Giulia Cecchettin, quando i media fanno branco

Si moltiplicano le dichiarazioni programmatiche, gli attivismi buoni a lavare le coscienze e le risposte istituzionali più ipocrite del silenzio. Così uno dei più recenti casi di cronaca nera viene spremuto fino all’ultima goccia, oscurando tutto il resto

22.11.2023
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Ho quel fastidioso, fastidiosissimo prurito che di solito mi viene l’8 marzo. Quando a sverniciate di rosso su panchine o quant’altro si ergono profeti del “Noi faremo” membri ed esponenti delle varie istituzioni. Intanto siamo a cento donne vittime della follia omicida dell’uomo, del maschio, in un crescendo che con ogni evidenza le varie panchine rosse inaugurate negli anni, a imperitura memoria di un elenco interminabile, non hanno saputo arginare.

L’unica reale lettura che ci restituisce la storia drammatica che ha tenuto l’Italia col fiato sospeso fino al tragico ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin (nome e cognome, prego, che non è vostra sorella) è che c’è un intero registro sociale e culturale che ad ogni evento del genere vogliamo abbattere come gli iracheni fecero con la statua di Hussein, mentre invece rappresenta quell’enorme elefante nella stanza che facciamo finta di non vedere.

Ora che come in ogni tragica messinscena sempre identica è il momento dello straparlare, permettetemi quindi di aggiungere altre considerazioni a questa specie di infodemia di buoni propositi fini a sé stessi. Innanzitutto, ricordo che non si possono pubblicare sui giornali fondi e editoriali sul tema della violenza di genere e poi passare altresì racconti di imprenditrici, professioniste e vincitrici di premi di qualsivoglia tipo ponendo l’accento sul fatto che la protagonista in questione è bellissima“. Per un uomo non avreste la stessa attenzione, né tantomeno la stessa pruriginosa volontà di sessualizzare in pubblico l’intervistato. Non potete condannare altresì l’eteropatriarcato atavico e tossico in maniera autorevole come testate giornalistiche se, ad esempio, in passato vi siete dati da fare a piene mani sguazzando nella storia di quella preside del Liceo romano che di fatto è colpevole di nulla, semmai solo vittima della violazione torbida della sua intimità (e lo dicono anche gli atti documentari).

A tal proposito (punto due): ricordiamoci anche che i processi si fanno in tribunale e non sui social (e questa chiamata viene al lettore). Anche davanti agli indizi di colpevolezza schiaccianti, non fa bene a nessuno che la condanna sia emessa a mezzo mediatico prima del regolamentare dibattito processuale, che è la vera garanzia a carico sia della vittima che del presunto carnefice. Questa è una cosa che ci portiamo appresso dal ’93, ben prima del digitale, e mi sembra che nulla sia cambiato da allora. O sbaglio? Non è che tanto vale un post quanto il tempo in cui lo pubblichiamo, distratti poi come siamo da notifiche e notifichette?

E a proposito di quanto vale il nostro impegno, veniamo ora a quegli esponenti politici e istituzionali chiamati a dare una risposta forte (ben diversa dalle sverniciate di panchine di cui sopra). Come facciamo a prendervi sul serio se negli organigrammi di partito e nella scelta dei ruoli che contano le donne hanno sempre una quota marginale? Come facciamo a credere che possiate combattere gap di genere come quello salariale se nemmeno al vostro interno siete capaci di una sorta di equiparazione tra componente maschile e femminile? Il governo Meloni nell’Esecutivo allargato ha una presidente donna, ma meno del 30% di quota rosa. Camera e Senato vedono quasi sempre una donna ogni due uomini e la componente femminile è calata dopo le ultime elezioni, invertendo il trend partecipativo.

Poi c’è la società civile e il mondo dell’associazionismo, dove si professa sempre tanto in materia. Ma ricordo la bellissima foto di qualche mese fa, di quel panel degli Stati Generali della Natalità (natalità, eh), in cui per un momento a parlare di come fare figli c’erano il ministro Urso, il direttore Italia di ENEL, gli AD di Invitalia e CDP, i presidenti di TIM e Danone e il CEO di Allianz. E neppure una donna. Con l’organizzatore su LinkedIn che spiegava che no, non era discriminante, perché alcune donne dovevano intervenire ma poi non hanno potuto.

E ancora, a parti inverse, ricordo l’AIDDA (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda) che prima della rielezione del Presidente della Repubblica Mattarella informava tramite nota stampa che l’Italia avrebbe avuto bisogno di una donna al Quirinale perché “convinte che questo Paese abbia bisogno della sensibilità e delle peculiarità delle donne”. Cioè, rivolgersi alle donne non perché capaci e competenti al pari degli uomini, ma perché “dotate di sensibilitàdiversa. Cavalcando senza nemmeno accorgersene gli stessi stereotipi di genere.

Dietro questa plastica dimostrazione che il problema si presenta anche quando non vi è malizia, a rendere bene l’idea di quanto da anni sia difficile per l’Italia affrancarsi di sé stessa – tra panchine che lavano le coscienze e luoghi comuni permeati nel comun pensare al punto tale da renderli sciorinabili anche ad alto livello di dibattito – oggi piangiamo un’altra donna che – stando agli elementi attualmente raccolti – sarebbe stata uccisa per la sola colpa di non essere la compagna desiderata. E che apre a uno sproposito di parole spesso inutili dietro cui si nasconde in realtà un Paese incapace di cambiare davvero. Incapace di vedere oltre sé stesso. Un Paese frammentario e refrattario che dovrebbe rendere prioritaria questa sfida se vuole davvero onorare la memoria di Giulia Cecchettin e delle altre 99 vittime da inizio 2023, veicolando una correzione urgente di modi e metodi di descrivere l’universo circostante, inclusivi e scevri da ogni retaggio del Novecento con i suoi film di Pierino. E che invece preferisce darsi alla sceneggiata a media unificati, socializzando un dolore intimo e rendendolo collettivo, ma non utile alla collettività.

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