Il talento non è uno show

Tutti parlano di talenti, ma il successo delle aziende si costruisce con le persone “normali”. In questi ultimi vent’anni di vita manageriale l’avrò sentito ripetere migliaia di volte: “Talenti. Cerchiamo talenti. Puntiamo sui talenti. Coltiviamo talenti. Abbiamo bisogno di talenti”. Sinceramente sono un po’ stanco e non sono per nulla convinto che sia questa la […]

Tutti parlano di talenti, ma il successo delle aziende si costruisce con le persone “normali”.

In questi ultimi vent’anni di vita manageriale l’avrò sentito ripetere migliaia di volte: “Talenti. Cerchiamo talenti. Puntiamo sui talenti. Coltiviamo talenti. Abbiamo bisogno di talenti”.

Sinceramente sono un po’ stanco e non sono per nulla convinto che sia questa la strada e mi vengono in mente almeno tre grandi temi sui quali riflettere.

Gli aspetti su cui riflettere

Per prima cosa, si tratta di parole e significato. Le parole nascono con un senso ma il senso si stravolge e si perde in base all’uso che ne facciamo, e anche alla frequenza. Anche per talenti, come per tante altre buzzword, è successo che la parola si sia svuotata completamente di significato e oggi confondiamo la parola “talenti” con giovani ad alto potenziale.

Secondariamente è questione di numeri e pragmatismo: i talenti, prim’ancora di indagare e disquisire su chi siano e cosa valgano, sono una percentuale minima della popolazione sia che si tratti di una classe di alunni, di una squadra di calcio, di un’azienda o di un intero Paese.

Iniziamo pensando al calcio, uno sport che in Italia è sempre utile per introdurre il discorso. Quanti veri talenti possiamo contare nel calcio degli ultimi 40 anni? I mostri sacri come Zico, Maradona, Pelè, Cruijff, Van Basten, Messi fino a Cristiano Ronaldo.

Chiaramente ognuno, per fede e visione, può allargare e modificare la lista a proprio piacimento. Qualcuno inserirà Pirlo o Totti o Del Piero o Maldini e Roberto Baggio. Non è chiaramente questo l’argomento sul quale voglio soffermarmi. Il punto è che, definendo “talento” qualcuno che svetti nettamente sul resto della popolazione in esame, per forza di cose ci ritroveremmo con un campione molto ristretto. Per facilità di calcolo, con un metodo puramente spannometrico, considerando solo il calcio professionistico della serie A, una carriera media di 10-12 anni a calciatore, e limitandoci solo alla metà delle oltre 200 nazionali iscritte ai campionati mondiali, credo si possa arrivare per difetto a considerare che siano oltre 500.000 i calciatori professionisti che hanno calcato il terreno di gioco negli ultimi 40 anni.

Il terzo punto è che si tratta di esperienza e non di età, ma ci torno più avanti.

Quanti talenti nelle aziende, conti alla mano?

A questo punto, stimando che vi siano stati nello stesso arco temporale 50 talenti, ci rendiamo conto che si tratta appena dello 0,01 %!

In altri ambiti e con altri metodi di calcolo, potremmo arrivare a percentuali diverse ma abbastanza simili e comunque sempre molto basse. Come è possibile allora che in un’azienda di 200 persone ci siano 10 talenti? O che in alcune aziende siano addirittura predefiniti secondo metriche globali per cui il 3% il 4 o il 5% della popolazione viene considerata un talento?

Abbiamo un problema. Anzi, rimanendo sul campo dei numeri, ne abbiamo altri tre:

1) forse non tutti i talenti sono davvero talenti

2) forse non tutti i manager sono strutturati per riconoscerli

3) stiamo ponendo troppa attenzione su una minoranza, perdendoci il resto della popolazione, “i non talenti”, la maggior parte delle persone di un’azienda.

Se volessimo complicare il discorso, potremmo ragionare di talenti mancati” o mai pienamente sbocciati e quindi sull’efficacia di certi programmi di sviluppo del talento proposti dalle aziende ma ora rischieremmo di andare fuori strada.

Non ho l’età

In tutta la mia carriera di quelli che posso definire davvero talenti, ammesso che sia stato in grado di riconoscerli, ne ho incontrati e “gestiti” davvero molto pochi e sono stati paradossalmente gli unici di cui ho dovuto davvero occuparmi poco, cercando semplicemente di fare minor danni possibili e limitandomi a dare qualche indirizzo o qualche consiglio lasciando loro la possibilita’ di correre liberi da soli e dove volevano.

Quel che ho capito è che lavorare con i talenti significhi più permettere di esprimere il loro estro che ingabbiarli in processi e operazioni standardizzate da Corporation.

Attribuire in modo cosi’ arbitrario e a volte superficiale il bollino di talento ad una ragazza o ad un ragazzo bravo o ad alto potenziale significa probabilmente creare loro nel tempo un grave danno perche’ verranno discriminati dai colleghi, dovranno misurarsi con aspettative ed obiettivi che non sono realmente alla loro portata e vivranno probabilmente nella frustrazione di chi era stato considerato un talento e non ce l’ha fatta, perche’ oltre ad esporli in pubblico per rifarsi un po’ il look della propria azienda, quanti di loro davvero poi fanno veramente carriera nelle aziende ?

Il che introduce un’altra e più importante domanda: che cos’è il talento?

Talento in cosa? Talenti dove? Che cos’è il talento?

Partiamo dall’etimologia e dal significato di talento, secondo l’Accademia della Crusca: la parola talento viene dal latino talentu(m) a sua volta dal greco tàlanton che inizialmente significava l’inclinazione (della bilancia) per passare a indicare l’oggetto pesato e poi la moneta”.

Alla Parabola dei Talenti nel Vangelo secondo Matteo che narra dei talenti distribuiti da un padrone ai propri servi in differente quantita’ e dall’uso che poi ne fecero dobbiamo invece l’attribuzione di molti e diversi significati della parola talento nel tempo fino ai giorni nostri, significati come: capacita’ innata, straordinaria predisposizione ad un’ arte o ad un sport e persino genialita’

Al di là di considerazioni religiose e inerenti alla morale, mi sembra che si possa partire da qui per evidenziare alcuni elementi comuni del talento.

Il talento non è sempre innato. Un brillante chirurgo è anche e soprattutto frutto di studio, esperienza e anni di lavoro.

Il talento non riguarda le “doti” ma cosa fai con le doti che ti sono state date. Il talento non è potenzialità: per questo dovremmo fare attenzione quando parliamo di “talenti” e vorremmo invece dire “potenziali”.

Il talento non ha età. Vale anche qui la distinzione tra “talenti” e “potenziali”. Ma se ci atteniamo alla logica e definiamo il talento come vera eccellenza, è possibile che con l’età si affini e si manifesti più che scomparire. Una tesi confermata anche da diversi studi, primo tra tutti quello del professor Anders Ericsson, principale ricercatore sul tema del talento, che ha evidenziato come nella storia, da Mozart a Tiger Woods, ciò che “causa” il talento è pratica e pratica deliberata. Era sua la famosa regola delle 10.000 ore.

Aziende e sport sono simili, ma diversi.

 

Anche se io stesso, in queste righe, ho utilizzato analogie con lo sport e con il calcio, il talento che arricchisce le aziende segue logiche completamente diverse. È un tipo di talento che si manifesta in diverse forme e in diversi modi e che spesso riguarda la capacità di aggiungere valore in un gruppo e non di risolvere tutto da solo.

Resta a mio avviso il fatto più importante: qualunque cosa intendiamo per “talento”, il successo delle aziende si costruisce con le persone “normali”.

È  di quelli “normali” che ci si deve invece preoccupare ed occupare e anche molto perche’ se supportati possono diventare bravi o molto bravi. Sono loro quelli sui cui si deve investire e sui quali si puo’ avere un maggiore impatto ed è a loro, piu’ che ai talenti, che si deve il successo o meno di un’azienda.

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