Il paradosso di Goffman e il cammino verso il 2019

La parola “connessione” ci porta inevitabilmente all’idea della tecnica come strumento e veicolo principe delle moderne reti sociali tra persone. Eppure la necessità di connessione è un bisogno innato dell’essere umano che prescinde dallo strumento adottato per soddisfarlo. È curioso ripercorrere la storia dell’evoluzione degli strumenti che facilitano la connessione tra esseri umani. È curioso […]

La parola “connessione” ci porta inevitabilmente all’idea della tecnica come strumento e veicolo principe delle moderne reti sociali tra persone.
Eppure la necessità di connessione è un bisogno innato dell’essere umano che prescinde dallo strumento adottato per soddisfarlo.
È curioso ripercorrere la storia dell’evoluzione degli strumenti che facilitano la connessione tra esseri umani.
È curioso perché se si analizza quanto accaduto negli ultimi quindici anni, ci si rende conto che abbiamo raggiunto un livello di relazione che è in grado di abbattere barriere geografiche, temporali o culturali in un modo che prima era impossibile anche solo da immaginare.

I media digitali abbattono i confini, dicono alcuni. Eppure quella “estensione della sensorialità” descritta da McLuhan, oggi assume quasi la forma di cui parlava Ervin Goffman con la metafora del vagone ferroviario.
In un vagone ferroviario sovraffollato, molte persone difendono il proprio spazio personale, benché pigiate le une con le altre, fissando lo sguardo al di fuori del finestrino: se il loro corpo, inteso in senso strettamente fisico, è offeso dalla mancanza di una minima distanza dagli altri corpi lì presenti, la vista permette loro di essere cognitivamente altrove, dunque di estendere il territorio del sé verso zone socialmente e individualmente più sicure.
Le dimensioni dello spazio interno al soggetto, non si misura pertanto solo in base alle relazioni che esso intrattiene con altri soggetti in o intorno al quel territorio, ma anche ai processi sensoriali che in ogni specifica situazione vengono messi in atto.
Oggi viviamo una sorta di “Paradosso di Goffaman”. Siamo alla ricerca continua di stimoli sensoriali che prescindono dalla nostra fisicità, in cui si annulla tutto quello che c’è di concreto.
Nel giro di pochissimi anni, proprio in virtù di questo processo di sovraffollamento sensoriale, il bisogno innato di comunicare sta tornando a prendere una forma antica. Quella del reale, del concreto, del tangibile e del geografico, che vive e si relaziona in maniera ormai imprescindibile con il mondo digitale che ci circonda.

Quanto successo a Matera durante il percorso di candidatura per la Capitale Europea della Cultura per il 2019 è stato forse il miglior esempio di come sia riemersa fortemente questa necessità di fisicità, di connessione umana tra persone, di senso del tangibile. La peculiarità di un territorio (non necessariamente geografico) di sapersi unire attorno ad uno stesso obiettivo comune, ha portato i due mondi a compensarsi e a creare un nuovo unico veicolo di connessione. Un catalizzatore eccezionale per stabilire la collaborazione necessaria a creare quello che è stato fatto soprattutto nell’ultima parte del lavoro di candidatura.
Un territorio che si è prodigato concretamente, cha ha visto persone attraversare la Basilicata a piedi dimostrando che non c’erano più barriere culturali e campanilismi stupidi tra le due province.
Persone che hanno speso e continuano a spendere il loro tempo per insegnare a programmare a ragazzini di 8 o 9 anni e che girano ormai le scuole del sud Italia fisicamente, per lasciare lì dentro qualcosa di intangibile, ma necessario al futuro di quei ragazzi e di quei territori.
Persone che hanno deciso di prendere una bandiera che rappresentava quell’obbiettivo comune e farla propria, personalizzandola in migliaia di modi diversi, raccontando attraverso essa come gli uni diventano parte del tutti.
Persone che sono fisicamente arrivate da tutta Europa a Matera per ascoltare, raccontare e raccontarsi ai cittadini, in uno scambio di culture intangibile che ha lasciato e lascerà il segno nelle culture locali per sempre.

Così come, al contrario, durante la visita della commissione valutatrice avvenuta il 7 ottobre 2014, un hashtag è stato in grado di collezionare i sentimenti e i punti di vista di una città e di una regione che si stava per la prima volta guardando davvero allo specchio, mostrando competenze, passione, apertura, ospitalità. Uno straordinario racconto collettivo che colmava la necessità di ubiquità fisica che tutti, ma proprio tutti, volevano avere durante quella giornata. O ancora il FOMO, l’ìnstant book stampato e rilegato a fine giornata per colmare fisicamente la paura di perdersi qualcosa (Fear Of Missing Out).

L’avventura di Matera è stata una avventura di connessioni e collaborazioni. Di mescolanza tra il digitale e l’analogico. Uno straordinario riappropriarsi della dimensione umana delle cose, delle persone, delle anime e della terra. Una dimensione umana capace di esplodere lasciando il segno anche in un mondo che vive di bit.
Per la prima volta dei cittadini hanno dimostrato quanto sia necessario guardare al futuro con il presente nelle mani, creando cittadinanza connettendosi con le persone, incontrandosi, abbracciandosi, piangendo e gioendo insieme. Ma forse non è un caso che sia stata nominata Capitale europea della Cultura per il 2019 la città continuativamente abitata più antica del mondo. Quella che nell’era dell’attrazione dei sensi nell’altrove, ha saputo riconoscere il valore dello stare in un luogo, del collaborare e dello stabilire quella connessione tangibile tra persone di cui abbiamo sempre più bisogno.

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