Innovazione aperta, quant’è difficile essere competenti

Elisabetta Bracci, manager e docente per la trasformazione digitale e l’innovazione aperta: “Anche se portano con sé un ampio bagaglio di competenze pregresse, gli innovatori non sanno fino in fondo cosa li aspetterà. Serve più divulgazione, specie da parte dei giornalisti”.

C’è una frase che diventa quasi riduttivo definire inflazionata: “Se pensi che un professionista ti costi troppo, non sai quanto ti costerà un incompetente”.

C’è una buona dose di verità in questa affermazione, ma per evitare di cadere nelle trappole del qualunquismo abbiamo contattato Elisabetta Bracci, ospite a Nobìlita nel panel “Elogio dell’incompetenza”, che l’ha vista protagonista sul palco insieme ad altri ospiti, tra cui Marco Travaglio e Tomaso Montanari (trovate il video con il suo JobX alla fine dell’articolo).

Elisabetta Bracci è manager e docente per la trasformazione digitale e l’innovazione aperta, fondatrice di Jump Facility e manager del Cluster-ER Innovate della Regione Emilia-Romagna.

La intercettiamo  sotto il palco di Nobìlita alla fine del suo intervento. Al volo, per riprendere un concetto da lei espresso pochi minuti prima.

Nobìlita Festival, il panel "L'elogio dell'incompetenza", a cui hanno partecipato: Elisabetta Bracci, Marco Travaglio, Tomaso Montanari, Marco Carlomagno e Antonio Maffei.
Nobìlita Festival, il panel “L’elogio dell’incompetenza”, a cui hanno partecipato: Elisabetta Bracci, Marco Travaglio, Tomaso Montanari, Marco Carlomagno e Antonio Maffei Photo@DomenicoGrossi

Dal palco hai parlato di “learning on the fly”. Come lo traduciamo? “Imparare al volo”, oppure “imparare volando”? 

La caratteristica tipica dei veri innovatori, cioè di coloro che portano un cambiamento sostenibile sotto il profilo umano, economico ed ecologico, è quella di “imparare volando”. Credo sia questa la definizione migliore: pilotando l’innovazione come un bravo aviatore fa con il suo aereo.

Ho la sensazione che la tecnologia e l’innovazione siano ovunque, eppure ci sono ancora molti gap di competenza. Solo un problema anagrafico di una popolazione vecchia?

Quando ho ricevuto l’invito come speaker per il panel “Elogio dell’incompetenza”, ho subito pensato che gli innovatori sono i più grandi incompetenti di sempre, perché si trovano costantemente sguarniti davanti a sfide nuove e spesso inimmaginabili. Anche se portano con sé un ampio bagaglio di competenze pregresse, non sanno fino in fondo cosa li aspetterà e cosa servirà. Ti faccio un esempio: entro fine anno a Bologna, presso il Tecnopolo collocato nell’area dell’ex Manifattura Tabacchi, sarà messo in funzione un insieme di supercomputer (detti HPC = High Performance Calculation) che rappresenteranno l’80% circa della potenza di calcolo italiana e che diventeranno uno dei primi cinque poli per potenza di calcolo al mondo (questa è la fotografia al momento di “accensione”, poi chissà cos’altro si inventerà l’uomo e in circa tre anni ci sembreranno addirittura “lenti”). Questo tipo di calcolatori potrà processare in un secondo un milione di miliardi di operazioni, cioè potrebbe duplicare 1.500 foto ad alta risoluzione e gli avanzerebbe anche un po’ di tempo (spero che i tecnici mi perdonino per questa semplificazione). Tu parli giustamente di gap di competenza, ma in certi contesti è impossibile immaginare a che cosa serviranno queste macchine, perché non abbiamo ancora le domande a cui loro ci aiuteranno a rispondere. È una possibilità in divenire, una incompetenza continua che ci dà modo di esplorare il futuro. 

Ci sono poi gap di competenza meno futuristici, che incontriamo quotidianamente nell’innovazione in contesti aziendali pubblici e privati. Qui solitamente si parte da una idea di risultato atteso e da lì, con un approccio a ritroso, si costruiscono sistemi tecnologici e metodologici che portino l’innovazione ad attecchire un passo alla volta, per assicurarsi che sia sostenibile nel tempo e non venga abbandonata rapidamente per tornare al “come si è sempre fatto”. Il primo gap è proprio nel change management: si pensa che basti inserire tecnologia, quasi fosse la panacea di tutti i mali, e che magicamente saremo innovativi e avremo performance strabilianti. Sono le persone a far andare avanti le aziende, non le tecnologie, quindi dobbiamo sempre fare in modo che il sistema sia user friendly tramite un approccio di design human driven, altrimenti le persone lo useranno male o lo abbandoneranno. Il gap culturale più forte si rileva tra piccole e grandi aziende. Prendiamo ad esempio la collaborazione con ecosistemi di open innovation e partnership con start up innovative: secondo dati del PoliMi, al 2022 quasi il 50% delle grandi aziende collabora con questi contesti, mentre solo il 7% di PMI decide di farlo. Ci aspetta una grande sfida culturale per fare attecchire su larga scala il mindset dell’innovazione aperta, se non vogliamo trasformare un gap in una voragine.

Quindi che cosa significa secondo lei innovare, e quanto è fondamentale la tecnologia per farlo?

Innovare significa ripensare quello che facciamo, per poter creare un futuro migliore. Non serve inventare per forza qualcosa di nuovo per innovare, basta fare sempre meglio quello che ci porta un passo in avanti verso un progresso human driven. Anche con l’uso di tecnologie, ma non per forza; non deve essere un obbligo categorico. 

Lei ha affermato dal palco: “Quando parliamo di innovazione e di futuro ci dobbiamo chiedere quali vantaggi diamo, a chi li diamo e a cosa ci servono questi vantaggi”. Che cosa significa?

Se io ti chiedessi di pagare la stessa cifra per 1 kg di uva da Chianti e per 1 kg di Chianti riserva, immagino che ti metteresti a ridere. Questo perché riconosci nel vino un valore aggiunto notevole, dovuto al processo di trasformazione, al know how di esperti, all’esperienza che vivi bevendo quel vino in quel contesto. Lo stesso avviene tra dati (uva) e informazioni (vino), poiché i primi devono essere di alta qualità affinché le seconde siano affidabili. Il vero valore sta nell’usare le informazioni per creare un vantaggio strategico. Pensiamo per un istante se potessimo raccogliere, elaborare e conservare, in modo etico ovviamente, tutti i dati sanitari degli italiani. Potremmo, tramite sistemi di intelligenza artificiale, individuare correlazioni che porterebbero alla luce problematiche e connessioni che a oggi ci sfuggono, e quindi progettare campagne di screening e prevenzione che salverebbero tantissime vite. 

Ci sono due tipi di tecnologie: quelle abilitanti e quelle potenzianti. Quelle abilitanti (enabling) ci aiutano a fare le cose con meno fatica e migliori risultati. Io sono priva di senso dell’orientamento, e ogni volta che uso un’app di navigazione uso una tecnologia abilitante. Quando però la tecnologia permette di dare un ampio vantaggio (anche a discapito degli altri) a chi la sa davvero usare, allora parliamo di potenziante (empowering). Senza un forte substrato normativo ed etico, queste tecnologie sono potenzialmente pericolose e nocive socialmente. Se qualcuno ti profila per orientare a tua insaputa il tuo voto politico, parliamo di tecnologie potenzianti utilizzate senza etica. Tutta questa tecnologia rischia di impigrirci, ma è proprio adesso che dobbiamo accendere il cervello più che mai, altrimenti chi è meno pigro creerà vantaggi inimmaginabili grazie a chi gli regala dati. Usiamo oggetti che non comprendiamo appieno, per condividere dati che non sappiamo bene dove andranno a finire e come saranno usati, lasciando nelle mani degli altri l’uso delle nostre preferenze, abitudini, routine. 

Occorre dunque provare a impegnarsi per cercare di capirne un po’ di più? 

Potrei risponderle che anche chi guida un’autovettura non è tenuto a conoscerne il funzionamento. Ma la tecnologia ha un livello di penetrazione nella nostra quotidianità tale da diventare agentiva, cioè causare cambiamenti nei nostri comportamenti, nel nostro modo di pensare e relazionarci, portandoci a compiere azioni in maniera differente e con finalità che cambiano nel tempo. Ai miei studenti dico che la tecnologia è come un coltello: possiamo usarlo per tagliare una torta e darne a tutti un pezzetto più o meno grande, o possiamo usarlo per uccidere parte dei commensali e terrorizzarne altri, così da avere noi il predominio della torta. Il coltello non è buono o cattivo, sicuro o pericoloso. È l’uso che ne facciamo che lo definisce. 

A suo modo di vedere, in questo gap di conoscenza, devono essere i giornalisti e i comunicatori ad aiutare i professionisti come lei a divulgare la complessità, che sembra complicata ma non lo è? Oppure è solo un gioco di parole?

Chi come me si occupa quotidianamente di innovazione in contesti aziendali e territoriali non può esimersi da un impegno sulla divulgazione: per creare cultura serve condivisione di idee e contaminazione di competenze. Anche perché non si può scegliere quello che non si conosce, e quindi è importantissimo che sempre più persone comprendano cosa sta accadendo e quali sono le potenzialità di questa rivoluzione digitale. Noi divulgatori ci occupiamo di spiegare, in una maniera il più possibile chiara e funzionale, il mindset dell’innovazione, le principali tecnologie abilitanti e i loro case history applicativi. Ma riusciamo a spiegarlo a gruppi di interessati, come ad esempio manager, discenti di master, imprenditori. I giornalisti possono e devono essere una cassa di risonanza per arrivare a un pubblico molto più ampio. Ad oggi a mio avviso manca un’alfabetizzazione digitale di massa, e questo crea un senso di paura e rifiuto verso un set di tecnologie che potrebbero invece portare grandi benefici. Svariati sondaggi indicano ad esempio che la maggioranza delle persone si sente spaventata dall’intelligenza artificiale (in ambito consumer si arriva a superare il 70% degli intervistati). Per non avere paura bisogna conoscere, capire e decidere a ragion veduta. Quindi sì, i giornalisti possono e devono essere vere e proprie casse di risonanza per la condivisione di know how, affinché tutti abbiano più strumenti per comprendere un contesto economico, sociale e lavorativo sempre più complesso, cioè non lineare, incerto e in continuo mutamento. 

Se Marco Travaglio a Nobìlita si è lamentato che anche tra i giornalisti ci sono molti incompetenti, il rischio è che chi dovrà divulgare le informazioni per renderle fruibili al pubblico rischi di non comprendere la reale portata di questo cambiamento epocale dei nostri tempi. E se non l’ha compreso risulta arduo – se non impossibile – essere in grado di riuscire a comunicarlo al pubblico in maniera efficace, per non dire competente.

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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Foto di copertina di Domenico Grossi

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