Giornalista, dimmi come mangio. L’informazione sul cibo di cui abbiamo bisogno

Lo storytelling sul cibo non basta più: dopo la pandemia il pubblico richiede un’informazione di qualità, che il giornalismo di settore ancora fatica a dare.

La pandemia ha fatto crescere la richiesta di informazione documentata sul cibo: uno dei tanti fenomeni da cui non torneremo più indietro. L’ignoranza che quasi tutti noi abbiamo sui temi alimentari con il lockdown si è fatta, timidamente, consapevolezza. E abbiamo voluto colmare questo buco.

L’informazione documentata non è solo un’informazione verificata attraverso l’incrocio delle fonti, ma è un’informazione che vuole essere di approfondimento; che spiega le premesse scientifiche e tecnologiche di un accadimento o di una tendenza. È un’informazione che parte dalla voglia di apprendere del giornalista.

Con il COVID-19 i cittadini hanno compreso quanto sia importante un’informazione da fonti affidabili (non è solo per la chiusura delle edicole che sono cresciuti gli abbonamenti ai quotidiani online). E hanno anche consumato molti più articoli divulgativi scientifici (non solo perché, nei lockdown, avevano tanto tempo per leggere).

La catastrofe sanitaria e la paura si sono portate dietro una domanda di comprensione scientifica e tecnologica che riguarda anche i temi alimentari. Un’esigenza che non verrà più abbandonata.

Il giornalismo (scientifico) del cibo, richiesto quanto raro

Se i cittadini chiedono più servizi di divulgazione sui temi alimentari significa che un giornalista che scrive di cibo non può più limitarsi a “raccontare storie”.

Non basta più andare a visitare un ristorante, un’azienda orticola, una cantina per farsi dire come sono stati fondati, come lavorano e quali prodotti vendono. Quella del raccontare le storie dei prodotti e dei produttori è una frase tipica di presentazione da nuovo inserto di un quotidiano o di un convegno, ma lo storytelling (che nessuno ha mai capito davvero che cosa sia) non basta più.

In un passato ormai remoto il giornalismo del cibo era fatto da pochissimi fortunati che giravano i ristoranti per assaggiare e valutare. I compensi erano più che dignitosi: erano questi i collaboratori delle pagine speciali dei quotidiani e delle riviste che mettevano insieme anche libri, guide, eventi.

Oggi il panorama è affollato di freelance che cercano di stare a galla sognando un successo economico e di notorietà che non arriva, nel frattempo vendendo i servizi a costi ridicoli o, ancora più di frequente, pubblicando servizi sui propri siti web creati per promuoversi sul mercato della comunicazione. La scelta cade sempre sulla visita-racconto dell’azienda o del consorzio, dove il giornalista va a “scoprire” un prodotto. Vado, vedo, fotografo, scrivo. Così il web e i quotidiani si affollano di visitatori del cibo che non a caso possono scrivere di vino, salumi, pane e viaggi. A seconda di dove vengono invitati.

Sono davvero pochi i giornalisti che scrivono di cibo con un taglio scientifico. Sono pochi i giornalisti che per i loro servizi chiedono di visitare istituti di ricerca agricoli e alimentari, dipartimenti di agraria delle università, organismi a tutela della sicurezza alimentare, politecnici che si occupano di tecnologia del cibo, aziende sementiere che sperimentano nuove varietà… solo per citare alcune possibili fonti del giornalista divulgatore.

I cittadini stanno chiedendo un’informazione che spieghi come si coltiva o alleva una materia prima alimentare; come si estrae un ingrediente; come avviene una fermentazione, una distillazione, una caseificazione o come viene macellato un animale e come si frolla la sua carne. Alzi la mano chi legge normalmente articoli sui grandi siti di divulgazione dedicati a come agiscono i batteri sull’alimento scaduto, su come avviene l’uccisione di una vacca per favorire la successiva trasformazione chimica del muscolo in carne attraverso la frollatura. O chi ha letto delle micelle del latte che coagula in formaggio o di come si ottengono le bolle che si formano nel pane.

Un esempio può riguardare la frutta: se si tratta di frutta a marchio tipico si troveranno articoli sull’area geografica, con foto di colline verdi, contadini felici, cassette piene. Ma difficilmente si troveranno spiegazioni sugli innesti o sulle impollinazioni assistite che hanno portato alla selezione di quella varietà.

Se la formazione sul cibo costa più del cibo stesso

Dunque mancano giornalistiscientificidel cibo, manca una figura giornalistica che si specializzi nella divulgazione alimentare come altri giornalisti si specializzano in sport, cronaca nera, economia, politica locale o nazionale. Una figura che sappia maneggiare agronomia, zootecnia, sicurezza alimentare, tecnologia alimentare ma anche ecologia, fisiologia (del gusto, dell’assimilazione dei nutrienti). Una figura che sia in grado di rispondere alle ansie sul cibo, che sia capace di inserirsi autorevolmente negli scontri tra le tribù del cibo, che non si fermi ai comunicati degli uffici stampa delle aziende e delle associazioni di categoria, ma che sia in grado di tenere testa a questi mondi pur avendoli tra le proprie fonti.

Invece il giornalista che “tiene testa” oggi è un “giornalista giustiziere”, una figura inutile anche per i movimenti di opinione che hanno bisogno di informazione verificata e di dati di prima raccolta per poi svolgere la loro funzione nella società. A un’associazione ambientalista non serve l’ennesimo articolo denuncia basato su dati discutibili postati da un’altra associazione ambientalista. Non serve il facile copia-incolla da comunicato stampa inserito in un articolo-editoriale.

All’associazione ambientalista, per stare sull’esempio, serve un giornalista che svolga una sua inchiesta, uno che ha un buon rapporto con fonti affidabili e che sia in grado di raccogliere i dati. E soprattutto un giornalista che sappia portare al militante base dell’associazione la conoscenza che altrimenti sta solo dentro le élite scientifiche. Serve un giornalista formato.

La formazione costa, è lunga e continua. Un giornalista formato sui temi alimentari deve leggere molto, deve parlare con mondi non sempre aperti alla comunicazione, deve partecipare a convegni specialistici, deve farsi invitare nei viaggi studio riservati, deve coltivare fonti scientifiche pubbliche e private. Questo modo di fare giornalismo costa molto a chi lo pratica e non è compensato da retribuzioni adeguate.

Ma se l’informazione sul cibo è un’esigenza sociale, che diventa economica quando i cittadini informati diventano consumatori consapevoli, è giusto che sia sostenuta dal pubblico.

La comunicazione del cibo deve partire dalle scuole

La qualità dell’informazione sul cibo, nel Paese del cibo, è un tema da Recovery Plan. È un obiettivo di sviluppo per una cittadinanza attiva e per l’immagine dell’Italia nel mondo. Un Paese con un grande cibo esportato in tutto il mondo dovrebbe investire anche nell’informazione alimentare ed esportare con il cibo anche la cultura della conoscenza delle materie prime e delle tecnologie.

Invece ci sono pochissimi master universitari dedicati alla comunicazione alimentare; nei master di giornalismo non viene trattato il giornalismo alimentare. Gli stessi eventi formativi approvati dall’Ordine dei giornalisti quasi non contemplano la materia alimentare.

E pensare che un po’ di comunicazione del cibo andrebbe insegnata già alle superiori, in quella fascia di età che è presente sui social e che padroneggia il prodotto video. Quando si entra in un istituto alberghiero o agrario invitati dagli insegnanti a parlare di comunicazione si capisce che i ragazzi, sempre connessi e consumatori di intrattenimento social, vorrebbero tanto imparare a gestire in modo professionale un proprio canale di comunicazione, anche in vista di un futuro lavoro nella ristorazione o nella vendita dei propri prodotti agricoli. Ma non hanno docenti e programmi che glielo sappiano insegnare.

Questi ragazzi formati nella comunicazione saranno anche meno vulnerabili nei confronti delle fake news, e saranno anche molto interessati a un’informazione di approfondimento. Una passione per la documentazione che potranno trasmettere anche ai loro clienti.

Serve quindi la mano del pubblico nelle università, nelle scuole, nei media. L’informazione scientifica, sanitaria e alimentare devono essere sostenute. Se è vero che l’informazione in sé è “bene comune”, ancora di più questo vale per l’informazione che avvicina i cittadini alla scienza, sconfigge l’antiscienza e il negazionismo, combatte l’alimentazione da sottrazione e le false credenze sui cibi.

Dopo la pandemia un sostegno alla formazione, alle testate, al ruolo dei giornalisti nelle scuole e nelle università è esigenza irrinunciabile.

In copertina Foto di Colin Maynard su Unsplash

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