Il deserto Piceno

Percorrere la zona industriale della Vallata del Tronto è comodo. Poco traffico, pochi semafori funzionanti, pochissimi mezzi pesanti in transito. Spesso preferisco percorrere questa strada anziché altre proprio perché, in alcuni tratti, semideserta. Certo, ci siamo abituati al fatto che la zona industriale sia deserta, ma a volte vanno indossati gli occhi di un’altra persona […]

Percorrere la zona industriale della Vallata del Tronto è comodo. Poco traffico, pochi semafori funzionanti, pochissimi mezzi pesanti in transito. Spesso preferisco percorrere questa strada anziché altre proprio perché, in alcuni tratti, semideserta. Certo, ci siamo abituati al fatto che la zona industriale sia deserta, ma a volte vanno indossati gli occhi di un’altra persona per capire quello che quello che viviamo tutti i giorni non è affatto “normale”.

 

Il Piceno tradito dalle multinazionali

Le multinazionali si sono insediate qui dagli anni Sessanta grazie alla Cassa del Mezzogiorno, che ha incentivato l’edificazione degli stabilimenti e assicurato manodopera conveniente e collaborativa. Per una quarantina d’anni questo patto tra industria, Stato e cittadini è stato idilliaco. Disoccupazione minima, operai contenti, famiglie serene, sindacati assenti o inutili. Un bel giorno però la stessa logica di delocalizzazione, che ha portato multinazionali anche straniere nella provincia ascolana, ha iniziato ad attrarre le stesse aziende altrove. Ora la zona industriale è, in molti tratti, scheletrita, svuotata, disabitata. Restano ancora appese qua e là le bandiere dei sindacati post manifestazioni e qualche carcassa di roulotte immolata alla causa del lavoro.

Qualcuno potrebbe dire: il mercato del lavoro oggi è flessibile, non puoi pensare di lavorare nella stessa fabbrica dal diploma/laurea alla pensione! Ma la domanda è: che cosa ha lasciato questa zona industriale al territorio? Sicuramente stabilimenti inquinati e inquinanti, bonifiche da fare (perché non si produceva acqua profumata ma gomma, materie plastiche, acciaio o carbone) e tanti operai – alcuni ormai ultracinquantenni – senza possibilità di ricollocarsi e praticamente senza ammortizzatori sociali.

 

Un ex operaio: “Era già stato scritto tutto”

Ne parlo con Tonino: “Ho 57 anni e 9 mesi, sono un ascolano purosangue, da sempre impiegato nel sociale da ANPI all’Associazione Libera, attivo nella vita di parrocchia, sposato con due figlie di 25 e 22 anni che ora sono all’università – una a Bologna e l’altra ad Ancona. E sono ormai abituato a fare i salti mortali ogni giorno, da quasi quattro anni”.

Dopo oltre venticinque anni in fabbrica, dal 2015 Tonino si è unito alla schiera degli oltre 30.000 disoccupati del Piceno. Era arrivato in Prysmian dopo aver lavorato in una ditta di elettricisti, in un frantoio e nell’Istituto Tessile Tronto che produceva divise militari. Nel 1989 arriva in quella che all’epoca si chiamava CEAT (Cavi Elettrici e Affini Torino), in uno degli stabilimenti del gruppo con oltre 480 lavoratori specializzati nella produzione di cavi, sorto alla fine degli anni Sessanta lungo la zona industriale ascolana. Negli anni ne ha viste tante: cambi societari, modifiche nel management, accordi e disaccordi sindacali.

Alla fine degli anni Novanta, Pirelli entra a gamba tesa nel management e annulla gli accordi sindacali pregressi a fronte della promessa di non licenziare e di riconoscere comunque dei premi. I lavoratori accettano serenamente e non mettono in discussione la proprietà (non avevano idea della crisi che sarebbe arrivata da lì a qualche anno e la cosa più importante era avere la possibilità di mantenere il proprio posto di lavoro). “La mia percezione” mi racconta Tonino, “è che era stato già stato scritto tutto”.

 

La chiusura, la mobilitazione e le (poche) conseguenze

Negli anni che seguono lo stabilimento registra premi di produzione costanti, picchi di lavoro, e non deve ricorrere quasi mai alla solidarietà o alla cassa integrazione (come invece fanno gli altri stabilimenti del gruppo). Eppure la proprietà, che nel frattempo diventa Prysmian, inizia a dividere il management tra Ascoli e altre città e gli operai ascolani vengono affiancati da colleghi di altri stabilimenti che devono imparare nuovi processi e metodi di lavoro da loro.

Il 27 febbraio 2015 arriva la doccia gelata: immediata e tassativa chiusura.

I lavoratori cercano di reagire con le sole armi che hanno: attivano la stampa, i canali social, la Curia, il Sindaco, la Provincia; si riversano in strada, arrivano fino al Ministero dello Sviluppo Economico e riescono a ottenere che la loro storia vada in Parlamento. In strada e nelle manifestazioni di piazza solidarizzano con tutte le altre aziende che nel frattempo hanno chiuso stabilimenti nel piceno: Hoemonetics, che produceva sacche per contenere sangue e che ha chiuso i battenti nel 2013 lasciando in strada 180 lavoratori, o la Novico che nello stabilimento di Campolungo produceva aghi e siringhe e che viene chiusa per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale.

“Sai, la maggior parte dei lavoratori era stata assunta a fine anni Ottanta e ha quindi più o meno cinquant’anni e famiglie a carico. Difficile se non impossibile ricollocarsi, e le alternative che ci avevano proposto erano a centinaia di chilometri da qui”. Il tentativo è quello di sperare negli ammortizzatori sociali. Impensabile pensare di far riaprire uno stabilimento già praticamente smantellato.

La politica locale, le istituzioni civili e quelle religiose appoggiano gli oltre 130 lavoratori rimasti senza occupazione, ma una piccola realtà di provincia non pesa adeguatamente a Roma. “E poi”, mi dice Tonino, “vedere il premier del momento inaugurare sorridente un nuovo stabilimento della stessa azienda che ti sta sbattendo sulla strada fa male”. E io posso solo immaginare la sensazione di impotenza e la rabbia di quest’uomo.

 

Un territorio sfruttato e anestetizzato dal benessere di ieri

Un’altra storia emblematica ha come protagonista la ex Sgl-Carbon, una delle più grandi aziende produttrici mondiali di prodotti derivati dal carbone. Un’industria che ha cambiato il lo skyline della città e ha impiegato per decenni centinaia di ascolani, ma che oggi, a oltre dieci anni dalla sua chiusura definitiva, è una ferita aperta. Un’area di oltre 27 ettari ormai in totale degrado in cui forse, notizia di quest’estate, a breve inizierà il costoso percorso di bonifica. Di fondo però, ha lasciato famiglie e famiglie di operai specializzati in un settore poco rivendibile altrove e altamente insalubre. Ha generato benessere in un momento storico ben definito senza attivare politiche di crescita del territorio. Ecco, questo accomuna queste storie: la Cassa del Mezzogiorno ha incentivato la localizzazione di industrie e la disoccupazione tendente allo zero ha creato benessere. E il benessere non stimola nulla, la crisi sì. In teoria.

Di certo in questo territorio, che veniva da una tradizione agricola ma anche manifatturiera, non è stata stimolata la crescita e lo sviluppo di un tessuto imprenditoriale locale. Il lavoro ha drogato le persone e l’economia. E ora che l’effetto è finito e non c’è possibilità di una nuova dose di industria “pesante”, ci troviamo ad annaspare tra soggetti imprenditoriali e politici che si riempiono la bocca di belle parole.

Il problema del lavoro e la centralità della persona. Temi attuali oggi, temi attuali allora. Eppure in una piccola realtà le difficoltà, gli attriti, le lotte spesso dividono i colleghi. O li uniscono in una nuova forma.

“In una decina di ex colleghi abbiamo deciso di provare a ricollocarci nella raccolta differenziata legata al riciclo della plastica per fare biocarburante, forti della nostra conoscenza in tema gomma e plastica. Abbiamo partecipato a un bando regionale, ma siamo solo un gruppo di operai. Ci servirebbe qualche esperto o imprenditore che ci indirizzi un po’ e che costruisca con noi un progetto legato all’ecologia e al territorio”. Ma non solo: Tonino e i suoi colleghi hanno creato una cooperativa sociale multiservizi che si chiama DIOGENE, e stanno cercando clienti tra comuni ed enti locali.

Hanno tanta voglia di fare e niente da perdere. A Tonino, infine, chiedo che cosa desidera per le sue figlie. Come ogni buon padre, cerca di proteggerle tenendole lontane da un territorio che richiede sacrifici e che non ha molte prospettive future. Ma nella valigia che fanno le sue come tante altre ragazze e altrettanti ragazzi del piceno c’è la sconfitta di almeno due generazioni di ascolani miopi che hanno pensato a prendere lo stipendio, ogni 27 del mese, senza mettersi in discussione per gettare le basi per il futuro.

 

Photo Credits by Franscesco Ameli

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