Lavoro, 4 giorni e 32 ore: se il fine settimana comincia giovedì

La settimana lavorativa corta approda anche in Italia dopo il successo delle sperimentazioni in Germania e in Francia: “300.000 posti di lavoro in più e produttività in crescita”. L’analisi di Fausto Durante, coordinatore della Consulta Industriale della CGIL e autore del libro “Lavorare meno, vivere meglio”.

Il referendum a mezzo stampa sul Reddito di Cittadinanza è l’ennesima occasione persa, per il sistema economico italiano, per ragionare in modo serio e strategico sull’organizzazione della produzione e del lavoro nel terzo millennio. Per ammettere il fallimento della precarizzazione, spacciata per flessibilità, e aprire una nuova fase fondata sull’efficiente correlazione tra le componenti che generano i prodotti e i servizi. A partire dall’utilità effettiva del tempo trascorso al lavoro, su cui si fonda la proposta di ridurre i giorni della settimana lavorativa da cinque a quattro, e le ore da 40 a 32, a parità di retribuzione.

“La riduzione dell’orario è una proposta contenuta nel documento del prossimo congresso nazionale della CGIL e non era mai accaduto prima”, afferma Fausto Durante, coordinatore della Consulta Industriale della stessa organizzazione sindacale e autore di Lavorare meno, vivere meglio (Futura Editrice). Quanto sta iniziando ad accadere in Italia è già realtà in Francia, Spagna, Inghilterra o Belgio: sistemi politici ed economici in cui la sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro è passata dalla fase degli accordi aziendali – com’è in Italia – a quella della sperimentazione diffusa o della legislazione specifica.

4 giorni, 32 ore: lavorare di meno per produrre di più

All’origine della proposta 4 giorni – 32 ore c’è la presa d’atto del fallimento delle politiche del lavoro neoliberiste – quelle che hanno imposto orari lunghi, salari bassi e precarietà – tanto sul piano sociale che su quello propriamente economico. È un dato di fatto, ad esempio, che in Italia si registri un livello di produttività inferiore alla media dei Paesi dell’area Euro: ogni lavoratore produce annualmente una ricchezza valutata in 70.894 euro, molto meno dei lavoratori tedeschi (circa 80.000 euro) e ancora meno di quelli francesi (86.000 euro), e sempre al di sotto dei 76.000 euro di media.

Eppure i lavoratori italiani sono quelli che passano più ore (1.688,5 in media all’anno) nei luoghi della produzione tra i grandi Paesi dell’Unione europea, con la Germania ultima per tempo impiegato nel lavoro. E non per questo guadagnano di più: rispetto all’inizio del millennio, gli stipendi sono aumentati del 3,5% a fronte del 19% della Germania e del 24% della Francia (tutti i dati sono estratti dall’ultima indagine OCSE sul lavoro).

La produttività è determinata da una somma di fattori e non dal solo lavoro: meccanizzazione, digitalizzazione, ottimizzazione dei processi, efficienza organizzativa, logistica e quant’altro. Di certo i deficit accumulati in tutti questi segmenti della produzione sono stati scaricati sui lavoratori, bloccando la progressione retributiva e aumentando lo spazio della precarietà, oltre a quello dell’illegalità.

Fausto Durante, CGIL: “In Francia 300.000 posti di lavoro in più con la settimana corta”

Proprio la Francia, dove si guadagna mediamente il 24% in più di vent’anni fa, è stata la prima potenza economica a sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro: 35 ore spalmate su cinque giorni. I francesi stanno in ufficio o in fabbrica un’ora in meno al giorno rispetto agli italiani e questo ha generato “300.000 posti di lavoro in più nei primi cinque anni di applicazione della legge”, afferma Durante, “per la stragrande maggioranza negli stessi impianti che hanno applicato la norma e che hanno migliorato gli obiettivi di produzione”.

L’incremento dell’occupazione è proprio uno dei benefici che, a parere dei promotori della riforma, deriverebbero dalla riduzione dei giorni e delle ore di lavoro. Un esito negato da molti economisti che, al contrario, ritengono si possa generare un effetto contrario proprio a causa dell’asserito incremento della produttività derivante dalla maggiore efficienza di chi è meno stressato e stanco potendo lavorare un giorno in meno.

Obiezione rispedita al mittente dal coordinatore della Consulta Industriale della CGIL: “L’obiettivo di ogni azienda è incrementare il fatturato attraverso l’incremento dei beni prodotti o dei servizi forniti; ne consegue la necessità di nuove assunzioni per ottenerlo”.

Altro vantaggio dei 4 giorni – 32 ore è la riduzione del gender gap. Ancora in Francia si è verificato che i due terzi delle assunzioni connesse alla riduzione dell’orario hanno riguardato giovani e donne. Ridurre anche i giorni d’impiego avrebbe un ulteriore effetto positivo proprio per le donne, perché potrebbero superare il part time involontario, quello determinato dalle necessità di cura della famiglia che ancora grava in maggior parte sulla componente femminile, e ottenere un più soddisfacente e remunerativo tempo pieno.

Le storture della settimana lavorativa corta alla belga

Andare oltre il modello francese è l’obiettivo che si è posta la CGIL, e non solo, tirando le somme di un’esperienza avviata alla fine del secondo millennio.

“Quel tipo di orario è facilmente attuabile all’interno dell’industria classica”, spiega Durante. “Non ha molto senso se applicato alla new economy, che ha modificato radicalmente l’approccio all’organizzazione produttiva e alla gestione del tempo”. Se anche l’orario di lavoro non cambiasse, “la formula5 per 7rischierebbe di diventare una gabbia”, come lo è il classico “5 per 8” italiano.

In Belgio hanno provato a proseguire sulla strada tracciata dalla Francia adottando una legge che, in positivo, afferma il diritto del lavoratore alla settimana corta e che, in negativo, la intende come una redistribuzione delle 40 ore su quattro giorni. Ne viene fuori una giornata di lavoro tipo di 9,5 ore contestata anche aspramente dai sindacati belgi, che l’hanno giudicata priva di senso. O meglio, priva del senso che ha il taglio dei giorni di lavoro in relazione all’incremento della produzione.

Fausto Durante lo spiega così: “È acclarato che la produzione cala dopo la sesta ora di lavoro, e che la maggior parte degli incidenti o delle interruzioni della produzione sono concentrati nelle ultime due ore, aumentando i rischi per la salute di chi lavora e i costi a carico dell’azienda; ridurre i giorni a parità di orario favorisce la maggiore concentrazione del lavoratore, perché riduce il tempo complessivo della sua prestazione e gli offre maggiori opportunità di riposo e svago”. Al contrario, “prolungare l’orario giornaliero fino a nove ore e mezzo vuol dire incrementare anche gli incidenti e i blocchi”.

Ribaltare i paradigmi del lavoro per superare la crisi pandemica e quella energetica

Il legislatore belga ha provato a dare un colpo al cerchio e uno alla botte; di fatto, ha assecondato le resistenze delle grandi imprese a innovare l’organizzazione dei tempi di lavoro, ben presenti anche in Italia, ed emerse con chiarezza nella crescente avversione allo smart working, inteso come modello operativo innovativo e non come necessità indotta dalla pandemia. Proprio lo smart working è il caso più diffuso, ed è più opportuno definirlo “lavoro a distanza”, da revocare non appena si realizzano le condizioni per il rientro in fabbrica e in ufficio.

Così facendo, si neutralizza un altro degli asseriti vantaggi della settimana di quattro giorni (e dello smart working): la maggiore sostenibilità ambientale del processo produttivo. Lo hanno studiato e acclarato in Gran Bretagna, dov’è stata avviata una sperimentazione a cui hanno aderito 70 imprese di svariati settori merceologici, e circa 3.300 lavoratori. Uno dei primi effetti monitorati è stata la riduzione dell’impronta ecologica dei partecipanti all’iniziativa, derivante dalla riduzione dell’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici e privati. A questo vantaggio, anche economico per i lavoratori, si è aggiunto quello della riduzione delle spese per baby-sitter o badanti.

“La pandemia prima e la crisi energetica poi ci hanno posto la necessità di ribaltare i paradigmi produttivi usati fino a ora”, conclude Fausto Durante. “Lavorare un giorno in meno a parità di salario vuol dire migliorare la qualità della vita dei lavoratori migliorandone la produttività a vantaggio delle imprese. La pandemia, in particolare, ha riorganizzato anche la gerarchia dei valori di tanti, ed è anche da questo che discendono le dimissioni da lavori non più sostenibili o il rifiuto della precarietà e del lavoro povero”.

Messa così, il Reddito di Cittadinanza è l’ultimo dei problemi che le imprese e la politica sono chiamati a risolvere.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Photo credits: infermieristicamente.it

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