Il capo? Meglio uomo!

I lavoratori italiani preferiscono dipendere da un capo uomo piuttosto che da un capo donna. È l’ultima statistica che strizza l’occhio ai giornali e – in clima prenatalizio – rimpolpa le dosi di buonismo che caratterizzano l’eterno dibattito intorno alla diversity. Secondo il Randstad Workmonitor 2016, indagine svolta in 33 paesi dalla multinazionale delle risorse […]

I lavoratori italiani preferiscono dipendere da un capo uomo piuttosto che da un capo donna. È l’ultima statistica che strizza l’occhio ai giornali e – in clima prenatalizio – rimpolpa le dosi di buonismo che caratterizzano l’eterno dibattito intorno alla diversity. Secondo il Randstad Workmonitor 2016, indagine svolta in 33 paesi dalla multinazionale delle risorse umane, il 64% degli italiani – potendo scegliere – opterebbe per un superiore di sesso maschile.

Ebbene, nella maggior parte dei casi il capo è effettivamente uomo. Tant’è che secondo il Gender Gap Report 2016 del World Economic Forum, su 142 paesi del mondo l’Italia risulta 79esima per presenza di donne in posizioni manageriali. Ma cosa spingerebbe i lavoratori a non voler dipendere da un capo donna? Questo il parere dell’amministratore delegato di Randstad Italia, Marco Ceresa, interpellato da SenzaFiltro: “Normalmente per esperienza l’attenzione alla performance fa diventare più difficile la relazione con i capi donna. L’aspetto del controllo nella donna è più forte, e dal controllo scaturisce un’analisi della performance che toglie olio alle relazioni. Un capo uomo è più disposto ad accettare una performance non ottimale”. Un punto di vista che riconduce il fenomeno ad una questione culturale. Insomma la donna, abituata all’idea che – per farsi apprezzare – debba rendere il doppio dell’uomo, pretenderebbe livelli di performance superiori da parte dei suoi “sottoposti”.

Ma la questione è ben più complessa. Spesso il mancato raggiungimento di posizioni apicali è legato all’interruzione prematura della carriera femminile, che si blocca per motivi familiari, e in particolare per l’arrivo dei figli. Secondo una ricerca Istat (dicembre 2015), poco meno di dieci milioni di donne nel corso della loro vita hanno rinunciato a lavorare per occuparsi della casa e della famiglia. E quasi una donna su quattro di quelle occupate prima della gravidanza è uscita dal mercato del lavoro una volta diventata madre.

Un altro tema centrale del dibattito sulla diversity è quello della disparità di stipendio. Sempre secondo il Gender Gap Report, l’Italia è 127esima per “parità di salario per occupazione simile”. A questo proposito ha fatto discutere il recente intervento del capogruppo della Lega nel Consiglio regionale della Lombardia, Massimiliano Romeo, in occasione dell’approvazione della legge sulle quote di genere nei Cda di Giunta e Consiglio. Il consigliere leghista ha dichiarato che la differenza salariale “dipende dagli straordinari. Nel senso che gli uomini dicono di sì, mentre le donne preferiscono stare a casa ad accudire i propri figli”. Un’opinione che è stata definita “ottocentesca, maschilista e retrograda”. Tanto che le consigliere del MoVimento 5 Stelle hanno inscenato una protesta in aula, stendendo i panni di fronte ai leghisti.

Siamo andati a cercare Massimiliano Romeo per approfondire la sua posizione. Il suo intervento, indubbiamente infelice nei tempi e nei modi, è servito a sgretolare la patina di ipocrisia che avvolge il tema della diversity.Quando si parla di donne – ha detto Romeo a SenzaFiltrosi sbaglia sempre. Le mie parole sono state fraintese. Ho semplicemente detto che le donne sono meno portate a fare straordinari perché hanno un dopo lavoro più impegnativo”.

Ma per loro è davvero una libera scelta quella di rinunciare al lavoro, che sia per qualche ora o in modo più radicale? “Non sempre è così – ammette il capogruppo leghista – ma noi dobbiamo valorizzare anche quelle donne che hanno scelto la famiglia, riconoscere loro il ruolo dell’educazione dei figli, molto più difficile di ogni altro. Certo, laddove stare a casa diventa una scelta obbligata, dobbiamo sostenerle”. Ma in che modo lo si può fare efficacemente?

Le “quote rosa” sono una valida soluzione contro il gap di genere? Per Romeo esse “non possono essere la strada maestra, sono solo un’ipocrisia, che potrebbe anzi penalizzare le donne stesse, svilendone il ruolo. L’unico criterio per affidare un incarico dovrebbe essere sempre e solo la meritocrazia”. Insomma, in questo caso la “cura” potrebbe essere peggiore della “malattia”. Altre sono invece, secondo il consigliere leghista, le misure utili a favorire l’occupazione femminile: “Ad esempio in Lombardia abbiamo introdotto gli asili nido gratis per le famiglie con Isee non superiori ai 20mila euro e in cui entrambi i genitori lavorano o sono in formazione professionale”.

Ma cosa ne pensa invece chi vive dall’interno le dinamiche aziendali? Il genere fa davvero la differenza? Abbiamo chiesto ad alcuni imprenditori e responsabili HR legati al network di FiordiRisorse:

Maurizio Fionda, CEO @Diennea, fra le principali aziende italiane di digital marketing, con sede a Faenza e in forte espansione anche all’estero:

Non ho dubbi sul fatto che le donne possano essere ottimi dirigenti anche ai massimi livelli. Benchè non credo sia possibile generalizzare sulle differenze tra un capo donna o uomo, nella mia esperienza mi pare di avere notato nelle donna una migliore visione sul breve, maggior pragmatismo quindi migliore vocazione a ruoli executive. Sempre in base all’esperienza personale trovo gli uomini più disponibili a sognare, a muoversi verso l’ignoto quindi a sviluppare visioni sul lungo termine.

In generale a mio parere quello che conta è il “gender mix”, cioè la presenza di ambi i sessi nei ruoli dirigenti. La mancanza di uno dei due sessi rischia di rendere il terreno più “sterile”, cosa molto pericolosa in un’epoca dove è indispensabile mettersi in discussione e rinnovarsi di continuo.

Riguardo al dato della Ricerca ed alle dichiarazioni di Massimiliano Romeo penso che in Italia siamo ancora culturalmente piuttosto legati al concetto di donna come “sesso debole”, questo pregiudizio lo trovo indifferentemente sia negli uomini che nelle donne.

Emanuele Rossini, Responsabile del Personale @Ruffino, marchio storico toscano del vino con sede a Firenze e oggi appartenente alla multinazionale americana Constellation:

Sinceramente mi risulta difficile fare distinzioni di genere per valutare un capo. Preferirei parlare di capi capaci e capi incapaci. Ho conosciuto, infatti, bravissime donne capo e di contro ho trovato uomini inadatti al ruolo e viceversa.

Detto questo, per rispondere più precisamente alla domanda, devo riconoscere che mi è capitato più di una volta di notare in una donna capo una certa rigidità ed una leadership molto direttiva e poco incline all’ascolto.

È sicuramente vero che le retribuzioni delle donne siano inferiori a quelle dei colleghi uomini, tuttavia non credo che questo divario sia dovuto alle ore di straordinario. Credo piuttosto che da un lato ci sia un po’ un retaggio culturale per il quale è l’uomo che devo portare “il pane” a casa e dall’altro non possiamo negare che la gravidanza provoca almeno uno, se non due anni di retribuzione congelata.

Francesco Radice è il Responsabile del Personale di ADR Axles, azienda italiana nel settore automotive con sede a Uboldo (VA) e stabilimenti in tutto il mondo:

Le considerazioni di Romeo sono a mio giudizio anacronistiche e fuori luogo ciò premesso considero da sempre, nel lavoro come in altro contesto, inappropriate le “quote rosa” perché svilenti, le donne per le loro insite potenzialità non hanno bisogno di aiuti.

Per quanto riguarda il fatto che il campione intervistato preferisca avere un capo uomo piuttosto che un capo donna lo attribuisco a un retaggio del passato ritengo da sempre le donne, a parità di condizioni, in virtù anche della mia esperienza lavorativa, non inferiori agli uomini in termini di determinazione, spirito collaborativo, senso di appartenenza,  e certamente più degli uomini adattabili, flessibili rispetto ai cambiamenti e con un maggior desiderio di crescita professionale oltre che attitudine alla creatività. Rimane, soprattutto in Italia, per le donne la difficoltà di far coesistere la crescita professionale con l’essere prima di tutto mamma e genitore.

Valentina Marchesini è insieme alla sua famiglia a capo di una delle aziende più importanti sul territorio Emiliano:

La sensibilità spiccata della donna fa si che il capo-donna capisca e percepisca prima e meglio dell’uomo determinate situazioni e molti più difficilmente le lasci correre. Una donna sa essere molto più comprensiva in situazioni di reale necessità. Ma se si rende conto che chi ha davanti tenta in qualche maniera di approfittarne può diventare molto dura.

 

Sono assolutamente contraria alle discussioni legate al genere, che esse siano “femministe” o “maschiliste”. Credo solo nel valore delle persone, se sei “più bravo” ce la fai, che tu sia uomo, donna, etero, gay, mamma, single, giovane o anziano. Ce la fai e basta. Puoi essere multitasking. Oggi per esempio grazie alle tecnologie io posso fare una conference call mentre mi tengo in forma camminando. Mi trovo d’accordo con Romeo nella contrarietà alle quote rosa ma troverei un valido sostegno in politiche legate al reale appoggio alle neomamme lavoratrici. La mia mamma a due giorni dalla mia nascita mi portò in ufficio con lei, certo lei poteva farlo in quanto proprietaria dell’azienda. Che lusso sarebbe se potesse essere così – con le dovute differenze – per tutte le mamme?

Presa di posizione molto forte da parte di Paolo Braguzzi, Direttore Generale @Davines, azienda del settore della cosmetica con sede a Parma e una forte componente multinazionale:

Io rifuggo qualunque considerazione basata sul genere, come peraltro su qualunque altra caratteristica delle persone che non sia attribuibile a loro in quanto tali. Non è ipocrisia ma la convinzione che quando si ha a che fare con le persone sia necessario un pensiero “fine” che viene ostacolato da qualunque generalizzazione. L’unica implicazione che accetto, dai generi e da quanto altro categorizza le persone, è quella dell’importanza della ricerca e della valorizzazione delle diversità, come fonte di ricchezza e di “corrispondenza” con la varietà dell’umanità (e del mercato). Poi ci sono le statistiche, che qualcosa dicono sulla realtà ma poco su ció che la genera, lasciando la spiegazione a speculazioni più o meno intellettuali. Se si volesse capire di più del perchè dei diversi fenomeni sarebbe necessario andare a fondo e non fermarsi alla superficie, prendendo un pezzo di informazione di qua e un pezzo di là. Non è un impresa impossibile, basta una ricerca fatta come si deve.

Da parte nostra non possiamo che riflettere.

La sensazione è che finché si continuerà a tracciare una linea fra “noi” e “loro”, di condurre sondaggi su questa dialettica, utili probabilmente solo ad attirare l’attenzione dei giornali per riverberare il proprio brand, ma poco incisivi in termini culturali e di scarso supporto all’economia del cambiamento, si contribuirà ad alimentare la contrapposizione di genere piuttosto che a superarla.

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