Il modello commerciale della Cina dagli anni ’80 ad oggi

Siamo abituati a sentirne parlare nei modi più disparati. È amata, odiata, estremamente temuta. Fra i vari sentimenti ciò che prevale è indiscutibilmente il suo essere unica ed imprevedibile il che non consente -certo- il ricorso ad una terminologia comune per descriverla, ed ecco che solo metafore e similitudini riescono al meglio a raccontarci la […]

Siamo abituati a sentirne parlare nei modi più disparati. È amata, odiata, estremamente temuta. Fra i vari sentimenti ciò che prevale è indiscutibilmente il suo essere unica ed imprevedibile il che non consente -certo- il ricorso ad una terminologia comune per descriverla, ed ecco che solo metafore e similitudini riescono al meglio a raccontarci la Cina. Una realtà senza confini, intrisa di antichi e profondi valori culturali e tradizioni vive e conservate in modo inalterato, in un contesto economico che evolve incessantemente.

Fabbrica del mondo, mercato mondiale presto anche guida di una banca asiatica d’investimento.

La Cina dei primi anni Ottanta, ovvero la Cina della open door policy, era decisamente un’altra Cina rispetto a quella che abbiamo oggi davanti ai nostri occhi.
Era un Paese che usciva a testa alta dai durissimi anni di buio Maoista e che con fatica, anche psicologica (!), cercava di affrancarsi sulla scena mondiale, con quell’apparente e consapevole “timidezza” al meglio riassunta nel discutissimo mantra denghiano che invitava il Paese a “Mantenere un basso profilo” (traduzione dell’espressione 韬光养晦, tāoguāng yǎnghuì, anche conosciuta con l’acronimo TGYH) per creare al meglio un ambiente favorevole, a livello internazionale, per un rapido sviluppo economico del Paese.
Slogan non passato inosservato ai principali osservatori della più grande economia asiatica, che si sono a lungo interrogati sul peso specifico di quelle parole.

C’è stato poi il momento della Cina di cui chiunque avrebbe dovuto approfittare commercialmente: la Cina della manodopera a basso costo (accettando di buon grado un sistema legislativo lavoristico, che prevedeva ben poche tutele per i lavoratori cinesi), del sistema fiscale assolutamente invitante, di una moneta indissolubilmente ancorata al dollaro statunitense evitando la tendenza all’apprezzamento, conseguente al surplus commerciale e favorendo così le esportazioni.
Una realtà troppo ‘bella’ e conveniente, per durare a lungo, secondo molti. Anche quella ormai un ricordo.

In un contesto così fortemente volubile, non può dimenticarsi l’auto-proclamazione cinese come prima “economia socialista di mercato con caratteristiche cinesi” (中国特色社会主义经济, zhòngguó tèsè shèhuìzhǔyì jīngjì, letteralmente ‘economia socialista con peculiarità cinesi’) espressione antesignana di un nuovo modello di sviluppo economico, prima d’allora inesistente, che rimanda inevitabilmente all’idea di un dinamismo economico del Paese che crea, ripensa e ripropone, allo stesso tempo, una nuova immagine di sé a livello globale.

Qual è, allora, la Cina di oggi? Quale è il suo nuovo ruolo sulla scena internazionale?
È ancora, a livello commerciale, il Paese di Mezzo (richiamando il suo nome in mandarino 中国, zhōngguó), centro di riferimento per gli operatori overseas?

L’immagine del Paese giunta a noi pochissimi giorni fa non assomiglia affatto alla Cina degli anni Ottanta, Novanta e neppure alla Cina dei primi anni Duemila; al contrario, è un’immagine che assomiglia sempre di più a quel mantra denghiano tanto discusso, quanto -in fondo- sottovalutato.

Ancora una nuova Cina, allora, questa volta con un’aspirazione estremamente ambiziosa, certamente nelle sue capacità, che le assicura un ruolo centrale e trainante non solo dell’economia interna, ma dell’intera economia internazionale e che la presenta al mondo al capo di un importante istituto bancario, l’Asian Investment Infrastructure Bank (AIIB), già nel cantiere della leadership cinese dal 2013, recentemente ricapitalizzata e formalmente fondata il 24 ottobre scorso.
Con un capitale di 100 miliardi di dollari, l’AIIB si prepara ad essere la banca mondiale di riferimento per attrarre, attraverso la collaborazione con le banche multilaterali di sviluppo e di investimento già esistenti, investimenti in infrastrutture (in particolare nel settore dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia) suscitando clamore per aver lanciato apertamente una sfida agli Stati Uniti usando l’arma dello yuan.

Una notizia che non può non scuotere l’ordine economico internazionale e che arriva, non a caso, in un periodo di grandi riforme del Paese in attuazione del programma di privatizzazione, già iniziato con l’ascesa di Deng Xiaoping al potere, e che è culminato -in ultimo- con la teoria dei cd. “Quattro complessivi” (四个全面,sì gè quánmiàn) dell’attuale Presidente Xi Jinping. E dei ‘quattro complessivi’ è in particolare il primo ad essere indicativo in questo contesto e a mantenere salda la continuità con il passato, con l’invito a una complessiva costruzione di una società moderatamente prospera (全面建成小康社会, quánmiàn jiànchéng xiǎokāng shèhuì), che fa eco alle ideologie promosse dagli esponenti delle precedenti leadership cinesi, le quali non hanno mai rinunciato alla crescita economica del Paese.

Una nuova immagine che fa da pendant agli incisivi emendamenti, in atto, con riferimento ai Foregin Direct Investments (FDI) caratterizzati da una maggiore apertura del Paese agli investimenti overseas, nei principali settori economici di interesse strategico del Paese (gli stessi a cui l’AIIB è orientata) e che favoriranno ulteriormente la crescita economica della più grande potenza asiatica e presto mondiale.

Il quadro è presto chiaro.

Quale che sia l’immagine che la Cina farà trapelare di sé o che noi percepiremo di essa, sarà comunque quella del principale attore economico sulla scena mondiale di cui non potremo che essere disillusi spettatori.

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