, basta volerlo”, la sintesi.</p>
<p>In poche parole, bisognerebbe <strong>lasciar perdere la produttività</strong>. Certo, vallo a spiegare alle imprese manifatturiere, soprattutto con i chiari di luna di questo periodo. Forse è meglio chiarire che c’è un’enorme <strong>differenza</strong> tra società di consulenza con meno di cinquanta persone, spesso già (per caratteristiche) in regime di smart working, e organizzazioni complesse, magari di stampo produttivo. Non è un caso che altri due esempi pionieristici, segnalati sul sito pmi.it, siano TeamSystem, che si occupa di sviluppo software, e Velvet Media, realtà impegnata nel marketing. Tutti contesti flessibili per natura.</p>
<p>Passo oltre e provo, quindi, a comporre il numero di Confindustria, per capire l’aria che tira tra gli <strong>industriali</strong>. Mi rispondono che <strong>il tema non è all’ordine del giorno</strong>, e che sì, magari può essere utile per impianti energivori, come la fonderia per citarne uno, in un’ottica di risparmio sul caro bollette. Finché il ragionamento prosegue con lo scoglio più importante, a loro modo di vedere: difficile <strong>riparametrare quaranta ore</strong> settimanali dal lunedì al giovedì. Ma come? La logica della settimana corta prevede di tagliare otto ore, non di riparametrarle su quattro giorni.</p>
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<h2 id="h-la-settimana-corta-contro-i-900-contratti-nazionali">La settimana corta contro i 900 contratti nazionali</h2>
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<p>Molto meglio prendere carta e penna e appuntarsi qualche elemento concreto. Secondo i dati del CNEL, in Italia oggi ci sono <strong>più di 900 contratti nazionali</strong>, ragion per cui già pensare a una sintesi di approccio sul tema, in questa selva infinita, è pura utopia. Uno zoom su alcuni di questi, tra i più rilevanti, permette però di ragionare su basi tangibili.</p>
<p>Pensiamo al <strong>commercio</strong> e alla <strong>distribuzione</strong>, che tra gli altri offrono la possibilità alle imprese di assorbire parte dei permessi retribuiti al fine di ridurre l’orario settimanale da quaranta a trentotto ore. È così impensabile, nei futuri rinnovi, trattare una condizione simile (magari togliendo altre due ore) senza assorbimenti sul monte ferie? Potrebbe essere una soluzione alternativa ai consueti e insignificanti aumenti contrattuali.</p>
<p>Più complicato ma interessante il campo dei <strong>cicli continui</strong>. Prendiamo il CCNL cartario. Un orario a tre turni sette giorni su sette, basato sia su un calcolo di sei giorni lavorati e tre di riposo che sul quattro/due o sul due/uno, porta già di per sé a una media di 37 ore e 20 minuti settimanali, retribuite 40. Per garantire il compenso completo si procede all’assorbimento dei permessi per riduzione orario ed ex festività. Addirittura, se un lavoratore presta servizio con questa rotazione ma su due turni, è costretto a prestare ulteriori cinque giornate lavorative annue.</p>
<p>Infine, per garantire la corretta composizione delle squadre, per ogni posizione lavorativa sono necessarie quattro persone e mezza. Ora, come si evince da questa descrizione, è possibile lavorare sull’organizzazione (è logico che non si può tagliare a metà una persona, ma è necessario ricorrere a ponderati extra-budget) e che la media ore è già da settimana semi-corta. Anche qui il tema, a mio avviso superabile, è l’assorbimento.</p>
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<h2 id="h-pietro-vivone-presidente-nazionale-fedapi-inapplicabile-nelle-microimprese-spingiamo-piuttosto-su-rimodulazione-degli-orari">Pietro Vivone, presidente nazionale FedApi: “Inapplicabile nelle microimprese. Spingiamo piuttosto su rimodulazione degli orari”</h2>
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<p>Un ultimo dato da mettere a verbale, sempre riconducibile ai quasi mille contratti nazionali. L’Italia è un Paese di <strong>piccole e medie imprese</strong>, un calderone che accorpa il 92% delle aziende italiane e impegna l’82% dei lavoratori.</p>
<p>“La <strong>microimpresa</strong>, per capirci dai tre dipendenti in giù, è quella che oggi la fa da padrone. Aspetto da considerare quando si parla di settimana corta. È lecito dedurre che in questi contesti non è facile parlare di digitalizzazione, industria 4.0 e investimenti per cambiamenti culturali di questa rilevanza.”</p>
<p><strong>Pietro Vivone</strong> è presidente nazionale di FedApi, Federazione Artigiani e Piccoli Imprenditori. “Come sindacato d’impresa abbiamo effettuato un&#8217;analisi profonda e credo sia opportuno differenziare le tipologie di attività. In alcuni settori è impensabile adottare questo criterio, piuttosto spingiamo sulla <strong>rimodulazione degli orari</strong>”.</p>
<p>Rimodulare gli orari significa riorganizzare ma mantenere lo stesso carico di lavoro. Perché nella manifattura interventi di questo tipo non sono realizzabili? D’altro canto lavorare su tecnologie e risorse umane è possibile. “Se devo fare le veci dell’imprenditore riconduco il tutto a un tema di costi. Magari lavorando meno mantengo la produttività ma, seguendo il ragionamento inverso, perché perdere l’opportunità di alzarla sensibilmente? Lato lavoratore: si potrebbe riassumere il full time su quattro giorni ma nessun dipendente vuole lavorare di più, se parliamo di ordinario”.</p>
<p>Ma l’idea, lo ribadisco, è lavorare di meno con lo stesso salario. “Se c’è supporto a livello governativo ci si può pensare, <strong>anche l’imprenditore ci deve guadagnare</strong>. Senza incentivi la trovo una strada non percorribile”. Provo a sottolineare i casi europei, chi un impianto lo sta sperimentando da tempo, dalla Gran Bretagna alla Francia, che ragiona sulla base delle sette ore giornaliere. Un punto di partenza replicabile e addirittura superabile, secondo la componente sindacale, CGIL in testa.</p>
<p>“Io però insisto nel rivendicare il punto dell’azienda. <strong>Riduco ore e riduco produzione: solo perdite</strong>. Diverso è il discorso rimodulazione, con mezz’ora in più al giorno e due in meno il venerdì. Ridurre le ore a parità di stipendio, in questa fase, significa alzare <strong>tensione sociale</strong>. Non so se CGIL se ne rende conto. Il tasto da battere è senz’altro quello della sicurezza, l’ottava ora è quella più a rischio per gli operai di produzione, non la produttività. Una vittoria per tutti, e una buona mediazione, potrebbe essere la riduzione delle ore settimanali <strong>da 40 a 38</strong>.”</p>
<p>Con assorbimento delle ferie? “No, senza”. Bene, almeno una piccola apertura l’ho ottenuta.</p>
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<h2 id="h-valeria-zamperi-settimana-corta-evoluzione-dello-smart-working-ma-il-cambiamento-dovrebbe-essere-sistemico">Valeria Zamperi: “Settimana corta evoluzione dello smart working. Ma il cambiamento dovrebbe essere sistemico”</h2>
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<p>Forse, però, è opportuno sentire anche il parere di chi vive le organizzazioni dall’interno. <strong>Valeria Zampieri</strong> vanta un’esperienza pluriennale nella gestione e nello sviluppo del personale di aziende produttive, tra Emilia-Romagna e Veneto, anche su turni e ciclo continuo.</p>
<p>“<strong>Io sono favorevolissima</strong>, non vedo alcun tipo di catastrofe nell’attuare un cambio organizzativo così. Certo è che dovrebbe essere <strong>sistemico</strong>. Mi spiego: se domani la mia azienda si ingegna sulla settimana corta ma tutto l’ecosistema che le gira attorno non è sulla stessa lunghezza d’onda, le conseguenze rischiano di non essere semplici da supportare. Clienti, ad esempio, che si aspettano consegne il venerdì, quindi il magazzino da riorganizzare sulle presenze, i rapporti con i fornitori che cambiano e via dicendo. Se il paradigma lo adotta tutto l’indotto che ti gira attorno, allora la strada è tracciata. D’altronde la settimana corta è già sperimentata in Europa, e spesso il loro mercato del lavoro funziona meglio del nostro. Pertanto, perché no?”</p>
<p>Un pensiero quasi più in linea con il sindacato che con le associazioni di categoria. “Trovo la <strong>settimana corta</strong> una <strong>fisiologica evoluzione</strong>, con il suo corso di realizzazione, <strong>dello smart working</strong>. Non ho preclusioni e non è blasfemia parlarne all’interno delle aziende. Certo, dev’essere un processo culturale e, come detto, sistemico”.</p>
<p>Pur se le associazioni di categoria remano contro. “Anche la questione del <strong>peso economico dell’operazione</strong> va analizzata nel dettaglio. Con il rincaro energetico chiudere un giorno, laddove possibile dal punto di vista degli impianti, non so quanto sia deleterio. Si può pensare a una transizione sulla semi-corta con fermo all’una del venerdì o ad altre soluzioni. Rifiutare a priori e opporsi in maniera calvinista non serve. Infine, dal nostro osservatorio le <strong>giovani generazioni</strong> considerano la bilancia vita lavoro ancor più importante dell’aspetto salariale. Per cui <strong>attenzione a chi guida il vero cambiamento</strong>. Le associazioni di categoria non devono avere paura di dire qualcosa controcorrente ,ma tornare a essere bussola e faro”.</p>
<p>Il dibattito, a questo punto, è aperto.</p>
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<p><em>Photo credits: contecaqs.it</em></p>


La settimana corta divide le aziende: 900 i contratti nazionali da rivedere

Le critiche delle associazioni di categoria: &#8220;Inapplicabile nelle microimprese, gli imprenditori non hanno vantaggi&#8221;. Ma c&#8217;è chi la pensa in modo diverso. Il parere di Pietro Vivone, presidente nazionale FedApi, e di Valeria Zamperi, HR.

La settimana corta divide le aziende: 900 i contratti nazionali da rivedere - Informazione senza filtro

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<p>Mentre la politica era concentrata sull’appuntamento elettorale, il settembre delle <strong>scuole</strong> è partito nel caos totale.</p>



<p><strong>Rino Di Meglio</strong>, il coordinatore nazionale della Gilda (il sindacato degli insegnanti) ha lanciato un chiaro allarme: “Il fenomeno del<strong> precariato </strong>è <strong>fuori controllo</strong>, e anche se la scuola è iniziata da settimane ci sono difficoltà enormi nel reperire i docenti. Gli <strong>stipendi</strong> sono ai <strong>minimi storici</strong> e le incombenze burocratiche sottraggono sempre più tempo all’attività didattica”.</p>



<p>I problemi sono aumentati nel tempo, perché con l’estensione della scolarizzazione c’è stato un generale <strong>abbassamento della qualità</strong>, e soprattutto la scuola ha subito una disumanizzazione dei processi. In particolare, oggi si vogliono controllare fenomeni complessi con la <strong>digitalizzazione</strong>. E cosa ha prodotto il <strong>ricorso all’algoritmo per l’assegnazione delle cattedre</strong>?</p>



<p>Più o meno <strong>170.000 cattedre scoperte</strong> all’inizio dell’anno scolastico.</p>



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<h2 id="h-rino-di-meglio-gilda-siamo-il-paese-occidentale-con-piu-precari-nella-scuola-e-l-algoritmo-per-le-nomine-e-fallato">Rino di Meglio, Gilda: “Siamo il Paese occidentale con più precari nella scuola. E l’algoritmo per le nomine è fallato”</h2>



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<p><strong>Rino di Meglio</strong> ha iniziato la sua carriera come maestro e le esigenze degli insegnanti le conosce molto bene. Con lui abbiamo approfondito le cause di questo flop, ma abbiamo anche raccolto le <strong>testimonianze dirette di alcune insegnanti</strong> che hanno subito la logica dell’algoritmo, e ora si ritrovano senza cattedra e si devono barcamenare tra supplenze brevi.</p>



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<figure class="aligncenter size-full"><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/10/Rino-di-Meglio-Gilda.jpg"><img width="878" height="576" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/10/Rino-di-Meglio-Gilda.jpg" alt="Rino di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda" class="wp-image-52352" /></a><figcaption>Rino di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda</figcaption></figure></div>


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<p><strong>170.00 cattedre scoperte sono un numero improponibile rispetto agli 850.000 posti di insegnamento che ci sono in Italia. È quasi il 20%.</strong><strong></strong></p>



<p>Il ministero in questo momento non fornisce dati precisi (i dati arrivano molto tardi perché l’organizzazione è macchinosa), ma possiamo fare una stima abbastanza veritiera. L’anno scorso le cattedre scoperte per le supplenze di lunga durata erano 220.000. Quest’anno è stato fatto uno sforzo di immissione di ruoli: c’erano 90.000 posti e ne hanno messi in ruolo circa la metà (45.000), però 40.000 persone sono andate in pensione, quindi l’operazione è quasi in pareggio. E a settembre sono rimaste 160-170.000 cattedre scoperte. È un numero enorme, praticamente siamo il Paese occidentale con il maggior numero di precari e la maggior parte del precariato si crea nelle scuole del Centro Nord.</p>



<p><strong>Ci sono situazioni differenti da Nord a Sud?</strong><strong></strong></p>



<p>Il problema di partenza è che i concorsi non riescono a nominare tutti i posti che sono a disposizione perché i posti stanno al Nord e i precari stanno al Sud. Il precario per avere il lavoro si dovrebbe spostare, ma non sempre è disponibile a farlo, perché spostare un docente da Palermo a Milano significa moltiplicare enormemente il costo della sua vita, e con 1.300 euro al mese il trasferimento non è pensabile. Un altro paradosso è che in Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Liguria c’è un’impressionante carenza di insegnanti elementari, e oggi le facoltà che formano i maestri (Scienze della Formazione Primaria) sono a numero chiuso.</p>



<p><strong>Se ogni università sforna 100 laureati in un anno quando ne servirebbero 300, in pochi anni si crea una voragine. </strong><strong></strong></p>



<p>Pensi che nella mia città, Trieste, hanno addirittura chiuso la facoltà. Io suppongo – ma è una mia supposizione – che questo sia dovuto alla mercificazione dell’università. Vogliamo trasformare scuole, università e ospedali in aziende, ma sono elementi essenziali della vita umana che non possono essere aziendalizzati.</p>



<p><strong>Dov’è la falla principale che compromette il sistema delle assegnazioni delle cattedre?</strong><strong></strong></p>



<p>Uno dei fattori principali è la durata dei concorsi. Il ministro pensa di aver risolto facendo i concorsi annuali, ma non basta legiferare che si faranno i concorsi ogni anno; il problema è avere una struttura e un’organizzazione per le commissioni d’esame che porti a termine il concorso. Se voglio fare una commissione per un concorso con dei bravi esaminatori devo prenderli da scuola, però se a questi insegnanti non concedo l’esonero dal lavoro la missione diventa impossibile. L’insegnante deve fare lezione la mattina, correggere i compiti, partecipare agli ordini collegiali, non può gestire tutto. Il bravo professore tendenzialmente non accetta l’incarico, oppure accetta ma dopo un po’ si rende conto che non ce la fa e rinuncia. Spesso la commissione cambia i commissari per quattro o cinque anni e gli esiti dei concorsi non arrivano mai. L’unica strada per trovare dei commissari fissi è concedere loro l’esonero dall’insegnamento. Anche perché tra la correzione degli elaborati e gli esami orali l’impegno per il concorso può durare fino a tre mesi. Il meccanismo è complicato e succede anche che in commissione d’esame arrivino persone inesperte, che ne sanno meno delle persone che devono esaminare.</p>



<p><strong>Questo però è abbastanza ridicolo.</strong><strong></strong></p>



<p>Ridicolo, ma frequente. Abbiamo avuto casi di giovanissimi supplenti che si sono trovati a esaminare precari che insegnavano da 15 anni e ne sapevano molto più di loro. Poi ci sono i presidi che per risolvere il problema si propongono per assumere direttamente personale, ma la scuola non è un’azienda privata e il preside non è padrone dell’istituto. Dobbiamo far funzionare la struttura con le risorse statali. Questo è un esempio pratico del fatto che sulla scuola italiana si investe poco. Non parliamo neanche dello stipendio dell’insegnante, ma dell’essenziale funzionamento della macchina.</p>



<p><strong>Gilda però da una decina di giorni ha chiesto l’accesso agli atti per l’algoritmo GPS.</strong></p>



<p>Gli errori commessi dall&#8217;algoritmo nell’assegnazione delle supplenze ledono spesso i diritti di graduatoria. Le istruzioni operative inserite stanno facendo sì che alcuni insegnanti specializzati vengano tagliati fuori e che attribuiscano le supplenze a laureandi in scienze della formazione primaria. C’è qualcosa che non va e appena ci verrà consegnato l’algoritmo procederemo alla sua analisi per identificarne i difetti. Prima le nomine avvenivano in presenza e l’insegnante poteva riflettere e scegliere a ragion veduta se rifiutare o meno un posto. Invece con l’algoritmo se io rinuncio alla supplenza vengo considerato rinunciatario e automaticamente escluso anche da una nomina successiva. Così un insegnante senza titolo può essere nominato al mio posto.</p>



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<h2 id="h-le-nomine-dell-algoritmo-gps-vanno-rifatte-passano-persone-con-punteggi-piu-bassi">“Le nomine dell’algoritmo GPS vanno rifatte: passano persone con punteggi più bassi”</h2>



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<p>È esattamente il caso di <strong>Fabiola Calabretta</strong>, 38 anni, due lauree, due abilitazioni, un punteggio alto. Ed è ancora precaria. Insegna arte alle medie e da nove anni si dedica al sostegno. Ecco la sua testimonianza.</p>



<p>“Io sono di Catania, per undici anni ho lavorato a Biella e sono tornata nella mia città da quattro anni. Negli ultimi due anni ho avuto la cattedra a Librino e credevo di essere riconfermata visto che ho un <strong>buon punteggio</strong>. Invece l’algoritmo ha privilegiato altri titoli. In pratica ad agosto abbiamo dovuto fare la scelta degli istituti e avevamo a disposizione 150 preferenze. Alle nomine, arrivato al mio nominativo, era rimasta una cattedra a Militello, scuola che io non avevo inserito tra le preferenze perché troppo lontana. <strong>Ho rifiutato e l&#8217;algoritmo automaticamente mi ha scartata</strong>.”</p>



<p>“Alle successive nomine io <strong>non ero più in elenco</strong> anche se non ero in servizio. Con questo meccanismo sono state<strong> cancellate altre persone </strong>che come me avevano un<strong> punteggio molto alto</strong>, in favore di persone con punteggio più basso. In pratica oggi lavoro su una supplenza breve invece che su quella annuale. Non sono l’unica, ho tanti colleghi nella mia situazione e mi aspetto che le <strong>nomine</strong> vengano <strong>rifatte</strong>. Anche perché sono stata per un anno con un bambino disabile e per lui è stato un trauma il fatto che non fossi più la sua insegnante, e lo è stato anche per la sua famiglia. Avevo uno storico con questo bambino, speravo di portarlo in terza media, e invece ha preso il mio posto una persona meno specializzata di me. I ragazzi che hanno bisogno del sostegno hanno diritto a una persona specializzata, non all’ultimo arrivato. Invece i ragazzi disabili ogni anno hanno un insegnate diverso e un metodo diverso. Per loro la scuola è una finestra sul mondo, sulla socialità e la loro emotività andrebbe rispettata. Invece noi siamo numeri e quando ci sono le nomine è il pallottoliere che decide.”</p>



<p>“Dai sindacati mi aspetto che facciano in modo che questo non accada mai più. Io non credo che possano destituire persone che ormai hanno la cattedra, anche se dimostrano che l’algoritmo ha violato delle norme. La Gilda ha chiesto l’accesso agli atti, ma io credo che non cambierà nulla quest’anno. Se ci sarà un cambiamento sarà l’anno prossimo, forse”.</p>



<p>Invece Rino Di Meglio spera in una risoluzione entro l’anno. Secondo il coordinatore nazionale della Gilda il problema della disumanizzazione è imperante, ma una volta verificato che l’algoritmo ha violato le norme <strong>gli insegnanti che hanno subito l’esclusione potranno fare ricorso e vincerlo</strong>. Questo è l’obiettivo dichiarato di Gilda, che però non convince del tutto gli insegnanti da cui abbiamo raccolto testimonianze.</p>



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<h2 id="h-io-saltata-dall-algoritmo-e-le-cattedre-per-cui-avevo-espresso-preferenze-sono-ancora-scoperte">“Io, saltata dall’algoritmo. E le cattedre per cui avevo espresso preferenze sono ancora scoperte”</h2>



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<p>Anche <strong>Laura Sgherza</strong>, dalla Puglia, come Fabiola ha dovuto accettare delle supplenze brevi perché a causa dell’algoritmo non ha ottenuto la solita supplenza annuale. Quello che però l’ha stravolta e che per lei è inaccettabile è che <strong>le cattedre per cui aveva espresso delle preferenze</strong>, al momento in cui ci sentiamo al telefono (cioè il primo ottobre), sono <strong>ancora scoperte</strong>.</p>



<p>“Quelle sedi sono scoperte – mi spiega Laura – ma <strong>l’algoritmo</strong> non è arrivato a me, <strong>è andato avanti nella graduatoria e non torna indietro</strong>. Io ad oggi ho una supplenza vicino a casa, non mi lamento della distanza, ma <strong>non ho potuto garantire la continuità didattica</strong> ai miei alunni. Dopo le tante proteste di noi docenti la Gilda ha richiesto gli accessi agli atti, ma nonostante il loro lavoro io non credo che si arriverà a una soluzione entro l’anno scolastico. Costerebbe troppo stravolgere tutto e i fondi per la scuola non ci sono mai”.</p>



<p><em>SenzaFiltro</em> continuerà a seguire il problema, torneremo da Rino Di Meglio per capire le risposte del ministero, se ci saranno e con quali tempi. Ma torneremo anche da Fabiola e da Laura per capire come si evolverà il loro anno scolastico. Perché la digitalizzazione del sistema lede non solo i diritti degli insegnanti, ma anche quelli degli alunni che avrebbero diritto a una continuità didattica che oggi sembra irraggiungibile.</p>



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<p class="has-text-align-right"><em>Leggi gli altri articoli a tema <strong><a href="https://www.informazionesenzafiltro.it/scuola/" target="_blank" rel="noreferrer noopener">Scuola</a></strong>.</em></p>



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<p><em>Photo credits: laprovinciadicomo.it</em></p>


Scuola: 170.000 cattedre scoperte. L&#8217;algoritmo GPS falsa le graduatorie


<p>&#8220;<strong><em>Investite nelle startup che sono una risposta all&#8217;alternativa fra reddito di cittadinanza e salario minimo&#8221;</em></strong></p>



<p>Con questa frase si chiude l&#8217;intervento di <strong>Riccardo Luna</strong> importante divulgatore del sistema startup in Italia <a href="https://video.repubblica.it/tecnologia/dossier/italian-tech-week/it-week-2022-riccardo-luna-le-startup-sono-un-alternativa-a-reddito-di-cittadinanza-e-salario-minimo/427658/428609">nel video di presentazione</a> del Convegno organizzato a Torino in questi giorni destinato ai tecno-ottimisti e alle imprese innovative. Il tutto, alternato a fenomeni pop del momento tipo Achille Lauro, noto propagatore di <strong>messaggi di speranza per</strong> <strong>un mondo migliore</strong> a bordo di una Rolls Royce e dunque  testimonial azzeccatissimo visto lo slogan del Convegno (&#8220;Un mondo migliore per tutti&#8221;) ispirato alla mission dei Gigacapitalisti: Amazon, Google, Facebook &amp; Co., citati nel video come esempi fra &#8220;coloro che ce l&#8217;hanno fatta&#8221;.</p>



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<h2 id="h-una-promessa-non-mantenuta-e-ancora-difficile-da-mantenere">Una promessa non mantenuta e ancora difficile da mantenere</h2>



<p><strong>Una frase che fa molto pensare</strong> a distanza di almeno dieci anni dall&#8217;adozione di un modello che nel nostro Paese ha visto pochissimi esempi di <strong>vere startup divenute vere aziende</strong> (i nomi sono sempre gli stessi, da cui vanno filtrate tutte quelle situazioni ben supportate da sponsor di tutto rispetto fin dall&#8217;inizio e ben lontane dall&#8217;iconico &#8220;garage&#8221;, minimo comun denominatore di chiunque abbia lanciato una startup) molto spesso usati come specchietti per le allodole per tutti coloro che, chiamati ad alimentare un mercato che ha macinato miliardi di fondi europei, avevano poche idee e nemmeno l&#8217;ombra di un investitore.</p>



<p>Non è bastato evidentemente il fallimento conclamato di tutti gli incubatori italiani dal <strong>Vega di Venezia</strong> al <strong>Polo di Navacchio</strong> in Toscana, restituiti all&#8217;uso della più obsoleta Pubblica Amministrazione mentre i Capi degli hub dell&#8217;innovazione (&#8220;poli&#8221; di vario genere, &#8220;garden&#8221; e &#8220;farm&#8221; oggi retrocessi al ruolo di scuole di formazione e poco altro e ben presenti fra speaker e sponsor del Convegno), trasferirsi praticamente tutti in sistemi più che tradizionali, talvolta trovando nella politica il naturale proseguimento del loro percorso.</p>



<p>Una politica che da Renzi ai 5Stelle ha investito e promosso questo modello e le sue <em>cheerleader</em> unicamente alla ricerca di &#8220;voti giovani e freschi&#8221; in cambio di favori e &#8220;ricapitalizzazioni con fondi pubblici&#8221; degni della Prima Repubblica. </p>



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<h2 id="h-giornalismo-da-bar-e-innovazione-tanto-per">Giornalismo &#8220;da bar&#8221; e Innovazione &#8220;tanto per&#8221;</h2>



<p>La narrazione di <strong>un modello che non scalfisce il PIL italiano nemmeno di striscio</strong>, assume nel video di Riccardo Luna una narrazione intellettualmente (e giornalisticamente) improbabile e molto distante dalle generazioni a cui si vorrebbe parlare.</p>



<p>Dopo gli imprenditori da spiaggia e da tornio (a seconda delle stagioni), i Confindustriali che si stracciano le vesti impossibilitati a coprire &#8220;commesse internazionali&#8221; per mancanza di personale (salvo poi scoprire le condizioni e i contratti proposti e la totale incapacità di attrarre e selezionare candidati), anche <strong>l&#8217;innovazione cerca il suo spazio di pura improvvisazione nello scandalo del Reddito di Cittadinanza</strong>.</p>



<p>Pur comprendendo la necessità di far credere alle ultime due generazioni &#8220;che un modello startup sia una opportunità&#8221; (visto che l&#8217;ultima che si è schiantata in massa contro il tanto declamato &#8220;fallimento&#8221; è quella dei Millennials, una generazione che sta alimentando le file dei disoccupati senza competenze adeguate alle richieste del mercato), <strong>ai ragazzi bisogna però raccontare una storia nuova</strong>.</p>



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<h2 id="h-raccontare-una-storia-nuova-alle-nuove-generazioni">Raccontare una storia nuova alle nuove generazioni</h2>



<p>Bisogna spiegare che i modelli (le &#8220;ex startup Amazon, Google, Facebook&#8221;) di cui parla Riccardo Luna nel suo video sono modelli che con la scusa trita e ritrita di &#8220;rendere il mondo un posto migliore&#8221; lo stanno affamando, svuotando di contenuti e di significati, ma soprattutto di lavoro vero. E quel &#8220;mondo migliore&#8221; di cui parlano è un mondo in cui si evadono le tasse, si sottopagano i lavoratori, si genera la nuova povertà dei riders senza un contratto usati per creare un bisogno e ben presto sostituiti da carrelli meccanici che generanno una popolazione intera di disoccupati senza futuro. </p>



<p><strong>Intanto i Gigacapitalisti marginano miliardi e consumano risorse di questo mondo mentre noialtri ci trasferiamo nel Metaverso.</strong></p>



<p>Bisogna spiegare ai ragazzi la storia di <strong>un Paese che deve riprendersi il suo know how industriale</strong>, fatto di &#8220;pezzi&#8221; e non di &#8220;nuvole&#8221;, fatto di &#8220;mani&#8221; e di &#8220;pensiero&#8221;. Un know how che si trova nei laboratori e nelle fabbriche di questo mondo, non di un universo parallelo, dove oggi si parla il linguaggio della robotica in camice bianco. Un know how che il mondo ci riconosce davvero e che stiamo invece delocalizzando altrove con buona pace della politica e delle imprese stesse, mentre farfugliamo di &#8220;digitale&#8221; in un Paese che per metà non ha ancora la &#8220;banda larga&#8221;.</p>



<p>Alla narrazione di un modello startapparo che ancora attrae chi si affaccia al mondo del lavoro, vi suggerisco questo <a href="https://www.huffingtonpost.it/entry/il-fallimento-del-modello-start-up_it_604cc3fec5b6cf72d096959a/">articolo di Riccardo Maggiolo, pubblicato un anno fa su Huffington Post</a> e il nuovo libro di <a href="https://www.einaudi.it/catalogo-libri/problemi-contemporanei/gigacapitalisti-riccardo-stagliano-9788806254094/">Riccardo Staglianò, Gigacapitalisti</a>. </p>



<div class="wp-block-media-text alignwide is-stacked-on-mobile"><figure class="wp-block-media-text__media"><img width="598" height="1024" src="https://www.informazionesenzafiltro.it/wp-content/uploads/2022/10/GIgacapitalisti-598x1024.jpeg" alt="" class="wp-image-52297 size-full" /></figure><div class="wp-block-media-text__content">
<p>Per l&#8217;acquisto di quest&#8217;ultimo suggerisco una bella passeggiata in centro, in una delle tantissime librerie della vostra città. Chissà che magari usciate anche con un paio di libri in più, suggeriti da qualcuno degli ultimi librai per passione, anzichè dall&#8217;algoritmo di Amazon.</p>
</div></div>



<p></p>



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Le startup all&#8217;arrembaggio del reddito di cittadinanza &#8220;per un mondo migliore&#8221;

<p>Il referendum a mezzo stampa sul Reddito di Cittadinanza è l’ennesima occasione persa, per il sistema economico italiano, per ragionare in modo serio e strategico sull’organizzazione della produzione e del lavoro nel terzo millennio. Per ammettere il fallimento della precarizzazione, spacciata per flessibilità, e aprire una nuova fase fondata sull’efficiente correlazione tra le componenti che generano i prodotti e i servizi. A partire dall’utilità effettiva del <strong>tempo trascorso al lavoro</strong>, su cui si fonda la proposta di <strong>ridurre i giorni</strong> <strong>della settimana lavorativa</strong> <strong>da cinque a quattro</strong>, e le ore <strong>da 40 a 32</strong>, a parità di retribuzione.</p>
<p>“La riduzione dell&#8217;orario è una proposta contenuta nel documento del prossimo congresso nazionale della CGIL e non era mai accaduto prima”, afferma <strong>Fausto Durante</strong>, coordinatore della Consulta Industriale della stessa organizzazione sindacale e autore di <em>Lavorare meno, vivere meglio</em> (Futura Editrice). Quanto sta iniziando ad accadere in Italia <strong>è già realtà in Francia</strong>, <strong>Spagna</strong>, <strong>Inghilterra</strong> o <strong>Belgio</strong>: sistemi politici ed economici in cui la sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro è passata dalla fase degli accordi aziendali – com’è in Italia – a quella della sperimentazione diffusa o della legislazione specifica.</p>
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<h2 id="h-4-giorni-32-ore-lavorare-di-meno-per-produrre-di-piu">4 giorni, 32 ore: lavorare di meno per produrre di più</h2>
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<p>All’origine della <strong>proposta 4 giorni – 32</strong> ore c’è la presa d’atto del <strong>fallimento delle politiche del lavoro neoliberiste</strong> – quelle che hanno imposto orari lunghi, salari bassi e precarietà – tanto sul piano sociale che su quello propriamente economico. È un dato di fatto, ad esempio, che in <strong>Italia</strong> si registri un <strong>livello di produttività inferiore</strong> alla media dei Paesi dell’area Euro: ogni lavoratore produce annualmente una ricchezza valutata in 70.894 euro, molto meno dei lavoratori tedeschi (circa 80.000 euro) e ancora meno di quelli francesi (86.000 euro), e sempre al di sotto dei 76.000 euro di media.</p>
<p>Eppure i <strong>lavoratori italiani</strong> sono quelli che passano <strong>più ore</strong> (1.688,5 in media all’anno) <strong>nei luoghi della produzione</strong> tra i grandi Paesi dell’Unione europea, con la <strong>Germania </strong>ultima per tempo impiegato nel lavoro. E non per questo guadagnano di più: rispetto all’inizio del millennio, gli stipendi sono aumentati del 3,5% a fronte del 19% della Germania e del 24% della Francia (tutti i dati sono estratti dall’ultima indagine OCSE sul lavoro).</p>
<p>La <strong>produttività</strong> è determinata da una somma di fattori e non dal solo lavoro: meccanizzazione, digitalizzazione, ottimizzazione dei processi, efficienza organizzativa, logistica e quant’altro. Di certo i deficit accumulati in tutti questi segmenti della produzione sono stati scaricati sui lavoratori, bloccando la progressione retributiva e aumentando lo spazio della precarietà, oltre a quello dell’illegalità.</p>
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<h2 id="h-fausto-durante-cgil-in-francia-300-000-posti-di-lavoro-in-piu-con-la-settimana-corta">Fausto Durante, CGIL: “In Francia 300.000 posti di lavoro in più con la settimana corta”</h2>
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<p>Proprio la <strong>Francia</strong>, dove si guadagna mediamente il 24% in più di vent’anni fa, è stata la prima potenza economica a sperimentare la <strong>riduzione dell’orario di lavoro</strong>: 35 ore spalmate su cinque giorni. I francesi stanno in ufficio o in fabbrica un’ora in meno al giorno rispetto agli italiani e questo ha generato “<strong>300.000 posti di lavoro in più</strong> nei primi cinque anni di applicazione della legge”, afferma Durante, “per la stragrande maggioranza negli stessi impianti che hanno applicato la norma e che hanno migliorato gli obiettivi di produzione”.</p>
<p>L’<strong>incremento dell’occupazione </strong>è proprio uno dei benefici che, a parere dei promotori della riforma, deriverebbero dalla riduzione dei giorni e delle ore di lavoro. Un esito negato da molti economisti che, al contrario, ritengono si possa generare un effetto contrario proprio a causa dell’asserito incremento della produttività derivante dalla maggiore efficienza di chi è meno stressato e stanco potendo lavorare un giorno in meno.</p>
<p>Obiezione rispedita al mittente dal coordinatore della Consulta Industriale della CGIL: “L’obiettivo di ogni azienda è incrementare il fatturato attraverso l’incremento dei beni prodotti o dei servizi forniti; ne consegue la necessità di nuove assunzioni per ottenerlo”.</p>
<p>Altro vantaggio dei 4 giorni – 32 ore è la <strong>riduzione del gender gap</strong>. Ancora in Francia si è verificato che i due terzi delle assunzioni connesse alla riduzione dell’orario hanno riguardato giovani e donne. Ridurre anche i giorni d’impiego avrebbe un ulteriore effetto positivo proprio per le donne, perché potrebbero superare il part time involontario, quello determinato dalle necessità di cura della famiglia che ancora grava in maggior parte sulla componente femminile, e ottenere un più soddisfacente e remunerativo tempo pieno.</p>
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<h2 id="h-le-storture-della-settimana-lavorativa-corta-alla-belga">Le storture della settimana lavorativa corta alla belga</h2>
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<p>Andare oltre il modello francese è l’obiettivo che si è posta la CGIL, e non solo, tirando le somme di un’esperienza avviata alla fine del secondo millennio.</p>
<p>“Quel tipo di orario è <strong>facilmente attuabile all’interno dell’industria classica</strong>”, spiega Durante. “Non ha molto senso se applicato alla new economy, che ha modificato radicalmente l’approccio all’organizzazione produttiva e alla gestione del tempo”. Se anche l’orario di lavoro non cambiasse, “<strong>la formula</strong> ‘<strong>5 per 7</strong>’ <strong>rischierebbe di diventare una gabbia</strong>”, come lo è il classico “5 per 8” italiano.</p>
<p>In <strong>Belgio</strong> hanno provato a proseguire sulla strada tracciata dalla Francia adottando una legge che, in positivo, afferma il diritto del lavoratore alla settimana corta e che, in negativo, la intende come una redistribuzione delle 40 ore su quattro giorni. Ne viene fuori una giornata di lavoro tipo di 9,5 ore contestata anche aspramente dai sindacati belgi, che l’hanno giudicata priva di senso. O meglio, priva del senso che ha il taglio dei giorni di lavoro in relazione all’incremento della produzione.</p>
<p>Fausto Durante lo spiega così: “È acclarato che <strong>la produzione cala dopo la sesta ora di lavoro</strong>, e che la maggior parte degli <strong>incidenti</strong> o delle <strong>interruzioni</strong> della produzione sono <strong>concentrati nelle ultime due ore</strong>, aumentando i rischi per la salute di chi lavora e i costi a carico dell’azienda; ridurre i giorni a parità di orario favorisce la maggiore concentrazione del lavoratore, perché riduce il tempo complessivo della sua prestazione e gli offre maggiori opportunità di riposo e svago”. Al contrario, “prolungare l’orario giornaliero fino a nove ore e mezzo vuol dire incrementare anche gli incidenti e i blocchi”.</p>
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<h2 id="h-ribaltare-i-paradigmi-del-lavoro-per-superare-la-crisi-pandemica-e-quella-energetica">Ribaltare i paradigmi del lavoro per superare la crisi pandemica e quella energetica</h2>
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<p>Il legislatore belga ha provato a dare un colpo al cerchio e uno alla botte; di fatto, ha assecondato le <strong>resistenze delle grandi imprese</strong> a innovare l’organizzazione dei tempi di lavoro, ben presenti anche in Italia, ed emerse con chiarezza nella crescente <strong>avversione allo smart working</strong>, inteso come modello operativo innovativo e non come necessità indotta dalla pandemia. Proprio lo smart working è il caso più diffuso, ed è più opportuno definirlo “lavoro a distanza”, da revocare non appena si realizzano le condizioni per il rientro in fabbrica e in ufficio.</p>
<p>Così facendo, si neutralizza un altro degli asseriti vantaggi della settimana di quattro giorni (e dello smart working): la <strong>maggiore sostenibilità ambientale</strong> del processo produttivo. Lo hanno studiato e acclarato in <strong>Gran Bretagna</strong>, dov’è stata avviata una sperimentazione a cui hanno aderito 70 imprese di svariati settori merceologici, e circa 3.300 lavoratori. Uno dei primi effetti monitorati è stata la riduzione dell’impronta ecologica dei partecipanti all’iniziativa, derivante dalla riduzione dell’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici e privati. A questo vantaggio, anche economico per i lavoratori, si è aggiunto quello della <strong>riduzione delle spese per baby-sitter o badanti</strong>.</p>
<p>“La <strong>pandemia</strong> prima e la <strong>crisi energetica</strong> poi ci hanno posto la necessità di <strong>ribaltare i paradigmi produttivi </strong>usati fino a ora”, conclude Fausto Durante. “Lavorare un giorno in meno a parità di salario vuol dire migliorare la qualità della vita dei lavoratori migliorandone la produttività a vantaggio delle imprese. La pandemia, in particolare, ha riorganizzato anche la gerarchia dei valori di tanti, ed è anche da questo che discendono le dimissioni da lavori non più sostenibili o il rifiuto della precarietà e del lavoro povero”.</p>
<p>Messa così, il Reddito di Cittadinanza è l’ultimo dei problemi che le imprese e la politica sono chiamati a risolvere.</p>
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<p><em>Photo credits: infermieristicamente.it</em></p>


Lavoro, 4 giorni e 32 ore: se il fine settimana comincia giovedì

La settimana lavorativa corta approda anche in Italia dopo il successo delle sperimentazioni in Germania e in Francia: &#8220;300.000 posti di lavoro in più e produttività in crescita&#8221;. L&#8217;analisi di Fausto Durante, coordinatore della Consulta Industriale della CGIL e autore del libro &#8220;Lavorare meno, vivere meglio&#8221;.

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