La morte, le tasse e l’ipotesi Amato

La nomina di Giuliano Amato a presidente della commissione algoritmi non vale la polemica che ha suscitato. Il problema sta altrove: nell’inadeguatezza di una classe dirigente che scavalca il parlamento e commissiona a non eletti la soluzione di problemi (anche) politici

24.10.2023
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L’ipotesi Amato. Quando manca il nome da fornire per qualsiasi cosa a livello istituzionale, dalla formazione di un Governo ai garanti di larghe coalizioni, dalle nomine europee fino al nome per il Quirinale su cui far convergere i partiti, spunta l’ipotesi Amato. L’ipotesi Amato è talmente leggendaria che anche autorevoli osservatori politici ne hanno scritto e ci hanno scherzato su.

Ma perché proprio Amato? Perché è come il nero che sta bene su tutto, quando si tratta di Stato. Impeccabile, competente, Giuliano Amato è tutto quello che ti aspetti da un uomo delle istituzioni in termini di garbo e aplomb, con un curriculum politico alle spalle non indifferente.

L’ex presidente della Corte costituzionale ed ex ogni cosa che vi viene a mente nei palazzi romani ora ha ricevuto alla veneranda età di 85 anni (ad arrivarci così ci metterei la firma), di cui la maggior parte passati fuori dal mondo digitale, l’onere e l’onore di guidare la commissione algoritmi che in un qualche modo deve “pesare” l’impatto delle intelligenze artificiali sul nostro Paese; “in particolare il loro impatto sull’editoria“, come se sull’editoria italiana dovessero schiantarsi altre meteore per la completa estinzione come fu per i dinosauri.

Ma passiamo oltre. Ai risolini che accompagnano la nomina di Amato, fresco da polemicone (quasi) evitato di striscio su Ustica, spesso non si accompagnano commenti adeguati che vadano oltre l’età anagrafica dello stesso. Che è uno spunto di riflessione, certo, ma non determinante. Chi più di un uomo che conosce ogni sanpietrino delle strade che intercorrono tra i ministeri e i palazzi del potere romani può avere le competenze per guidare i lavori di una commissione di esperti “al soldo” dell’Italia?

Non sta certo a Giuliano Amato avere le competenze tecniche che invece sono richieste agli altri esponenti della commissione, che include profili accademici di alto livello e che coinvolgerà organi come l’Ordine dei Giornalisti (lo stesso Ordine che sul digitale avrebbe bisogno di recuperare parecchi punti, ma anche questa è un’altra storia) e FNSI.

Il problema non è che chi di dovere abbia scelto un ottantacinquenne per guidare una commissione tecnica che guarda a temi ad Amato probabilmente sconosciuti. Il problema potrebbe essere che in Italia non abbiamo prodotto un altro Amato un po’ più giovane negli ormai tre decenni che ci separano dalla Prima Repubblica? Forse. Ma a mio modestissimo parere il problema è a monte: il ricorso a risorse non elette per risolvere problemi che dovrebbero risolvere gli esecutivi con la fiducia delle Camere elette.

È dai saggi di napolitana memoria (quelli chiamati a spiegare all’entrante Presidente del Consiglio Enrico Letta cosa avrebbe dovuto fare per garantire al Paese una maggioranza le cui larghe intese sono state demolite da Matteo Renzi in 300 giorni) che ne abbiamo a bizzeffe, di queste commissioni e di questi gruppi di lavoro, con risultati spesso risibili. Facciamo qualche esempio? La task force governativa sulle fake news in epoca COVID, che offriva a determinati nomi emblematici di altrettante testate la possibilità di ergersi a controllore della qualità di tutti gli altri. Un cortocircuito che fortunatamente non ha prodotto in pratica nulla di impattante se non qualche relazioncina. Come dimenticare poi il comitato di esperti (parecchio allargato) voluto dal ministro Azzolina per dare risposte durante il COVID al popolo urlante? E la cui scuola “risollevata” l’avete oggi, tutti, davanti agli occhi?

Il tema sembrerebbe essere quello di convocare un gruppo di Avengers in ogni occasione critica. Verrebbe da dire, mal pensando, che in ogni emergenza si voglia delegare una risposta (anche di sola cortesia) a privati con limitato interesse nazionale, il tutto per manifesta incapacità di gestire in modo autonomo ogni fascicolo che arriva sul tavolo chiedendo risposte.

Specchio, insomma, di un Paese che non riuscirebbe a esprimere una classe dirigente competente in altro che non sia presa di potere, da anni, ormai. Il tutto con un Parlamento, il luogo deputato al dibattito per eccellenza, che – come da Berlusconi in poi – continua a essere svuotato nel suo fondamentale ruolo. In che senso? I conti li faceva +Europa l’altro giorno su Instagram: in meno di un anno il Governo ha “scavalcato” 41 volte l’aula con lo strumento del Decreto Legge, ponendo la questione di fiducia in 19 occasioni, il tutto tra un elogio all’umiliazione e una manifesta invidia della povertà che garantirebbe pasti deliziosi ai meno abbienti.

L’unica risposta da dare a uno Stato che affida a un ottantacinquenne che mai riposerà un gruppo di lavoro su temi attuali con poteri nulli è sempre lì, non sui social con commenti sferzanti né sui giornali di partito. È nell’urna, dove l’italiano, se capace, può decidere per il futuro di mandare in quelle stanze persone capaci, di spessore, che abbiano anche le competenze che si delegano all’esterno per manifesta incapacità. Possiamo invertire la rotta solo con la matita sulla scheda elettorale, smettendo di premiare chi urla e scegliendo chi sa.

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