La nomina di Giorgia Meloni a “uomo dell’anno” sulla copertina di Libero è l’ennesimo sintomo dello stato della stampa italiana, asservita e partigiana, che fa le pulci ai nemici e si tiene cari gli alleati. Come dimostra una recente vicenda della politica partenopea
Il termometro per gli influencer
Sotto un milione non sei nessuno: pare questo il sunto dell’intervento preventivo dell’AGCOM sulla questione influencer. Sebbene si tratti di un processo in divenire, si può già dire che è il concetto stesso di soglia a essere sbagliato. E siamo sicuri che a misurarla debbano essere proprio i social?
Sul “giro di vite” sugli influencer annunciato dalla nota stampa AGCOM nelle scorse ore avete già detto tutto voialtri. Chi nel bene, chi nel male, chi ribadendo che nulla ancora cambia, chi evidenziando che i pandori sono tutt’altra tipologia di problema rispetto a quello in discussione, chi come Pier Luca Santoro di Datamediahub (che è un osservatore straordinario nell’accezione migliore del termine) stemperando flame polemici, ribadendo che dallo stesso Garante tale iniziativa è stata intesa e descritta come il primo passo verso la convocazione di un tavolo tecnico con gli stakeholder del caso.
C’è però qualcosa che preme sottolineare in questa sede, una nota stonata nel modo di intendere e descrivere quella vasta platea che va dai gamer agli stripper, dagli indossatori agli imprenditori digitali, passando per improvvisati intrattenitori e chef, tra chi ci prova per fare soldi e chi lo diventa casualmente riprendendo un capitone che se ne fugge dalla vasca e si getta in mare. Il calderone degli “influencer” è così variegato che gli stessi content creator ormai provano a prendere le distanze etimologiche dal termine. Due quisquilie che tali non sono, in particolare, e che sono entrambe correlate al famigerato milione di follower stabilito dal Garante con tanto di rate di engagement fissato (tasso di coinvolgimento, in italiano), che serve a individuare la platea di destinatari del provvedimento tra quanti “diffondono contenuti audiovisivi” attraverso social network.
In primis, stabilire una soglia minima sopra la quale “si è influenzati” o ci si possa definire “influencer” in maniera che verrebbe da dire “professionalizzante” è stupido, come sono stupidi gli scaglioni di tasse in cui se si dichiarano 64.999 euro anziché 65.000 si resta in regimi agevolati.
Non è solo una questione di limite entro il cui tacitamente quindi si potrebbe procedere con determinate operazioni (l’advertising senza advertising o lo sharenting a fini commerciali, per dirne due), che dovrebbero comunque essere regolamentate in una selva incontrollabile. Perché per ogni Ferragni c’è un sottobosco di aspiranti tali che non sono esenti da responsabilità simili.
È come se il Garante rifiutasse in maniera logica di accettare che ci siano fenomeni del web specifici e locali che non rientrano nelle “regole dei grandi” su scala nazionale, nonostante il loro impatto in termini di danni da uso improprio del mezzo audiovisivo (e di mancata trasparenza) siano uguali, se non peggiori.
Per una Rita De Crescenzo a Napoli che supera il milione di follower, sapete quanti ce ne sono che si fermano un po’ prima? E che tra una trashata, un gettone di presenza, un pranzo aggratis o un cattivo esempio da facile view fanno quello che vogliono, con questo famigerato “mezzo audiovisivo”? È come dire, parafrasando Spiderman, che solo “da grandi follower derivano grandi responsabilità”.
Ed è questo il secondo punto della questione. Riguarda, in breve, il modo in cui tale milione di follower viene conteggiato. E mi riferisco al ruolo di un privato in un contesto internazionale che assurge a certificatore del Garante per stabilire che tale soglia sia superata o meno.
Capisco la volontà del Garante di non estendere a chiunque pubblichi un video regole stringenti (anche se io mi aspetterei proprio questo). Ma ritenere “influenzabile” il contenuto diffuso da un utente sulla scorta di numeri volatili (come il conteggio dei like) e (volendo) non rappresentativi della realtà dei fatti, e che non sono certi come un dato anagrafico, una partita IVA con codice ATECO specifico o un fatturato consolidato, vuol dire decidere per lo Stato di agire sulla base di quello che dicono Meta o X o TikTok di noi.
Comprenderete che la situazione è paradossale. E capiamo l’esigenza del Garante di battere un colpo mentre i pandori iniziano a scomparire persino dagli scaffali delle offerte di gennaio, ma da utente disgustato da tali logiche da social network sono disposto ad aspettare anche il casatiello a Pasqua per avere una risposta un po’ più attinente alla realtà che ci circonda.
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