Lavori usuranti tra sblocchi previdenziali e zone grigie

Definire cosa significa svolgere un lavoro usurante è missione alquanto complessa, che oggi né i sindacati e neppure il governo sono riusciti a risolvere. Eppure, i tentativi di dare una circoscrizione a una materia così articolata sono stati molteplici, soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni. La categoria di coloro che svolgono attività particolarmente gravose rientra nella […]

Definire cosa significa svolgere un lavoro usurante è missione alquanto complessa, che oggi né i sindacati e neppure il governo sono riusciti a risolvere. Eppure, i tentativi di dare una circoscrizione a una materia così articolata sono stati molteplici, soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni. La categoria di coloro che svolgono attività particolarmente gravose rientra nella fattispecie giuridica dei lavoratori precoci. Il decreto, approvato dal Ministero del Lavoro lo scorso 20 settembre e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 3 ottobre, definisce meglio la fattispecie relativa alla concessione della pensione anticipata per gli addetti a lavori particolarmente usuranti. Vengono modificati alcuni aspetti previsti dalla legge n.67/2011, che già prevedeva “lo svolgimento di almeno sette anni, compreso l’anno di maturazione dei requisiti, negli ultimi dieci anni di attività lavorativa, per le pensioni aventi decorrenza entro il 31 dicembre 2017” oppure “almeno la metà della vita lavorativa complessiva, per le pensioni aventi decorrenza dal 1° gennaio 2018”.

Per quanto riguarda l’età pensionabile, la legge alzava la soglia a 61 anni, in anticipo di tre anni rispetto a tutti gli altri lavoratori dipendenti, e con un versamento di 35 anni di contributi minimi. Cerchiamo di capire quali sono gli aspetti che davvero cambieranno con questo nuovo decreto ministeriale, alla luce del quadro di copertura finanziaria che potrebbe delinearsi nella Legge di Bilancio 2018.

Dal lavoro precoce a quello gravoso. Tutti i requisiti per chiedere l’anticipo pensionistico

“La pensione anticipata è quella che viene erogata indipendentemente dall’età, e i requisiti oggi sono 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne” spiega Paolo Zaniesperto in materia previdenziale con una lunga esperienza nel Patronato INAS. “La Legge di Bilancio 2017 ha previsto una particolare categoria, quella dei lavoratori precoci, ossia coloro che hanno iniziato a lavorare con contribuzione effettiva pari a un 1 anno (52 settimane) prima del compimento del 19esimo anno di età (quindi a 18 anni e 365 giorni), escludendo la figurativa o altre forme di contribuzione”, continua Zani.

“Questa categoria di persone – aggiunge – può accedere al pensionamento con soli (si fa per dire) 41 anni di contribuzione. Quando è stata istituita questa norma, ossia con la Finanziaria 2017, sono stati previsti anche alcuni requisiti, ossia: aver usufruito dell’indennità di disoccupazione; assistere da almeno 6 mesi il coniuge o un parente di primo grado portatore di handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3 della legge 104; avere un grado di invalidità civile riconosciuta pari al 74%; infine, essere lavoratori addetti a particolari attività cosiddette gravose» afferma il sindacalista.

Le quattro nuove categorie previste nella Finanziaria 2018

L’attuale Legge di Bilancio individua le 11 categorie, peraltro già iscritte nell’elenco istituito dall’INAIL per le quali è prevista anche una indennità di malattia professionale, nel caso di una accertata concausa tra la patologia insorta e i fattori correlati all’ambiente o alla tipologia di lavoro svolto.

Queste categorie sono gli operai dell’industria estrattiva, dell’edilizia e della manutenzione degli edifici; i conduttori di gru, di macchinari mobili per la perforazione delle costruzioni; i conciatori di pelli e pellicce; i conduttori di convogli ferroviari e personale viaggiante, i conduttori di mezzi pesanti e camion; il personale delle professioni sanitarie, infermieristiche e ostetriche ospedaliere con lavoro organizzato a turni; gli addetti all’assistenza del personale in condizioni di non autosufficienza; gli insegnanti della scuola media dell’infanzia e gli educatori degli asili nido; i facchini, gli addetti allo spostamento merci ed assimilati; il personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia; infine gli operatori ecologici e gli addetti allo smaltimento, raccoglimento e separazione dei rifiuti.

A queste si aggiungono altre quattro categorie che dovrebbero essere recuperate con la Legge di Bilancio 2018, e sono, come ci spiega Paolo Zani “gli operai e i braccianti agricoli, i marittimi e gli addetti alla pesca, i siderurgici di prima e seconda fusione, i lavoratori del vetro e gli addetti ai lavori ad alte temperature”.

“Quando è venuto fuori il ragionamento dell’innalzamento dell’età pensionabile legata all’aumento dell’aspettativa di vita – precisa l’esperto previdenziale – questo meccanismo, che peraltro era già stato introdotto nel 2009, prima della legge Fornero, prevedeva una doppia dinamica: quella dell’età pensionabile e quella dei requisiti per l’accesso al pensionamento.”

“Si correva il rischio che oltre all’età pensionabile venissero innalzati anche i requisiti per il pensionamento. E infatti nel 2019 non basteranno più 42 anni e 10 mesi di contributi versati, ma ce ne vorranno 43 e tre mesi per gli uomini, e un anno in meno per le donne. A seguito di una discussione tra governo e Sindacati, è venuta fuori l’ipotesi di estendere ad altre categorie che manterranno il requisito dei 41 anni di contributi. Queste categorie, inoltre dovrebbero essere escluse dall’innalzamento dell’età pensionabile e del requisito contributivo per la pensione anticipata”, chiosa Zani.

Lavori usuranti, non ci sono criteri univoci

La materia previdenziale per quanto riguarda la categoria dei lavoratori precoci, e in particolare di coloro che svolgono mansioni particolarmente gravose, è molto ostica: non sempre è facile delineare quali sono i requisiti affinché si possa associare al lavoro svolto un determinato stress fisico, psicologico ed emotivo, tale da compromettere la qualità della vita, e quindi dell’anzianità; ancor di più se in prospettiva di pensione anticipata rispetto all’aspettativa di vita.

“Il problema lo si è sempre posto, ma non si è riusciti a risolverlo concretamente, anche perché le sfumature sono tante, e vi è il rischio che all’interno delle 11 categorie già previste dalla legge, e anche delle quattro che saranno introdotte nel 2018, vi sia chi non ha mai svolto un lavoro usurante” chiarisce il sindacalista.

Tra le categorie che non trovano una piena definizione nell’elenco vi sono gli addetti alla manutenzione del manto stradale, che “dovrebbero essere inseriti nella categoria dei lavoratori edili, ma nel decreto non è specificato”, spiega Zani. Oppure il lavoro del “necroforo” o del “seppellitore dei morti”, che anche in questo caso non trova piena esplicitazione nel decreto del Ministero del Lavoro. “Le norme, così come sono state scritte, non sono univoche” aggiunge.

Complice da un lato è la cavillosità della normativa italiana, che non ha reso facile individuare chi ha diritto o meno alla pensione anticipata, e dall’altro la volontà di lasciare sul vago una materia così complessa, forse intenzionalmente. Del resto, magari è davvero un compito delicato tracciare confini netti a favore di quei lavoratori che, rispetto ad altri, meritano determinate agevolazioni in termini previdenziali. Un problema di non facile soluzione anche individuare e circoscrivere, all’interno di una stessa categoria, chi effettivamente svolga un’attività che provoca una compromissione dello stato di salute psicofisica ed emotiva.

La difficoltà maggiore sta non solo nell’individuare se chi ha svolto l’attività rientra o meno nelle 11 categorie già stabilite e nelle quattro che saranno definite con la prossima Legge di Stabilità 2018, ma anche di comprendere se prima di presentare la domanda per accedere alla pensione anticipata vi sia stata o meno da parte del lavoratore precoce la continuità dei versamenti contributivi negli ultimi sette anni sugli ultimi dieci di lavoro effettivamente svolto.

Lavori usuranti non riconosciuti. L’inferno di alcune categorie professionali

Alle anomalie delle categorie già descritte si aggiungono lavoratori che vivono in un tragico teatro dell’assurdo. È il caso dei camionisti, che sulla carta – e anche a rigore di logica, per lo sforzo fisico e psicologico a cui sono sottoposti – dovrebbero essere inseriti nell’elenco, ma nella pratica ciò non è mai accaduto. Ne è testimone Srdjan Sergio Grujic, di provenienza montenegrina, che dal 1993 vive in Basilicata, dove lavora presso una nota ditta di autotrasporti.

Grujic ci spiega alcune delle più gravi ingiustizie che la categoria degli autotrasportatori sta vivendo, soprattutto negli ultimi dieci anni. “A differenza degli autisti di pullman, noi, conducenti di camion, non siamo stati annoverati nella categoria dei lavoratori usuranti. Ai primi è stato riconosciuto il fattore dello stress, perché sono sempre a contatto con la gente, mentre noi, che viviamo in solitudine, carichiamo e scarichiamo il camion al caldo e al freddo, sotto l’acqua e sotto la neve, non abbiamo avuto nessun riconoscimento come lavoratori usuranti”.

“La differenza sostanziale sta nel fatto che gli autisti dei pullman viaggiano in due, per lo più è prevista la doppia guida, e chi fa turismo pernotta anche in albergo. Il Camionista vive nel camion giorno e notte (escluso il lavoro locale), non può disporre liberamente del suo tempo di riposo, ed è sottoposto a stress ed alimentazione irregolare: non ha più una vita privata, e vive nella solitudine e nella sofferenza emotiva”.

Grujic: “Sul settore un totale disinteresse delle associazioni di categoria”

Oltre al danno la beffa: gli autotrasportatori non sono per la legge una categoria che può rientrare nella lavorazione gravosa, ma non sono neppure stati annoverati nella categoria dei mestieri che prevedono la soglia di pensionamento a 67 anni. I camionisti si trovano quindi a vivere in un drammatico limbo, nel quale non riescono a trovare il giusto e legittimo inquadramento. Un’illogicità che getta la categoria nel totale sconforto, in quanto non riesce a trovare interlocutori neanche in quei corpi istituzionali e sociali che dovrebbero tutelarli dagli abusi, e che invece cavalcano l’onda del disagio per fare vertenze e picchettare i cancelli per interessi differenti dalla tutela delle condizioni di lavoro degli autotrasportatori.

“Il disinteresse verso questo settore è evidente, sia da parte del governo sia da parte delle associazioni, che combattono le ingiustizie solo con i titoli. Mai come oggi, gli autisti dovrebbero essere a fianco ai loro datori di lavoro, vista la gravissima situazione che il trasporto nazionale sta cercando di superare senza successo” testimonia l’autotrasportatore. Una situazione che rischia di diventare un vero e proprio inferno, che va ad aggiungersi a una crisi storica di un settore 22 volte più grande di Alitalia. Negli ultimi anni la filiera ha perso 250.000 unità lavorative, a causa delle più grandi evoluzioni storiche segnate dal Trattato di Schengen, che ha previsto, in seguito alla inadeguata legislazione, l’apertura delle frontiere e la libera circolazione di merci, esponendo le imprese nazionali ad un’avida e sleale concorrenza dell’est.

Camionisti, una soluzione ideale

Secondo Grujic, il settore è molto delicato e andrebbe completamente riformato.  “Lavorare su un camion a 65 anni non è facile. Bisogna salire sulle ginocchia e legare il carico, sopportare lo stesso ritmo e stile di vita di chi svolge questo mestiere ad una età inferiore”.

È un peso troppo grande continuare a lavorare in condizioni massacranti. Una valida proposta per risolvere questa odissea, almeno in termini previdenziali, potrebbe essere quella di fissare un limite di età a 60 anni, e impiegare una parte di camionisti, anche part time, nella formazione delle nuove leve. La loro esperienza sarebbe utile per i giovani che vogliono intraprendere questo mestiere, ma purtroppo non ne hanno gli strumenti perché le imprese, già dopo tre mesi dopo aver conseguito la patente, li lanciano allo sbaraglio, sulle strade italiane ed internazionali.

Operatori marittimi e della pesca, fra le categorie riconosciute come usuranti

Tra le categorie che invece verranno inserite negli elenchi a partire dal 2018 c’è quella degli operatori marittimi e della pesca; un’altra fra le attività che sottopongono il corpo e la mente a sforzi che con gli anni rischiano di compromettere lo stato di salute. Piero Forte e Francesco Zizzo rappresentano il duplice volto di questa categoria che a tutti gli effetti svolge un’attività usurante; il primo rappresenta la parte datoriale della pesca, che conosce molto bene i risvolti contributivi e previdenziali di questo lavoro; il secondo è un operatore della pesca, uno di quelli che si alza all’alba per imbarcarsi e portare a casa la pagnotta. Un lavoro duro che lo conduce a vivere lunghissime ore della giornata fuori casa, in mezzo al mare, spesso in totale isolamento.

“Il pescatore svolge a bordo, sin da giovanissimo, una mansione pesante sia  manipolativo che motorio, per tutte le attività connesse all’uso degli attrezzi e strumenti di lavoro” dice Piero FortePresidente Regionale di Anapi Pesca Sicilia, l’associazione che rappresenta proprio gli interessi, i diritti e i doveri dei piccoli Imprenditori della Pesca. “Basti pensare al marinaio-motorista che dopo anni di lavoro inizia a soffrire di ipoacusia a causa del continuo rumore dell’apparato motore, come anche il costante rollio dell’imbarcazione. Tutti fattori, uniti ai lunghi orari in cui opera il pescatore, in condizioni spesso di vento, pioggia, temperatura elevata e sbalzi climatici, che a lungo andare logorano il fisico e la mente oltre a provocare un invecchiamento precoce della pelle, continuamente esposta ad agenti esterni e a fenomeni naturali meteo-marini e climatici”, incalza Forte.

Piero Forte: “Aspettiamo ancora il riconoscimento di alcune malattie professionali”

In merito all’attuale decreto proposto dal Ministero del Lavoro e che potrebbe trovare conferma nella copertura finanziaria 2018, c’è un moderato ottimismo da parte degli operatori del comparto marittimo, che aspettano di veder accolte le richieste che da diversi anni inoltrano al Governo. “Da diversi anni, sin dal 2010, la nostra Associazione datoriale a livello nazionale ha chiesto che il lavoro del pescatore venisse inserito tra i lavori usuranti per usufruire dei benefici di legge” spiega il rappresentante di categoria.

“A tal proposito sono state presentate nelle sedi istituzionali competenti, come le Commissioni Parlamentari di Camera e Senato, motivate relazioni e proposte di legge che intendono modificare le norme vigenti”, rivela Forte. “Riteniamo, però, che ci sia stato uno scarso interesse e una non adeguata attenzione da parte del legislatore e degli Organismi competenti nei confronti del comparto marittimo della pesca professionale. Speriamo adesso, ai fini pensionistici ma anche previdenziali-assistenziali e sociali, che sia giunto il momento, dopo decenni di attesa, di intervenire su aspetti importanti a tutela della vita e della dignità lavorativa del pescatore”.

“Da rappresentante di Associazione di categoria – aggiunge il lavoratore – auspico che il decreto del Ministero del Lavoro trovi rapida applicazione ed esecutività nei confronti degli operatori interessati. Aspettiamo, ancora, il riconoscimento di alcune malattie professionali come ad esempio la sordità-ipoacusia non ancora riconosciute dall’INAIL ai pescatori imbarcati con la qualifica di motoristi, a differenza di altri settori professionali” conclude Piero Forte.

Francesco Zizzo: “Abbiamo un alto tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro”

Un moderato ottimismo avvalorato anche da Francesco Zizzo, che in quanto lavoratore ogni giorno impegnato nel mestiere della pesca, grazie alla sua esperienza presenta il polso della situazione. “Il lavoro svolto dalla categoria è da sempre altamente usurante e per vari fattori. In primis, a differenza di altre attività, viene svolto in un elemento, il mare, che per sua natura è instabile e soggetto a repentini mutamenti, che spesso sono stati e sono causa di perdite di vite umane. Abbiamo un alto tasso di mortalità”, sentenzia Zizzo.

“Gli infortuni, a volte anche gravi, sono frequenti e non sempre riconosciuti da un sistema normativo di previdenza” aggiunge con rammarico. “La legge n° 250/58 – quella della piccola pesca per gli imbarcati sulle barche inferiori alle 10 tonnellate stazza lorda – è priva di ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione (CIG) e la disoccupazione (DS), e andrebbe rivista, se non addirittura abolita. Il settore dovrebbe essere tutto inquadrato con la legge n° 413/84 – applicata ai marittimi imbarcati sulle barche da pesca di stazza superiore alle 10 tonnellate stazza lorda – che garantisce condizioni socio-economiche migliori; sia dal punto di vista contrattuale che assistenziale: malattie e infortunio, CIG e DS” descrive il pescatore.

Pescatori e marittimi con contratti minimi rivendicano più di un meritato riposo

Strettamente correlato al discorso previdenziale vi è quello contributivo, il cui quadro per la categoria è ancora incerto. “Il lavoro a bordo di una barca da pesca, anche se contrattualmente definito e parametrato dalla contrattazione nazionale di lavoro, in realtà sfugge ai limiti imposti da essa. Abbiamo un contratto ‘alla parte’ basato sull’applicazione di un minimo monetario garantito mensile. Tutto ciò costringe l’armatore (molto spesso anche proprietario e imbarcato) a rischiare e operare anche in condizioni meteo non favorevoli. Questo è causa di logoramento, sia fisico che mentale”.

“Basta guardarci in volto, a noi pescatori, per capire che a 50/55 anni abbiamo maturato un’intera esistenza lavorativa, tale da vedere riconosciuto quel sacrosanto diritto ad avere un po’ più di un meritato riposo”. Per non parlare degli stipendi che sono fissati in base a una legge nazionale del 1958, che stabilisce una pensione minima pari a 480 euro mensili. Una retribuzione che non può neanche lontanamente garantire la sopravvivenza di una famiglia.

Chi lavora nelle marinerie italiane non ha orari fissi

“Quelle italiane si connotano per essere marinerie in cui si pratica la “polivalenza di mestiere”, molto spesso legata a una stagionalità. Questo fa sì che chi esercita l’attività di pesca professionale spessissimo è un lavoratore che non ha orari fissi – sa quando esce ma non sa quando ritorna – ed è costretto a fare battute di pesca durature, nelle quali deve convivere con l’elemento mare.”

“Provate a stare una settimana a bordo di uno strascico d’altura con mare forza 4/5, o su un palangaro derivante d’altura, e in entrambi i casi a lavorare in pessime condizioni non solo marine, ma di pioggia, vento e quant’altro, tutto questo per dodici, ventiquattro, trentasei ore di fila. Quando si ritorna a casa tiriamo tutti un sospiro di sollievo, e le nostre donne ci attendono nei porti, a volte con i figli, ansiose e felici di averci rivisto, anche se sanno che la scena si ripeterà. È il mestiere. Il mare, che tanto amiamo, alla lunga ti logora, ti ricama un volto di sofferenza. È il prezzo che dobbiamo pagare per lo smisurato amore che i nostri padri ci hanno tramandato”, conclude Francesco Zizzo.

Infermieri, una situazione previdenziale più chiara con alcuni vincoli

Una situazione molto più delineata è quella delle categorie infermieristiche, almeno sulla carta, dovrebbero avere delle agevolazione dal Decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 20 settembre, anche se non è chiaro ancora quali saranno gli effettivi cambiamenti che il settore avrà in termini previdenziali. Si dice che particolarmente interessati dalle agevolazioni previste per il lavoro usurante saranno gli infermieri che svolgono l’attività in sala operatoria o in emergenza-urgenza. Un’attività che, oggettivamente, comporta un carico di responsabilità ancora maggiore, ma allo stadio attuale sembra che il provvedimento potrebbe essere applicato a tutta la categoria infermieristica, e non a settori particolari.

Luigi Abate è un infermiere che svolge l’attività libero professionale da 15 anni, e per poco più di quattro anni ha lavorato in un ente pubblico. Non ha riscontrato differenze tra attività pubblica e privata, se non per quanto riguarda il versamento dell’aliquota che nel lavoro dipendente è leggermente più alta. Il suo, come quello di molti altri infermieri professionali che lavorano a contatto con situazione delicate, è definibile un’attività estenuante dal punto di vista fisico, ma soprattutto psico-emotivo, in quanto ogni minuto, anzi ogni secondo all’interno di un intervento di pronto urgenza, può essere “provvidenziale” per salvare una vita umana.

Luigi Abate (infermiere): “Bisogna verificare la copertura  finanziaria”

“Per noi infermieri, esiste una duplice valenza in termini di previdenza. Da un lato c’è il lavoro dipendente sia pubblico che privato è stato ormai unificato e fa riferimento all’INPS. In questo caso, bisogna vedere in che modo l’Ente potrà far fronte economicamente alle agevolazioni che dovrebbero venirsi a determinare” continua l’infermiere. “Dall’altro lato, esiste l’ENPAPI, l’Ente di Previdenza di chi svolge l’attività libero-professionale che dovrebbe avere la copertura poiché, essendo molto giovane rispetto all’INPS, copre tanti lavoratori attivi e ancora pochi pensionati“. La prospettiva pensionistica  per gli infermieri dunque, secondo Abate, non si prospetta affatto negativa, anche ai fini del riconoscimento come “lavoro usurante” e alle relative agevolazioni previdenziali che potrebbero derivare da una revisione della materia, purché si riconosca che esistono dei vincoli.

“L’ENPAPI investe l’incasso delle quote previdenziali che vengono versati dagli iscritti. Questi investimenti portano a delle entrate in termini di rendimento, ma non tutto questo rendimento può essere ancora una volta reinvestito in termini di valutazione del montante contributivo. Ciò va a limitare le modalità con cui l’ente può decidere di riutilizzare i proventi di questi investimenti in funzione di eventuali agevolazioni fiscali e pensionistiche” precisa l’infermiere.

Alcuni dubbi permangono anche sulla soglia di età in cui sarà possibile andare in pensione. “Ad oggi l’età per andare in pensione è a 65 anni, con una distinzione tra pensione di vecchiaia e di anzianità, per cui per noi è previsto il versamento di almeno 42 anni di contribuzione legato al raggiungimento dell’età, con i vari scatti previsti dalle norme attuali. “In questi casi, non è chiaro come sarà applicato l’esonero dello scatto a 67 anni, visto che sarà considerata una categoria usurante” chiude il discorso Luigi Abate.

 

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