La settimana corta divide le aziende: 900 i contratti nazionali da rivedere

Le critiche delle associazioni di categoria: “Inapplicabile nelle microimprese, gli imprenditori non hanno vantaggi”. Ma c’è chi la pensa in modo diverso. Il parere di Pietro Vivone, presidente nazionale FedApi, e di Valeria Zamperi, HR.

La settimana corta è uno degli argomenti più chiacchierati dell’ultimo periodo, lavorare meno per lavorare meglio, anche se di concreti approfondimenti ancora non c’è nessuna traccia. Si rifà il trucco da mesi Carter & Benson, società di head hunting e consulenza per le imprese che, attraverso le interviste del CEO William Griffini, racconta di un esperimento possibile. Ma attenzione, dice Griffini, “sfatiamo un mito: è impossibile che le persone producano di più lavorando otto ore in meno”. Un’iniziativa, quindi, utile solo per migliorare reputazione e immagine aziendale. “L’organizzazione è applicabilissima e il modello replicabile ovunque, basta volerlo”, la sintesi.

In poche parole, bisognerebbe lasciar perdere la produttività. Certo, vallo a spiegare alle imprese manifatturiere, soprattutto con i chiari di luna di questo periodo. Forse è meglio chiarire che c’è un’enorme differenza tra società di consulenza con meno di cinquanta persone, spesso già (per caratteristiche) in regime di smart working, e organizzazioni complesse, magari di stampo produttivo. Non è un caso che altri due esempi pionieristici, segnalati sul sito pmi.it, siano TeamSystem, che si occupa di sviluppo software, e Velvet Media, realtà impegnata nel marketing. Tutti contesti flessibili per natura.

Passo oltre e provo, quindi, a comporre il numero di Confindustria, per capire l’aria che tira tra gli industriali. Mi rispondono che il tema non è all’ordine del giorno, e che sì, magari può essere utile per impianti energivori, come la fonderia per citarne uno, in un’ottica di risparmio sul caro bollette. Finché il ragionamento prosegue con lo scoglio più importante, a loro modo di vedere: difficile riparametrare quaranta ore settimanali dal lunedì al giovedì. Ma come? La logica della settimana corta prevede di tagliare otto ore, non di riparametrarle su quattro giorni.

La settimana corta contro i 900 contratti nazionali

Molto meglio prendere carta e penna e appuntarsi qualche elemento concreto. Secondo i dati del CNEL, in Italia oggi ci sono più di 900 contratti nazionali, ragion per cui già pensare a una sintesi di approccio sul tema, in questa selva infinita, è pura utopia. Uno zoom su alcuni di questi, tra i più rilevanti, permette però di ragionare su basi tangibili.

Pensiamo al commercio e alla distribuzione, che tra gli altri offrono la possibilità alle imprese di assorbire parte dei permessi retribuiti al fine di ridurre l’orario settimanale da quaranta a trentotto ore. È così impensabile, nei futuri rinnovi, trattare una condizione simile (magari togliendo altre due ore) senza assorbimenti sul monte ferie? Potrebbe essere una soluzione alternativa ai consueti e insignificanti aumenti contrattuali.

Più complicato ma interessante il campo dei cicli continui. Prendiamo il CCNL cartario. Un orario a tre turni sette giorni su sette, basato sia su un calcolo di sei giorni lavorati e tre di riposo che sul quattro/due o sul due/uno, porta già di per sé a una media di 37 ore e 20 minuti settimanali, retribuite 40. Per garantire il compenso completo si procede all’assorbimento dei permessi per riduzione orario ed ex festività. Addirittura, se un lavoratore presta servizio con questa rotazione ma su due turni, è costretto a prestare ulteriori cinque giornate lavorative annue.

Infine, per garantire la corretta composizione delle squadre, per ogni posizione lavorativa sono necessarie quattro persone e mezza. Ora, come si evince da questa descrizione, è possibile lavorare sull’organizzazione (è logico che non si può tagliare a metà una persona, ma è necessario ricorrere a ponderati extra-budget) e che la media ore è già da settimana semi-corta. Anche qui il tema, a mio avviso superabile, è l’assorbimento.

Pietro Vivone, presidente nazionale FedApi: “Inapplicabile nelle microimprese. Spingiamo piuttosto su rimodulazione degli orari”

Un ultimo dato da mettere a verbale, sempre riconducibile ai quasi mille contratti nazionali. L’Italia è un Paese di piccole e medie imprese, un calderone che accorpa il 92% delle aziende italiane e impegna l’82% dei lavoratori.

“La microimpresa, per capirci dai tre dipendenti in giù, è quella che oggi la fa da padrone. Aspetto da considerare quando si parla di settimana corta. È lecito dedurre che in questi contesti non è facile parlare di digitalizzazione, industria 4.0 e investimenti per cambiamenti culturali di questa rilevanza.”

Pietro Vivone è presidente nazionale di FedApi, Federazione Artigiani e Piccoli Imprenditori. “Come sindacato d’impresa abbiamo effettuato un’analisi profonda e credo sia opportuno differenziare le tipologie di attività. In alcuni settori è impensabile adottare questo criterio, piuttosto spingiamo sulla rimodulazione degli orari”.

Rimodulare gli orari significa riorganizzare ma mantenere lo stesso carico di lavoro. Perché nella manifattura interventi di questo tipo non sono realizzabili? D’altro canto lavorare su tecnologie e risorse umane è possibile. “Se devo fare le veci dell’imprenditore riconduco il tutto a un tema di costi. Magari lavorando meno mantengo la produttività ma, seguendo il ragionamento inverso, perché perdere l’opportunità di alzarla sensibilmente? Lato lavoratore: si potrebbe riassumere il full time su quattro giorni ma nessun dipendente vuole lavorare di più, se parliamo di ordinario”.

Ma l’idea, lo ribadisco, è lavorare di meno con lo stesso salario. “Se c’è supporto a livello governativo ci si può pensare, anche l’imprenditore ci deve guadagnare. Senza incentivi la trovo una strada non percorribile”. Provo a sottolineare i casi europei, chi un impianto lo sta sperimentando da tempo, dalla Gran Bretagna alla Francia, che ragiona sulla base delle sette ore giornaliere. Un punto di partenza replicabile e addirittura superabile, secondo la componente sindacale, CGIL in testa.

“Io però insisto nel rivendicare il punto dell’azienda. Riduco ore e riduco produzione: solo perdite. Diverso è il discorso rimodulazione, con mezz’ora in più al giorno e due in meno il venerdì. Ridurre le ore a parità di stipendio, in questa fase, significa alzare tensione sociale. Non so se CGIL se ne rende conto. Il tasto da battere è senz’altro quello della sicurezza, l’ottava ora è quella più a rischio per gli operai di produzione, non la produttività. Una vittoria per tutti, e una buona mediazione, potrebbe essere la riduzione delle ore settimanali da 40 a 38.”

Con assorbimento delle ferie? “No, senza”. Bene, almeno una piccola apertura l’ho ottenuta.

Valeria Zamperi: “Settimana corta evoluzione dello smart working. Ma il cambiamento dovrebbe essere sistemico”

Forse, però, è opportuno sentire anche il parere di chi vive le organizzazioni dall’interno. Valeria Zampieri vanta un’esperienza pluriennale nella gestione e nello sviluppo del personale di aziende produttive, tra Emilia-Romagna e Veneto, anche su turni e ciclo continuo.

Io sono favorevolissima, non vedo alcun tipo di catastrofe nell’attuare un cambio organizzativo così. Certo è che dovrebbe essere sistemico. Mi spiego: se domani la mia azienda si ingegna sulla settimana corta ma tutto l’ecosistema che le gira attorno non è sulla stessa lunghezza d’onda, le conseguenze rischiano di non essere semplici da supportare. Clienti, ad esempio, che si aspettano consegne il venerdì, quindi il magazzino da riorganizzare sulle presenze, i rapporti con i fornitori che cambiano e via dicendo. Se il paradigma lo adotta tutto l’indotto che ti gira attorno, allora la strada è tracciata. D’altronde la settimana corta è già sperimentata in Europa, e spesso il loro mercato del lavoro funziona meglio del nostro. Pertanto, perché no?”

Un pensiero quasi più in linea con il sindacato che con le associazioni di categoria. “Trovo la settimana corta una fisiologica evoluzione, con il suo corso di realizzazione, dello smart working. Non ho preclusioni e non è blasfemia parlarne all’interno delle aziende. Certo, dev’essere un processo culturale e, come detto, sistemico”.

Pur se le associazioni di categoria remano contro. “Anche la questione del peso economico dell’operazione va analizzata nel dettaglio. Con il rincaro energetico chiudere un giorno, laddove possibile dal punto di vista degli impianti, non so quanto sia deleterio. Si può pensare a una transizione sulla semi-corta con fermo all’una del venerdì o ad altre soluzioni. Rifiutare a priori e opporsi in maniera calvinista non serve. Infine, dal nostro osservatorio le giovani generazioni considerano la bilancia vita lavoro ancor più importante dell’aspetto salariale. Per cui attenzione a chi guida il vero cambiamento. Le associazioni di categoria non devono avere paura di dire qualcosa controcorrente ,ma tornare a essere bussola e faro”.

Il dibattito, a questo punto, è aperto.

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Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Photo credits: contecaqs.it

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