Giornalisti freelance: sottopagati, spesso poco esperti, ancora troppo romantici

Freelance. Una parola che se pronunciata in italiano o in inglese assume significati diversi, profondamente diversi, specialmente per quanto riguarda il giornalismo. A una qualsiasi conferenza stampa all’estero, specialmente nei paesi anglosassoni, definirsi “freelance” significa suscitare sguardi d’ammirazione, mentre fare la stessa cosa in Italia significa suscitare sguardi di commiserazione. E non si tratta di […]

Freelance. Una parola che se pronunciata in italiano o in inglese assume significati diversi, profondamente diversi, specialmente per quanto riguarda il giornalismo. A una qualsiasi conferenza stampa all’estero, specialmente nei paesi anglosassoni, definirsi “freelance” significa suscitare sguardi d’ammirazione, mentre fare la stessa cosa in Italia significa suscitare sguardi di commiserazione. E non si tratta di una cosa casuale, ma in realtà di un sintomo di come sia strutturata la carriera del giornalista all’interno della filiera dell’informazione.

Vediamo. All’estero essere freelance significa essere a un punto d’arrivo, a un traguardo, a un livello della carriera tale da non dover più dipendere da una gerarchia di comando giornalistica come quella di una redazione. Insomma significa essere più liberi rispetto ai colleghi di redazione. Insomma significa essere andati oltre, spesso esplorando terreni di frontiera, come propri progetti o reportage. In Italia invece è esattamente l’opposto, anche se negli ultimi anni la situazione sta cambiando pure oltre confine.

Lungo lo Stivale il culmine della carriera è l’entrata in redazione o la “scalata” ai vertici, con postazioni apicali che, spesso, vengono create ad hoc: basta osservare le gerenze per leggere una promozione che è, spesso, più per anzianità che per merito. E il freelance in questo quadro è chi non è riuscito a entrare in una redazione, oppure ne è stato espulso. Ed ecco allora che da figura vincente si trasforma in perdente, ai margini, sfocata e quasi invisibile. Ma siamo sicuri che sia ai margini? Di quelli del reddito di sicuro si, ma di quelli dei contenuti no.

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Freelance protagonisti
Dal quinto Rapporto sulla professione in Italia, realizzato da Lsdi (Libertà di stampa diritto all’informazione), e curato da Pino Rea, sulla base dei dati aggiornati al 31 dicembre 2013 e forniti dagli enti professionali, emerge il fatto che i freelance “dominano” l’industria giornalistica coprendo quasi i due terzi dei giornalisti attivi, ma con redditi tra le 5,6 e le 6,9 volte inferiori a quelli medi dei giornalisti salariati. Ed è un divario che cresce, visto che nel rapporto si legge: «E se la retribuzione media diminuisce sia nel campo del lavoro dipendente che di quello autonomo o parasubordinato, il divario fra i due segmenti però continua a crescere. Nel primo caso si passa da 62.459 euro del 2012 a 61.180 euro del 2013 (meno 2%). Nel secondo caso la retribuzione media diminuisce da 11.278 a 10.941 euro lordi annui (meno 3%)». Insomma se volessimo paragonare i costi editoriali dei giornalisti, a parità di produttività tra la categoria degli occupati e quella dei freelance, potremmo facilmente dire che “riempire una pagina” con un freelance a un editore costa grosso modo l’80% in meno rispetto a un giornalista interno.

E, infatti, negli ultimi anni i contenuti realizzati dai freelance hanno superato la soglia del 50%. Tradotto: i freelance sono indispensabili ai giornali, ma possiedono condizioni di trattamento economico molto più basse, senza contare la precarietà dovuta a un quadro incerto circa i pagamenti e i rimborsi spese. Altra prova di ciò è l’incremento del lavoro autonomo giornalistico che dal 2000 al 2013 ha visto il peso del lavoro autonomo crescere, secondo Lsdi, del 327,7%.

«Oggi l’evidenza del fenomeno freelance in editoria è dovuto al fatto che se ne parla – ci dice Vittorio Pasteris, giornalista e Vicepresidente di Lsdi. Anche perché ora c’è uno sbilanciamento incredibile tra la contrattualizzazione dei dipendenti e i collaboratori che è ormai insostenibile ed è una situazione che è andata avanti per anni anche perchè faceva comodo al sistema nel suo complesso. Quindi siamo ancora ai blocchi di partenza perché, nonostante l’esplosione del fenomeno, non esiste ancora nemmeno il quadro di riferimento nel quale inserire i freelance».

Interessante, inoltre, la crisi della rappresentanza sindacale, che per i giornalisti, al contrario di altre categorie, ha un’unica forma. Ossia esiste solo la Fnsi. La composizione del totale dei 21.923 giornalisti iscritti alla Fnsi nel 2013 era di 15.947 dipendenti, contro 5.976 freelance. Decisamente poco rispetto ai 112.046 iscritti totali all’Ordine dei Giornalisti nello stesso anno e con una rappresentanza dei freelance minoritaria.

I fatturati della filiera della carta, dove ci sono anche quelli dell'editoria. Fonte Assocarta 2016
I fatturati della filiera della carta, dove ci sono anche quelli dell’editoria. Fonte Assocarta 2016

L’equità non è di casa

E forse a ciò si deve al varo da parte di Fieg, la Federazione italiana Editori Giornali, Governo, Inpgi e Fnsi del cosiddetto “equo compenso” che fissa la retribuzione di un singolo pezzo da 1.600 battute a 20,83 Euro lordi. Cosa che non è stata gradita, ovviamente, da alcuni freelance – la minoranza – e che non hanno gradito né il Tar del Lazio, né il Consiglio di Stato, i quali hanno accolto il ricorso dell’Ordine dei Giornalisti, contrario all’equo compenso. Motivazione? L’equo compenso viola l’articolo 36 della Costituzione che recita: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Insomma, se volessimo riprendere le categorie classiche del lavoro, si potrebbe dire che il “disordine è grande sotto al cielo”, ma la situazione non è eccellente. Governo, patronato e cassa di previdenza sociale si mettono d’accordo su un provvedimento che fissa compensi incredibilmente bassi per una categoria di lavoratori. Mentre un Ordine Professionale, come quello dei giornalisti, fa ricorso contro e lo vince.

«Secondo me esiste anche un problema da parte dei freelance che da soli non possono rispondere in maniera efficiente alle richieste di un’editoria che sta diventando sempre più tecnologizzata e rapida, continua Pasteris. Il web aumenta la velocità e le competenze necessarie, in futuro ci sarà sempre più richiesta di prodotti editoriali complessi e un freelance da solo è difficile che riesca a rispondere in maniera efficiente. La soluzione, secondo me, è quella dell’associazione tra freelance che si mettono assieme per realizzare in maniera efficiente e qualitativamente alta prodotti editoriali».

Il tutto in un quadro di grande, enorme, trasformazione che per la verità non dovrebbe cogliere di sorpresa i giornalisti. Categoria che per lavoro “osserva” le trasformazioni sociali, ma che ha fatto, guarda caso, un’eccezione per il settore a cui appartiene. L’informatica, infatti, viene applicata in editoria fin dagli inizi degli anni ’80 e ha fatto progressivamente una strage di tutte le figure interne all’editoria. Linotipisti, dimafonisti, grafici, correttori di bozze, fotografi sono alcune delle figure professionali che sono cadute sostituite da mezzi informatici e dall’innovazione, mentre i giornalisti all’interno delle redazioni assistevano passivi a queste trasformazioni, con la convinzione che le tecnologie non avrebbero intaccato il loro lavoro.

Il numero dei dipendenti della filiera della carta, dove ci sono anche quelli dell'editoria. Fonte Assocarta 2016
Il numero dei dipendenti della filiera della carta, dove ci sono anche quelli dell’editoria. Fonte Assocarta 2016

Web ignorato

Lo stesso dicasi per il web. Sono passati oltre venti anni dall’apparizione delle prime pagine web dei giornali e per lungo tempo il fenomeno è stato ignorato con la maggioranza della categoria che considerava, e considera tuttora, l’informazione su internet di serie B. E, guarda caso, i primi anni Duemila sono l’inizio della crescita esponenziale dei freelance in Italia, come rileva Lsdi. E il fenomeno italiano dei freelance giornalisti ha delle particolarità, negative, rispetto a ciò che succede in altri paesi.

«La differenza tra i giornalisti freelance italiani e quelli francesi è notevole – ci dice Andrea Paracchini, giornalista di 34 anni, ex cervello in fuga oltralpe e ora di ritorno nel Bel Paese – I compensi prima di tutto. Il minimo di partenza è il doppio rispetto al cartaceo italiano. Io nei due anni che ho fatto da freelance prima di essere assunto ad Altermonde (che è fallito di recente ma ha pagato tutti i collaboratori), ho lavorato a 250 euro per 10mila battute, con punte di 90 euro per 1500 (una cartella francese, ndr). E poi c’è un’alta certezza sul fronte dei pagamenti». Certo la situazione anche in Francia sta puntando verso il basso, ma in maniera diversa. «In Francia c’è la consapevolezza che il lavoro deve essere pagato e ciò vale anche per i giornalisti – prosegue Paracchini – E la categoria è attenta a fare muro verso fenomeni di questo tipo, mentre da parte dei giornalisti c’è una buona consapevolezza. Un indicatore di ciò risiede nel fatto che in Francia è abbastanza comune che i freelance si organizzino in collettivi ed è una strategia che sta pagando». Mentre sulla situazione italiana, Paracchini, che ha fatto un viaggio di andata e ritorno tra Roma e Parigi, è netto. «In Italia la responsabilità dello stato del settore non è solo degli editori e dei giornalisti interni alle redazioni, ma anche di una parte della mia generazione – conclude. Troppo spesso i giovani giornalisti hanno poca lungimiranza, poca consapevolezza sindacale e poca convinzione di essere membri di una categoria professionale importante, specialmente per il ruolo pubblico che riveste. Tutto ciò unito all’idea romantica del giornalismo li porta a fare lavoro gratuito o incredibilmente sottopagato che in Francia, ma anche in Italia in altri settori, non sarebbe ammissibile. E ciò per editori senza scrupoli è una manna dal cielo».

Tornando all’analisi economica bisogna dire che i primi sette anni degli anni duemila per l’editoria italiana non sono stati di crisi. Dal 2000 al 2007 gli utili dell’editoria erano in crescita e l’occupazione in calo, mentre gli editori in quel periodo non hanno fatto gli investimenti necessari, ne’ in fatto di tecnologie, ne’ circa l’adeguamento delle risorse umane, in uno scenario denso d’innovazione. In pratica si sono comportati come un’azienda manifatturiera che informatizzando il proprio magazzino si “dimentica” di far fare un corso d’informatica al proprio magazziniere.

Il futuro dei freelance

In questo quadro, i giornalisti freelance potrebbero giocare un ruolo chiave. «In un prossimo futuro il ruolo del freelance potrebbe essere molto importante – ci dice Alberto Puliafito, direttore di Blogo e cofondatore di Slow News. I grandi gruppi editoriali si stanno concentrando verso l’alto (si veda la fusione Repubblica-La Stampa, ndr.) lasciando una prateria in basso nella quale potrebbero scorazzare i freelance, curando un pubblico di nicchia, disintermediando, mettendo a punto buone pratiche di imprenditorialità. In pratica i freelance potrebbero essere quelli che creano un nuovo modello di business editoriale uscendo da quello che oggi è in crisi. Ossia quello pubblicitario. Presupposto di tutto ciò e che ci deve essere un buon grado di sicurezza circa le entrate, mentre i giornalisti freelance devono rendersi conto che devono studiare in continuazione perché la realtà è in continua trasformazione e smettere di vivere di pregiudizi autoconservativi. Oltre a ciò è necessaria anche una mutazione “genetica” del giornalista: ossia quella di avere empatia ed etica nei confronti dei lettori, facendo un’informazione di servizio. E sia chiaro che non sto parlando di un “degrado” del giornalismo come potrebbero pensare alcuni. Reportage e approfondimento, per esempio, sono giornalismo di servizio che aiuta i lettori a capire la realtà. Ecco: se i giornalisti freelance si muoveranno in questa direzione avranno un futuro».

E anche nel mondo anglosassone la situazione non è rosea, anche se, come nel caso del confronto con la Francia, l’Italia appare in retroguardia al punto che sarebbero necessari interventi istituzionali.

«Negli Usa la situazione dei freelance si sta aggravando anche perché si stanno diffondendo fenomeni come la retribuzione “earn for click” e c’è sovrabbondanza di freelance, ma lo scenario è distante anni luce rispetto all’Italia – ci dice Emanuele Bompan, 35 anni, giornalista freelance che si occupa anche d’ambiente, geografo e premio Reporter per la Terra 2015. Nel nostro paese la situazione è vergognosa persino nel settore dell’informazione ambientale dove spesso si trovano realtà nelle quali i compensi sono insufficienti o inesistenti, nonostante si tratti di un lavoro giornalistico che è complesso, visti gli argomenti e i dati trattati, e di forte rilevanza sociale. Per quanto riguarda le prospettive, ritengo indispensabile che nella nuova legge sull’editoria si intervenga sugli editori che non pagano i collaboratori, tagliando loro i contributi pubblici e magari sanzionandoli».

Insomma siamo di fronte a un bivio per quanto riguarda i giornalisti freelance: prateria o palude. Certo è che ci sarà molto da fare e questo molto da fare sarà a carico dei singoli. Basti pensare che la Partita Iva per i giornalisti è, dopo venti anni, ancora soggetta ai parametri provvisori del 1996, in mancanza degli studi di settore. Tradotto: nemmeno l’Agenzia delle Entrate si è posta il problema di conoscere la realtà del settore dei giornalisti freelance, cosa che non è stata sollecitata nemmeno dall’Ordine e dal sindacato. Forse è solo dimenticanza, magari un poco colpevole visto che certificare il fatto che una categoria, i giornalisti freelance, responsabile di oltre il 50% dell’informazione italiana, guadagnano meno di 1.000 euro al mese, potrebbe suscitare qualche imbarazzo. Specialmente tra editori e Governo.

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