Festival del cinema, palma d’oro allo sfruttamento

Quando la fabbrica dei sogni sfrutta quelli dei suoi operai. Abbiamo raccolto esperienze e testimonianze di chi ha lavorato in diversi festival cinematografici, da Roma a Milano: compensi opzionali, sessismo e burnout sono una tendenza comune. E sono la punta dell’iceberg

Festival del cinema e sfruttamento: un operaio solitario prepara il red carpet

Chi ambisce a timbrare il cartellino nella fabbrica dei sogni fatica a rendere la sua passione un lavoro stabile. Anche se il mondo dello spettacolo è un settore che prospera, e al suo traino prosperano anche i festival del cinema.

In genere, quando si parla dei “professionisti invisibili” del settore, si fa riferimento a tecnici e maestranze. Ma che cosa si scopre quando si dà la parola ai lavoratori degli eventi che celebrano i prodotti cinematografici?

Non mi hanno mai pagata, con la prospettiva di un’assunzione”; “non mi hanno rinnovato il contratto e mi hanno costretta ad aprire una falsa partita IVA”; “ho visto aggressioni alle colleghe, pianti e burnout”. E sono solo alcuni estratti delle testimonianze che abbiamo raccolto.

Dicono che non si investe abbastanza nella cultura, men che meno nel cinema. Forse, però, è il caso di chiedersi se la cultura e il cinema investano abbastanza nel lavoro.

Il giro di denaro dei festival del cinema: nella cultura investe sia il pubblico che il privato

Con la 76ª edizione del Festival di Cannes in corso dal 16 al 27 maggio, con i David di Donatello alle spalle e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia attesa quest’anno alla fine di agosto, i premi e i festival del cinema non hanno bisogno di presentazioni.

11, 6 milioni di euro è la somma stanziata nel 2023 dalla Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del ministero della Cultura per la concessione di contributi destinati a iniziative di promozione cinematografica e audiovisiva. Di questi, 7 milioni saranno destinati a rassegne, festival e premi cinematografici – “500.000 euro più del 2022”, sottolinea il sito ufficiale dell’AFIC, l’Associazione Festival Italiani di Cinema.

Ma sono soprattutto occasioni culturali di importanza territoriale, al punto che, dopo il Mic e i bandi pubblici, sono proprio le Regioni a elargire i contributi più sostanziosi. Altra fonte maggioritaria di sostentamento sono i bandi europei come Networks of European Festivals di Europa Creativa, che fornisce finanziamenti a supporto della cooperazione tra festival europei per la circolazione di opere non nazionali, e stanzia un budget di 5 milioni di euro. Infine c’è la lunga trafila di sponsor privati che erogano fondi, beni e servizi per la riuscita dell’evento.

Un giro di denaro invidiabile, molto spesso pubblico. Una parte del quale alimenta lo sfruttamento di lavoratori e volontari.

Grandi iniziative, un enorme lavoro e diverse partnership, alcune delle quali, come abbiamo scoperto, si avvalgono di personale pagato 390 euro per dieci giorni di lavoro, dalle otto alle dieci ore giornaliere, con spostamenti e pasti a proprio carico.

Volontari, anzi collaboratori. E alla Festa del Cinema di Roma i partner pagano 3,9 euro all’ora

Non stupisce, perciò, la longevità e il gran numero di festival del cinema disseminati in tutto il Paese. Solo quelli registrati all’AFIC nel 2023 sono 105 (nel 2019 erano 72), ma in Italia ne esistono molti di più, al punto che farne una stima è quasi impossibile. Il sito dell’AFIC pubblica i cataloghi delle rassegne, gli appuntamenti mese per mese, e mette in contatto con i festival chiunque sia interessato a lavorare all’interno di eventi dedicati al mondo del cinema.

Sulla pagina da cui è possibile consultare le offerte si fa riferimento a posizioni di volontariato, ma queste figure sono più spesso indicate come collaboratori. Svolgono mansioni che vanno dal supporto nelle selezioni dei prodotti cinematografici ad attività di segreteria, compilazione di bandi, realizzazione di contenuti grafici, video e testuali, fino ad arrivare alla logistica e all’accoglienza durante l’evento.

Si parla più spesso di ragazzi e ragazze freschi di laurea, innestati in corsa nelle attività organizzative; la definizione di volontari sembrerebbe coerente, se si pensa alla natura associativa delle iniziative festivaliere. Dietro un festival del cinema, infatti, c’è quasi sempre un’associazione senza scopo di lucro: sono tra i pochi enti che possono ottenere i fondi stanziati dai bandi pubblici.

Del volontariato, tuttavia, viene meno la libertà di gestione dei tempi e degli sforzi, e la possibilità di affiancarvi attività lavorative parallele. L’esca adoperata in quasi ogni occasione è la prospettiva di fare carriera in un settore che fa brillare gli occhi a molti.

Un esempio? La Festa del Cinema di Roma è uno dei festival italiani più importanti, compie quest’anno la maggiore età e propone tutti gli anni proiezioni, anteprime, incontri, masterclass ed eventi per raccontare il cinema nazionale e internazionale. Grandi iniziative, un enorme lavoro e diverse partnership, alcune delle quali, come abbiamo scoperto, si avvalgono di personale pagato 390 euro per dieci giorni di lavoro, dalle otto alle dieci ore giornaliere, con spostamenti e pasti a proprio carico. Siamo tra i 3,9 e i 4,8 euro all’ora.

Testimonianze di questo e di altro tipo non sono infrequenti tra chi ha lavorato per eventi simili. Prendere in analisi il punto di vista dei collaboratori significa distogliersi dall’ipnosi dello spettacolo per toccare con mano una realtà di sfruttamento – che qui ci viene raccontata da Giulia, Laura e Tommaso. Tutti nomi di fantasia, per evitare eventuali rappresaglie da datori di lavoro vecchi e nuovi.

"Ha detto di avere amicizie in Regione e mi ha fatto scrivere il bando al posto suo, poi mi ha intimato di stare al mio posto. E l'ha vinto."

«Addio al contratto, costretta a una falsa partita IVA. Mentre altri vincono il bando scritto da me»

Giulia lavora per un festival di Roma e ricopre una posizione di coordinamento e supervisione generale. Insieme a pochi altri è una figura fissa del personale che lavora per la realizzazione dell’evento, e tra tutte le attività previste vi dedica dodici mesi all’anno, quasi sempre in orario full time.

Percepisce 1.000 euro mensili e si fa carico di numerose mansioni, tra cui organizzazione, segreteria, scrittura dei bandi, animazioni, contatti con collaboratori esterni e con i partner, lettere di patrocinio, compilazione delle scalette, supporto alla regia, rendicontazioni e cura del catalogo. All’inizio, ci spiega, percepiva 200 euro al mese come assistente. In oltre un lustro di collaborazione si è resa un elemento fondamentale dell’organizzazione, ma nonostante le molte promesse di stabilizzazione non ha ottenuto la crescita in cui sperava.

«Tra i comportamenti spiacevoli che mi hanno coinvolta o a cui ho assistito ci sono state molestie, mobbing ed espressioni offensive che mi sono state rivolte come critica sullo svolgimento di mansioni che pure non mi competevano. Ho avuto per un breve periodo un contratto a tempo, che è stato chiuso con sole due settimane di preavviso. Ho ricevuto pressioni per procedere all’apertura della partita IVA a compenso ribassato. A questo si sommava la pretesa di continuare ad avere da parte mia le performance di una lavoratrice dipendente. C’è stata verso di me e una mia collega la pretesa di avere voce in capitolo sui nostri spostamenti, dopo la chiusura del contratto. Oltre a considerazioni di natura personale sul nostro tempo libero, anche durante le festività, in contrasto alle necessità organizzative del festival».

Tra gli episodi che racconta ce n’è uno che riguarda una collaborazione con un progetto di festival a cui Giulia è stata “prestata” come consulente per la preparazione di un bando regionale, la cui organizzatrice vantava alcune amicizie in Regione che avrebbero garantito il successo dell’iniziativa. A Giulia viene chiesto di occuparsene gratis, poiché la nascita del suddetto evento avrebbe fruttato una nuova entrata; prospettiva desiderabile, specie con l’imposizione della partita IVA.

«La collaborazione non è finita bene. Ho capito presto che stava cercando di fare in modo che scrivessi tutto io, mentre stando agli accordi avrei solo dovuto integrare il lavoro svolto da lei. Eravamo d’accordo che dovesse inviarmi uno scheletro del progetto che avrei poi dovuto sistemare. A ridosso delle scadenze mi ha detto di non avere il tempo di farlo; così ho lavorato in fretta e nel fine settimana, al posto suo, per portare tutto a termine. Conclusa la scrittura, lei ha cambiato atteggiamento, affermando che il progetto non poteva più farsi insieme alla nostra associazione. Per questo lavoro straordinario non ho percepito alcun pagamento extra e mi sono state rivolte delle espressioni classiste, quando ho obiettato di fronte alla sua marcia indietro. Mi ha intimato di “stare al mio posto”, e mi ha detto che senza di lei in Regione non si sarebbe mai fatto niente. So che alla fine il bando scritto da me lo ha vinto».

"Gli servivano donne sotto i trentacinque anni per vincere un bando. Così ho lavorato gratis per mesi, in attesa dell'assunzione."

«Vieni a Milano a spese tue», dopo mesi senza pagamento, in cambio di «conoscenze»

Laura ha avuto contatti con più festival, ma per periodi più brevi.

Uno di quelli che cita è un festival toscano molto longevo. Racconta che si era accordata per una collaborazione anticipata da un periodo di prova. Avrebbe dovuto curare la parte itinerante del festival, e tra i suoi incarichi c’era quello di mettersi in contatto con alcuni registi per coinvolgerli nell’evento.

«La collaborazione si è interrotta perché, passato il periodo di prova, non avevano ancora intenzione pagarmi. In quel periodo avevo risposto anche a richieste fatte alle undici di sera e avevo lavorato tutto il mese senza nessuna retribuzione. Così, quando mi è stato chiesto di fare lo stesso per quello successivo, ho rifiutato. Sono poi stata ricontattata dopo un paio di mesi. Il direttore artistico al tempo cercava di vincere un bando e diceva di avere bisogno di impiegare donne sotto i trentacinque anni, perché era uno dei requisiti richiesti. Vinto il bando, avremmo avuto la nostra retribuzione, o almeno così ci è stato promesso. Abbiamo ricevuto il compito di curare la sezione cortometraggi: dovevo portare alla sua attenzione i lavori più interessanti e supportare le attività di selezione; dovevo anche cercare e mettermi in contatto con delle scuole di cinema per coinvolgerle nei progetti del festival. Le attività sono durate un altro mese, di nuovo non retribuito. Io e le mie colleghe abbiamo presto abbandonato, il carico era eccessivo e non siamo mai state pagate. A questo si aggiungono comportamenti inappropriati: mi è stato chiesto spesso se avessi o meno il ragazzo e ho ricevuto commenti sul mio aspetto».

Laura non ha più avuto notizie sulla vincita del bando.

Un piccolo rimborso spese di 250 euro lo ha ricevuto invece per un festival che ha seguito a distanza, per un periodo più lungo. Anche in questo caso sono emersi problemi per la quantità di staff e il carico di lavoro.

«Durante il COVID-19 lavoravo dalle sei alle sette ore al giorno, da marzo a ottobre. Lo staff era composto solo da tre persone fisse. La direttrice artistica ci incaricava di richiedere dei film, anche internazionali, ottenendo i permessi per la proiezione a strettissimo giro e negoziando sui costi. Questo costringeva la segreteria ad attività repentine e intensive. Una volta sono stata contattata in tardo orario e nel fine settimana per essere ripresa in modo duro, proprio in merito a una mancanza su questa mansione. La direttrice artistica al tempo aveva costruito oltre dieci sezioni, tutte da riempire con film per cui effettuare richiesta, con un costo che in totale ha assorbito dai 2.000 ai 3.000 euro, a discapito degli stipendi del personale. Non vi è mai stato un tentativo di ridimensionare il festival per garantire più stabilità a noi collaboratori. Arrivati in prossimità delle date dell’evento mi ha chiesto se potessi a recarmi a Milano, dove si teneva, ma quando ho chiesto un alloggio mi è stato detto che non c’era modo di offrirmelo. La località non è nota per i prezzi ragionevoli e con il pagamento che percepivo, tra viaggio e alloggio, ci avrei rimesso in ogni caso. Ho rifiutato, e a quel punto la direttrice artistica ha giocato l’ultima carta: ha detto che era un peccato, perché sarebbe stata l’occasione perfetta per presentarmi al direttore artistico di un altro famosissimo festival, che lei conosceva».

L’ultimo mese Laura ha ricevuto 700 euro come premio per tutto il lavoro svolto. Nel 2022 il Mic elargiva a questo festival 30.000 euro.

"1.000 euro al mese per tre mesi, senza giorni di riposo. Ma non esiste una retribuzione adeguata a una mole di lavoro che poi ti manda in burnout."

«Lui in albergo, noi tutti insieme in condizioni precarie, senza riposo». E il festival sfocia nel burnout

Tommaso nella sua esperienza più duratura in questo campo ha collaborato con uno tra i più noti festival del cinema itineranti, ed è arrivato durante la sua fase finale, quindi una volta superata la parte preparatoria, amministrativa e di segreteria. Con il suo racconto offre una prospettiva di spettatore e porta l’attenzione su quello che ha visto accadere alle colleghe, che avevano più carico di mansioni e responsabilità rispetto alla controparte maschile.

«Le colleghe si occupavano dell’aspetto amministrativo, logistico e creativo. C’era una persona che si era occupata di contattare i Comuni per fissare le tappe all’inizio, c’era chi curava specifiche competizioni e chi invece gestiva l’aspetto burocratico e gli ospiti. C’era l’interprete. Io e un’altra persona siamo stati introdotti solo d’estate. I costi dell’evento erano abbastanza alti: bastava un guasto all’autobus, poi c’erano i diritti da pagare alla SIAE, i cachet per gli ospiti. La parte itinerante era molto pesante, specie per le colleghe. Dovevano essere a disposizione h24, passavano tutto il tempo con i partecipanti, perché secondo la filosofia del direttore artistico tutti – staff e filmmaker – dovevano dividere gli stessi spazi, in condizioni abitative a dir poco precarie (questo mentre lui alloggiava in albergo). Quindi nessuno aveva privacy e non c’erano pause, le colleghe andavano in burnout, era inevitabile».

Il festival, nell’anno in cui Tommaso vi ha collaborato, ha stabilito un numero di tappe che i partecipanti raggiungevano di volta in volta. Lo staff allestiva le competizioni e i momenti di premiazione, dopodiché si ripartiva e il lavoro riprendeva senza neanche un giorno di pausa. Chi era sottoposto al lavoro più intensivo ha percepito 1.000 euro al mese per tre mesi.

«Non esiste una retribuzione adeguata a una mole di lavoro che poi ti manda in burnout. Con i partecipanti ha anche iniziato a esserci del malcontento: vedevano lo staff come il nemico perché aveva in carico l’assegnazione dei premi e la comunicazione delle decisioni del direttore, che a volte cambiavano in corso d’opera. Lui era una persona particolare: pretendeva molto dai collaboratori, ma aveva anche manie complottistiche e del controllo. Erano chiamate continue, messe alla prova. D’estate con le colleghe diventava ingestibile; con una simile mole di lavoro l’errore scappava, e con molti dei collaboratori non è stato per niente clemente. Molte volte le ho viste piangere. Per alcune persone con ruoli di responsabilità si è parlato di contratto, ma non più di 900-1.000 euro al mese».

La fabbrica dei sogni contro i sogni dei suoi operai

A Giulia, Laura e Tommaso abbiamo chiesto perché si siano sottoposti a questo genere trattamento lavorativo.

La risposta è stata comune: è per effetto del fascino del cinema, capace di convincere chi ne è appassionato ad affacciarsi a questo mondo a qualsiasi prezzo, e ad attendere che le rinunce diano infine il loro frutto. Fino a che la convinzione che la precarietà sia necessaria – e persino meritoria, quando si cerca di fare ciò che si ama – non diventa parte di una retorica di comodo, capace di oscurare le grosse spese dei festival per le cene, i viaggi, gli hotel e gli ingaggi di stelle e starlette, impugnate come armi di ricatto da chi ha il potere di elargirle o negarle, per poi farle esibire come trofei dagli uffici stampa.

Colpisce la risposta di Tommaso: «Ero ancora uno studente, quindi potevo permettermi di considerarla una possibilità. È nato tutto da lì. Però se ci ripenso adesso non lo so. Una volta finiti gli studi hai bisogno di lavorare, lavorare sul serio».

 

 

 

Photo credits: livemint.com

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