Il Jobs Act alla maniera Irlandese

Qualche giorno fa stavo dirigendomi, in piena crisi d’astinenza, verso la mia macchinetta per il caffè in fondo all’open space, ed ho incontrato il CEO della mia azienda, a sua volta in astinenza da tè, che mi ha fermato e mi ha detto “Luca, abbiamo deciso di promuovere Brian al ruolo di Chief Commercial Officer; […]

Qualche giorno fa stavo dirigendomi, in piena crisi d’astinenza, verso la mia macchinetta per il caffè in fondo all’open space, ed ho incontrato il CEO della mia azienda, a sua volta in astinenza da tè, che mi ha fermato e mi ha detto “Luca, abbiamo deciso di promuovere Brian al ruolo di Chief Commercial Officer; è un ruolo nuovo, importante. Avrà una squadra di una ventina di persone che risponderanno direttamente a lui. Sei il capo della Business Intelligence, avrà bisogno di tutto il tuo supporto.” Ed io ho guardato Brian da lontano, ho pensato che era un buona scelta, ma sopratutto ho pensato che Brian aveva 29 anni. E mi sono reso conto del perché l’Irlanda cresce del 4.5%, e l’Italia dello zero virgola. Loro investono sui giovani, si prendono dei rischi, accettano la sfida; noi ne siamo terrorizzati.

Se faccio il confronto fra i miei anni di lavoro Italiani e quelli da emigrato, la prima cosa che mi viene in mente è come in Irlanda ragazzi (e ragazze) che hanno si e no 30 anni hanno responsabilità importanti e posti chiave, mentre in Italia a quell’età sei quasi sempre poco più del garzone di bottega. Certo, l’Irlanda ha un’età media di 35 anni e l’Italia di 44, ma il problema non è anagrafico, è culturale. Il rapporto fra azienda e dipendente non è basato sul concetto di controparte, ma su quello di mutuo interesse, e quindi di collaborazione e rispetto; e tutti, da queste parti, sono consci che inserire giovani in azienda significa inserire dinamismo, energia e nuovi modi di vedere le cose. Certo, farlo richiede formazione, pianificazione, strategia, e l’assunzione di una sana dose di rischio: ma non dovrebbero essere esattamente queste una gran parte delle caratteristiche di un imprenditore?

In questi ultimi mesi, guardando la TV italiana o leggendo i giornali ho sentito parlare incessantemente di Jobs Act, licenziamenti, disoccupazione giovanile, contratti a tutela, reintegri e simili. E mi viene da ridere, anche se di un riso isterico. Non è una legge che cambierà il problema del lavoro in Italia, perché non è colpa di una legge sbagliata se i giovani non trovano lavoro: è colpa di un modello industriale fallimentare perché cronicamente incapace di ogni rivoluzione culturale, aggrappato a nicchie di potere e rendite di posizione che si sono saldate ad un modello sindacale vecchio di decenni, il cui unico scopo è quello di non sfidare lo status quo, anche se conduce alla morte.

Penso che in Irlanda non esistono contratti collettivi nazionali di lavoro, e che ognuno firma un contratto personale; e penso che in Italia gli informatici hanno un contratto collettivo assieme ai metalmeccanici, perché l’idea che fare software non è come montare chip su una piastra in catena di montaggio da noi non è ancora entrata nel modo di pensare dei nostri sindacati e dei nostri imprenditori. Penso che nel 2011 sono andato, da Dirigente, ad un evento organizzato da Federmanager sull’uso dei social media; io avevo 47 anni ed ero di gran lunga fra i tre più giovani dei presenti in sala (diciamo un centinaio di persone). Adesso, 4 anni dopo, sono il Senior Manager (i Dirigenti non esistono in Irlanda) più anziano della mia azienda. E più ci penso e più mi convinco che per risolvere il problema del lavoro in questo paese non serve a nulla rendere i licenziamenti più facili: serve invece recuperare i concetti, perlopiù dimenticati, di delega, confronto e responsabilità; servirebbe favorire l’ingresso dei giovani in facoltà diventate di nicchia come matematica, fisica o ingegneria delle telecomunicazioni, magari erogando borse di studio (l’Irlanda ne eroga 50000 l’anno, ed ha la percentuale di laureati più alta d’Europa, mentre noi abbiamo la più bassa).

In Irlanda è normale lavorare e studiare per un Master o un PhD, quasi sempre con un contributo dell’azienda per cui lavori, la quale ti vincola per un certo periodo di anni, perché, dato che ha investito su di te, ha il diritto di garantirsi i frutti del proprio investimento. In Italia si agita da anni il mito della flessibilità, mentre da altre parti si punta sulla formazione e sulla crescita professionale; in Italia la compiacenza è più importante della competenza, mentre basta guardarsi intorno e vedere dove vanno a lavorare i nostri giovani (ed anche i meno giovani, ehm…) per capire perché gli altri crescono e noi no. Come diceva Nietsche “il modo più sicuro per corrompere un giovane è insegnargli a stimare di più quelli che pensano allo stesso modo rispetto a quelli che pensano diversamente.”

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