Ma che informazione vi aspettate se i giornalisti fanno la fame?

È un dato di fatto: basta osservare le vergognose offerte di lavoro che riguardano il settore del giornalismo. E a volte è lo Stato che fa da modello per il precariato e lo sfruttamento dei professionisti dell’informazione

05.12.2023
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Partiamo da un fatto: in Italia i giornalisti guadagnano una miseria. E lasciate perdere medie e analisi di settore o i vari siti di offerte di lavoro che per tirare fuori un numero mettono insieme dati che solo all’apparenza sono attinenti l’uno con l’altro: pompati da contratti da favola di qualche decennio fa o lauti stipendi pubblici (leggasi RAI), i numeri professionali non tengono conto di un panorama variegato fatto per lo più di una platea di collaboratori (o dichiarati tali) che per l’83% dei casi non arrivano a racimolare dalla loro professione più di 10.000 euro l’anno (dati LSDI). L’Osservatorio sul giornalismo 2017 dell’AGCOM affermava che “nel 2015 il 40% dei giornalisti attivi era situato nella fascia di reddito con meno di 5.000 euro da attività professionale. Oltre la metà (55%) percepiva meno di 20.000 euro” (fonte: Informazione Fiscale).

Da allora la situazione non solo non sembra migliorata, ma è addirittura peggiorata. Per qualche motivo, il giornalismo così bravo a parlare di lavoro (altrui) – ricamando storielle strappalike come quella della bidella sull’alta velocità Milano-Napoli e dando spazio alla solita vacua retorica per cui giovani e percettori di Reddito di Cittadinanza non vogliono lavorare nonostante stipendi da favola e contratti blindati – continua a non guardare a sé stesso. Alle offerte di lavoro che senza vergogna intasano LinkedIn. Del volontariato o quasi che talune sedicenti testate online chiedono agli “aspiranti” giornalisti in cambio dell’agognato tesserino dell’unico Ordine la cui abilitazione alla professione è da sempre un mistero, in quanto poi la libertà di espressione con qualunque mezzo sarebbe garantita (e lo dicono le stesse carte che regolano la professione) dall’articolo 21 della Costituzione – così a più riprese interpretata.

Nel giorno in cui il Post pubblica un’offerta di lavoro (perché le offerte di lavoro, anche se in un post Facebook, sono comunque offerte di lavoro) in cui è richiesto al candidato di “sapere cose internazionali” (sic!), tale discussione sul fare il giornalista in Italia mi ha mostrato tutte le sue falle, tra reazioni, commenti e articoli correlati nei feed. Una, però, su tutte: la collaborazione. O meglio, l’utilizzo del termine freelance.

Freelance è colui che nell’immaginario collettivo (e nei film americani) confeziona un prodotto giornalistico e lo rivende. È libero, felice e fa il suo prezzo. La collaborazione giornalistica all’italiana è diversa. Prevede una partita IVA e una iscrizione a una previdenza separata (INPGI 2) di cui ci sarebbe da parlare per ore, giorni e settimane (basti pensare alla fine che ha fatto INPGI 1). Inoltre, il prezzo è fissato dal committente e non da chi eroga la prestazione, e spesso non offre tale libertà di movimento. Il collaboratore (a partita IVA) di una testata autorevole (e non di un sitarello di quelli che, sebbene registrati all’Ordine, ormai sbucano come funghi in autunno) non lavorerà mai per un concorrente.

Passiamo ai prezzi, per questi collaboratori: si va dai 5 ai 15 euro ad articolo, quando non si lavora gratis per la sola gloria (e il tesserino, e la convinzione che puoi andare a seguire la squadra del cuore allo stadio). Lordi. Al netto, per una partita IVA forfettaria di lungo corso e al netto delle addizionali comunali e regionali, parliamo di spiccioli. Di contro, a tali figure viene richiesta professionalità, competenze, conoscenze, disponibilità oraria, e anche di assumersi le responsabilità delle proprie parole (finanche legali).

Diciamolo: una pazzia. Un gioco che non vale la candela. E infatti l’informazione ne risente. La “crescente precarietà che mina pericolosamente il giornalismo, il suo dinamismo e la sua autonomia” è uno dei motivi che evidenzia il World Press Freedom Index del 2023 per spiegare il quarantunesimo posto dell’Italia in tema di libertà di stampa, e si tratta addirittura di un miglioramento rispetto al 2022 in cui eravamo cinquantottesimi.

Ma quando l’anormalità diventa normalità, il problema è che certi paradossi finiscono per essere pronunciati quasi come se nulla fosse. Tipo tutte quelle volte che ho letto sotto un’offerta per giornalista o addetto stampa la dicitura “contratto di lavoro: partita IVA”. Tipo quell’offerta di lavoro per giornalista che diventava aspirante giornalista per poi finire con volontario in cui mi sono imbattuto il 23 marzo 2021, che mi fece trasalire al punto tale da contattare sindacato e vertici di categoria. Quello dell’amica e collega Nunzia Marciano, anni di tv a curriculum, che mi mostra una offerta di lavoro a lei proposta di 10 euro ogni quattro articoli prodotti. E ancora ricordo il 1 luglio 2022 la redazione di Gol in rete invitava gli aspiranti giornalisti a mettersi alla prova con un articolo di 500 parole per poi iniziare una collaborazione gratuita.

Una volta poi ho fatto un post di quelli che vanno virali su LinkedIn, non ricordo il nome della realtà ma ricordo alla perfezione l’imbarazzo di ciò che offrivano. Mi risposero a muso duro accusandomi di essere un grinch dal cuore di pietra perché non capivo che in realtà loro erano giovani, carini e pieni di passione e quello era ciò che potevano offrire (vi racconto una cosa, amici: nessuno vi obbliga a farvi il sito d’informazione; aprite un blog e raccontatevi ciò che volete, ma non coinvolgete altri poveri innocenti in questo gioco al massacro se non potete permettervelo). E ancora ricordo di quello che – bellissimo, eh – ci teneva a ricordare che l’annuncio è rivolto ad ambosessi ma offriva 2,50 euro ad articolo per fare il ghost writer su celebrità. E ancora l’aspirante speaker per la radio che però è no-profit. Il mio collega e amico Gianmaria Roberti (che ne sta collezionando nell’ottica di scriverci un libro) di recente mi ha mostrato una testata giornalistica che cerca scrittori di redazionali con o senza esperienza ma con esperienza, il tutto per 500 euro al mese.

Ma il problema non è nemmeno tanto questo. È che tale modo di intendere la collaborazione è ormai entrato nella dialettica social, al punto da leggere da appartenenti alla categoria più di una volta (l’ultima non più di due ore da quando scrivo questo testo) “freelance” e “stipendio” nella stessa frase. Frutto di una subcultura italiana della collaborazione professionale che non vede certo i giornalisti esenti da tali logiche, mentre sognano il posto prestigioso (o allo stadio in tribuna stampa).

Non è così, non dovrebbe essere così. A maggior ragione in un Paese che vanta un Ordine professionale (caso unico nel suo genere) che ha la responsabilità di arginare tale deriva.

E intanto lo Stato che fa?

Bene: precarizza i suoi giornalisti. Non esistono solo i famosi ricercatori del CNEL di Brunetta a titolo volontario a studiare i trend di mercato. La tendenza a esternalizzare (e precarizzare) è sempre più forte e riguarda anche i professionisti dell’informazione. Sarebbe dovere delle pubbliche amministrazioni dotarsi di giornalisti iscritti all’Ordine (e non entriamo in questa sede nella distinzione pubblicisti/professionisti che non ne usciamo più) per la comunicazione verso i media, il cosiddetto “ufficio stampa”. E lo Stato, che è sempre il padre di famiglia da cui prendiamo esempio, a più riprese ci sta mostrando come si precarizza un professionista con importanti responsabilità.

Tengo ben impresso la storia di Castiglione del Lago. Lì il Comune nel 2022 ha lanciato un avviso pubblico per conferimento di incarico di addetto stampa. La richiesta: “Curare i collegamenti con gli organi di informazione, in stretta collaborazione con la struttura, assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell’ente stesso”. Ancora: “Attività di ufficio stampa rivolta ai media locali, nazionali ed internazionali (agenzie di stampa quotidiani e periodici, emittenti radiofoniche e televisive, ecc.); elaborazione ed invio comunicati stampa; interviste con gli amministratori; convocazione conferenze stampa e realizzazione materiale per cartelline stampa; partecipazione agli eventi dell’ente con relativi comunicati e rassegna stampa finale; realizzazione archivio stampa e fotografico; gestione dei rapporti con gli uffici comunali a fini di supporto alla comunicazione istituzionale del Comune; realizzazione grafica/editoriale di materiali di comunicazione atti a supportare l’attività istituzionale dell’ente e gli eventi in collaborazione con gli uffici comunali competenti; aggiornamento del sito internet istituzionale e dei social network istituzionali (facebook, twitter, ecc.), assistenza e monitoraggio; gestione dell’informazione anche mediante audiovisivi e strumenti telematici con particolare riferimento alla creazione di contenuti destinati ai social network dell’Amministrazione; invio di newsletter; individuazione e adozione di una modalità di gestione delle attività redazionali necessarie alla presenza quotidiana sui social media; monitoraggio regolare del web e dei social media al fine di sondare il sentiment relativo al Comune di Castiglione del Lago e fornire periodiche analisi dettagliate del lavoro che si sta svolgendo, dei risultati ottenuti, delle criticità e delle prospettive; ogni altra attività rapportata alla funzione di addetto stampa, secondo gli indirizzi dell’Amministrazione, il contenuto delle disposizioni di legge, delle norme e procedure dell’ente, assicurando sempre il rispetto delle regole deontologiche proprie della professione giornalistica”.

Il tutto, secondo il Comune di Castiglione del Lago, non solo non rappresenterebbe un rapporto subordinato, ma varrebbe (udite udite) la tondissima cifra di 550 euro netti al mese.

Direte, caso isolato? E invece no. Il Comune di Charvensod, quale ente capofila dell’ambito sovracomunale Charvensod-Pollein, ha emesso qualche tempo fa un avviso pubblico per la manifestazione di interesse al conferimento di un incarico di addetto alla comunicazione esterna dei due Comuni. A base di gara, come compenso per un tempo determinato di un anno, 6.000 euro lordi annuali (pari a 545 euro lordi al mese), comprensivo di ogni onere previsto per legge (contributi previdenziali, IVA o IRAP) in relazione alla tipologia contrattuale.

A Montegrotto Terme, invece, il compenso (lordo) è stato fissato in 1.500 euro. Ma con richiesta di partita IVA. A Cesano Boscone il capo ufficio stampa del Comune lo cercavano freelance, a Castelvetrano addirittura su “base volontaria”. Anche a Montebelluna hanno chiesto un libero professionista, ma con reperibilità h24. Questi li raccoglievo qualche mese fa.

Ne volete una un po’ più recente? Vicino casa mia, il Comune di Giugliano in Campania lo scorso luglio offriva alla figura da inserire come responsabile della comunicazione 15.000 euro lordi, omnicomprensivi di ogni liquidazione e spesa sostenuta. Non al mese: per un anno. E il rapporto, chiaramente, era a partita IVA, e il professionista della comunicazione, oltre ai classici ruoli di addetto stampa con una stima di invio e archiviazione di mediamente dieci comunicati al mese e l’organizzazione di trenta conferenze stampa, doveva anche occuparsi dei rapporti con i dirigenti, dei testi e delle comunicazioni dell’app, e dalla realizzazione di filmati (sta tutto nell’avviso, eh).

Ecco, tutto quello che leggete in realtà è solo punta dell’iceberg di un settore, quello giornalistico, le cui responsabilità di questo macello hanno radici antiche e condivise, fatte di ambiguità e interpretazioni, ma così endemiche che spesso mi trovo a pensare che l’unica soluzione è radere a zero e riformare tutto.

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