Il lavoro non è una merce

Sono passati tredici anni dalla morte di Marco Biagi, ucciso dai terroristi per il suo coinvolgimento nella riforma del lavoro. Non vorrei che l’epitaffio del “Lavoro” fosse scritto dalla loro mano assassina, quasi fossero loro gli ultimi a ricollegare a quella parola significati e valori fondativi. Non si potrebbe accettarlo. Anche se oggi del lavoro […]

Sono passati tredici anni dalla morte di Marco Biagi, ucciso dai terroristi per il suo coinvolgimento nella riforma del lavoro. Non vorrei che l’epitaffio del “Lavoro” fosse scritto dalla loro mano assassina, quasi fossero loro gli ultimi a ricollegare a quella parola significati e valori fondativi. Non si potrebbe accettarlo. Anche se oggi del lavoro si parla sempre di più come di una merce, che va scambiata sul mercato cercando di rimuovere tutto ciò che potrebbe ostacolare lo scambio. Una merce il cui prezzo è fissato secondo la legge dell’equilibrio della domanda e dell’offerta. Siccome l’offerta è sconfinata, essendo miliardi nel mondo coloro che cercano nel lavoro la fonte di sopravvivenza, il prezzo deve essere libero di fluttuare sempre più in basso.

Non ci ricordiamo quando il lavoro ha smesso di essere un valore per diventare una merce, non ce ne siamo accorti. Eravamo distratti dalle meraviglie della globalizzazione, dalle immense possibilità della comunicazione istantanea non più condizionata dalle distanze, dalla facilità di acquistare ogni specie di merci a un prezzo basso come non mai: dimenticando che nelle merci è racchiuso il valore del lavoro. Tutto ha incominciato a circolare senza limiti. Il denaro per primo, spostabile da un continente all’altro con un semplice click; così le merci, ogni tipo di prodotto; persino le fabbriche hanno potuto sradicarsi e migrare lontano, lasciando dietro di sé un deserto inquinato e famiglie senza più un reddito. Tutto può circolare liberamente nel mondo globale, salvo le persone. Lo jus migrandi che all’inizio dell’era moderna era stato innalzato come fondamentale diritto naturale voluto da dio per l’uomo (anche se serviva al re di Spagna per autorizzare senza cattolici rimorsi lo sterminio dei Maja e degli Aztechi) affonda con i barconi nel Mediterraneo. Come si può sostenere la pressione di milioni di disperati che cercano lavoro da noi, quando noi stessi di lavoro non ne abbiamo più? Eppure le imprese del nord li accolgono volentieri – nelle loro aziende, non nelle loro città – perché senza di loro non potremmo più andare avanti, “perché ci sono lavori che gli italiani non vogliono più fare”. Già, è vero, non vogliono più fare a quel prezzo! Ma se si dovesse retribuire il lavoro con paghe più alte non ce la faremo più, dovremmo delocalizzare e cercare lontano costi di produzione inferiori. Cioè pagare di meno il lavoro, perché il lavoro è una merce e spetta al mercato di fissarne il giusto prezzo.

Prima non era così. La Repubblica è “fondata sul lavoro” dice la nostra costituzione nel suo primo articolo, non certo perché considera il lavoro come una merce. Oggi si è perso il senso profondo di quella disposizione. Il lavoro è il contenuto sociale della democrazia: il voto spetta a tutti, perché le istituzioni non sono più la riserva dei proprietari, dei ricchi, a cui un tempo era consentito di difendere i propri privilegi (l’”ordine sociale”, come si diceva allora) impiegando la cavalleria. Oggi le istituzioni sono di tutti, del popolo: e il lavoro è ciò che dà al popolo la dignità. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, dice la costituzione enunciando il principio di eguaglianza: ma chi assicura ai cittadini la dignità se non il lavoro? Solo attraverso il lavoro si acquisisce un posto nella società, una dignità sociale. Per questo l’accesso al lavoro è una condizione della cittadinanza stessa, ed è per questo che tutti devono avere pari opportunità di accedervi. Ed è per questo che il ministro che raccomanda suo figlio per assicurargli un posto di lavoro deve dimettersi: ha violato la costituzione, anche se non lo sa.

Bisognerà pure che ci liberiamo della visione del lavoro come merce, che ci affranchiamo dalla riduzione della nostra vita all’economia – un mondo popolato da consumatori che escono di casa sapendo quale merce è, a parità di valore nutrizionale, più conveniente e in quale supermercato la si può trovare al prezzo migliore. In quel mondo il lavoro è una merce – così come lo è l’istruzione o la cultura, l’amore o la pietà per chi soffre. Quel mondo, che è stato per decenni il contesto culturale a cui sono rimaste fedeli le istituzioni europee, è un mondo artificiale, in cui i cittadini diventano consumatori, i servizi pubblici ridotti ad attività di impresa e il lavoro abbassato a una merce. Un mondo che spetta a noi cambiare, se non vogliamo che del “Lavoro” resti solo l’epitaffio.

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