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Gigi De Palo, Stati Generali della Natalità: “La politica fa solo tavoli e riunioni, l’emergenza demografica si risolve dando continuità”
Il presidente della Fondazione per la natalità, intervistato da SenzaFiltro, fa il punto sulla questione demografica italiana: nascono la metà dei figli che si desidererebbe fare, in un Paese in cui averne è la seconda causa di povertà per via di una totale assenza di cultura del lavoro, dei diritti e dei salari
Con questa intervista, il nostro giornale inaugura un filone tematico per approfondire il rapporto tra demografia e lavoro in Italia.
Ai temi della famiglia si è convertito in corso d’opera, vivendo, incontrando la donna che è sua moglie. Il sogno da ragazzo era occuparsi dei problemi che stanno a sud del mondo, da giornalista il suo scopo era quello. Mi racconta che anche i figli sono arrivati senza troppi progetti, e ne sono arrivati cinque. Una quindicina di anni fa è stato assessore alla Famiglia, alla scuola e ai giovani per il Comune di Roma: venendo dal mondo associativo come presidente delle ACLI, gli era stato assegnato un incarico tecnico.
Con Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la natalità, cerco di tradurre su un piano politico e sociale quello che, altrimenti, le statistiche gridano solo coi numeri e coi dati, che pure servono ma da soli non bastano. Agli Stati Generali della Natalità dello scorso anno ci era andato giù pesante come serve in emergenza – e, dal punto di vista demografico, l’Italia lo è – chiarendo che a breve crolleranno il PIL, il welfare, il sistema pensionistico e quello sanitario se non ci diamo una mossa a mettere le politiche demografiche al centro delle riforme. Ma l’intuizione più efficace era stata dire dal palco che il nostro PNRR non prende affatto in considerazione il problema: De Palo lo aveva letto e riletto, quel Piano tanto sbandierato dalla politica e dai media, studiato tra le righe, ma senza riuscire a trovarci nemmeno una parola che imprimesse la volontà di un’inversione di rotta.
Ci sentiamo che mancano due giorni alla prima data 2024 degli Stati Generali da lui ideati – in plenaria a Roma il 9 e 10 maggio prossimi per la terza edizione, ma al via oggi a Bologna per una delle cinque tappe itineranti sui territori regionali – e gli dico subito che vorrei portarlo su un’intervista senza sconti, senza logiche di partito o schieramento, e che l’obiettivo è capire con lui se ci sono questioni che dal palco di un festival come il suo si possono dire o non dire.
“Parto da un dato, non tanto perché senza numeri non capiamo la portata del problema, ma perché è un dato che racconta la profondità di un sentimento: le donne italiane, misurate dai sondaggi, avrebbero come desiderio di mettere al mondo 2,4 figli; di fatto ne nascono 1,2 come media. Dice subito la carenza di una concretizzazione imputabile alla difficoltà di conciliare vita e lavoro, scelte e restrizioni, vita privata e ruolo sociale”.
Le questioni demografiche, tanto quanto le dinamiche legate al lavoro, continuano a essere gestite come un fatto partitico e non politico. E i giornalisti ci mettono il carico.
In Italia ci spacchiamo su tutto, spesso in modo non pacato e ragionevole come dovrebbe essere invece qualsiasi confronto civile. Siamo bravissimi a fare le analisi, che è la cosa più semplice perché l’analisi è un processo neutro, ma ci perdiamo quando si tratta di fare le sintesi, che sono il primo atto delle scelte politiche. Agli Stati Generali tentiamo questo, mettere insieme tutti: dai governi alle opposizioni, dalle banche ai sindacati, dalle aziende ai media. Siamo tutti convocati perché i partiti passano e se ne vanno ma, quando si parla di natalità e demografia, i problemi restano da qui ai prossimi trent’anni e ci toccano tutti.
Provo a tradurre. Gigi De Palo non è l’uomo che dice all’Italia dovete fare più figli.
La questione centrale è che chi vuole metterli al mondo spesso non è in condizione di farlo e non per sua scelta. Se in Italia la scelta di mettere al mondo un figlio è la seconda causa di povertà, capiamo bene che non siamo in un sistema di libertà, non mettiamoci in bocca questa parola che abbiamo svuotato di significato. Stiamo dicendo ai giovani che per loro il futuro è o restare qui e vivere in un Paese indebitato, invecchiato, senza diritti effettivi, oppure andarsene.
In Germania e in Francia, dove da trent’anni si è capito che le politiche demografiche sarebbero state vitali per la sopravvivenza a partire da lavoro e mercato, i dati di oggi confermano che la crisi è superata. Dove si inceppa il sistema italiano?
Da noi fare politica è diventato solo commentare pubblicamente su un giornale o in televisione i dati ISTAT facendo credere che, siccome ne parlano, sembra che se ne stiano occupando. Non è così, la politica è un’altra cosa. La politica è stare tutti i giorni su quel tema, faticando. Il problema è che in Italia si fanno tavoli che durano più e più incontri, si parla e riparla ma non si tende all’obiettivo. Faccio un esempio: per cambiare il sistema fiscale e renderlo più equo per le famiglie, il quoziente famigliare che ogni tanto si nomina qua e là senza continuità, di fatto non viene reso oggetto di discussioni e incontri costanti, prolungati, efficaci, per arrivare a definirlo. Le riforme serie richiedono impegno, proposte, confronti, simulazioni, coinvolgimento di più ministeri, ricerca di efficienza dentro la macchina politica e amministrativa. In Italia manca il lavoro serio dopo le troppe riunioni.
Neanche le alternanze politiche così frequenti aiutano.
Gli italiani hanno la mania di vivere l’alternanza come occasione per fare tabula rasa di chi li ha preceduti, buttando via anche il buono. Il danno è che quasi sempre non ci mettono niente di proprio, niente di nuovo, tolgono e basta pur di imporre una linea, non hanno come obiettivo il buon vivere della comunità.
Gli Stati Generali 2024 cercheranno di unire i territori regionali col centro della politica. C’è una ragione nel partire da Bologna?
È la prima città che si è resa pronta e disponibile, nessun’altra ragione. Poi ci saranno Milano, Palermo, Roma sempre a livello locale e regionale. Intanto ballano Napoli o Venezia che presto definiremo. Queste tappe intermedie prima della plenaria servono non solo a raccogliere riflessioni e proposte, ma soprattutto a incontrare istituzioni di colori politici diversi, che non è poco.
Per tirare un sospiro di sollievo sul piano socioeconomico, l’ISTAT ripete che dovremmo arrivare a 500.000 nuovi nati entro il 2033. Una lotta tra tempo e cultura?
Non sempre abbiamo a disposizione il tempo che ci serve per mettere in atto trasformazioni così radicali in caso di situazioni al limite. È un po’ quello che stiamo vivendo, dato che al momento siamo appena a 292.000, a breve usciranno dati purtroppo ancora peggiori, con solo centomila nascite in più, che vuol dire previsioni ampiamente al di sotto dei 400.000.
Quando il dibattito pubblico tocca i nervi scoperti del problema, di solito esce fuori la questione immigrazione. Non è però che possiamo tirarla in ballo a comando, quando serve a far tornare i conti. Che ne pensa?
Anche qui l’Italia è immersa in questioni per lo più ideologiche e non comprende davvero gli equilibri, per poi trovarsi a dire da un lato chiudiamo i porti e, dall’altro, facciamoli entrare tutti, oppure a ridurre il dibattito sempre a immigrati sì, immigrati no. Non possiamo pensare, come molti dicono, che bisogna far entrare gli immigrati per farci pagare le pensioni, è fortemente discriminatorio ragionare così. Le persone che scappano dai loro Paesi per ragioni legittime possono essere una iniziale soluzione per noi, ma solo per tamponare il problema; è la scorciatoia di chi pensa che con gli immigrati si risolverebbe la questione demografica. E c’è un tema su tutti che lo conferma: gli stessi immigrati, una volta entrati in Italia, iniziano a fare meno figli. Come in altri Paesi europei va messo in campo un buon piano che sappia mediare tra integrazione e ampliamento della presenza di stranieri, perché non possiamo non guardare in faccia ciò a cui stiamo andando inesorabilmente incontro: entro il 2050 ci mancheranno circa otto milioni di lavoratori. Dire che ci possiamo salvare solo grazie agli immigrati significa togliersi responsabilità politiche: il rischio è immaginare, come la chiamo io, una pericolosa colonizzazione previdenziale.
Al tempo stesso non sappiamo trattenere i nostri cittadini, per lo più under 30.
L’altro danno italiano sta qui: entrano immigrati il cui profilo professionale spesso non è particolarmente qualificato – certo, ci sono anche persone preparate e professionalmente valide – ed escono laureati e ricercatori, o comunque persone sulla cui formazione abbiamo a lungo investito. L’impoverimento di un Paese non si misura solo sul piano economico ma anche e soprattutto sul piano culturale e professionale. E l’Italia questo non l’ha ancora capito.
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