La cucina del mio ristorante è una torre di Babele

“L’orientale, soprattutto il giapponese, viene a mangiare alle undici e mezzo; che poi una volta chiamavano con faciloneria asiatici tutti quelli che vedevamo con l’occhio a mandorla, azzerando ogni differenza. Col mio lavoro ho imparato tanto, anche nel distinguere Taiwan dalla Corea, la Cina dal Giappone. L’italiano preferisce ancora la fascia oraria classica dell’una, poi […]

“L’orientale, soprattutto il giapponese, viene a mangiare alle undici e mezzo; che poi una volta chiamavano con faciloneria asiatici tutti quelli che vedevamo con l’occhio a mandorla, azzerando ogni differenza. Col mio lavoro ho imparato tanto, anche nel distinguere Taiwan dalla Corea, la Cina dal Giappone. L’italiano preferisce ancora la fascia oraria classica dell’una, poi arrivano i sudamericani e gli spagnoli che il pranzo lo fanno alle due. Poi c’è la fascia di chi ha fame e mangia a tutte le ore. Alle cinque e mezza-sei arrivano quelli del nord Europa e la ruota gira così, tutto il giorno per tutti i giorni. Firenze è diventata velocemente quello che nelle altre grandi città del mondo è successo decenni prima, con la differenza che non siamo la City di Londra dove uffici e finanza fanno da baricentro per i ristoranti. Qui, a un certo punto, è esploso un turismo incontrollato”.

La voce è di Riccardo Bartoloni, timbro fiorentino e caratura alta di pensiero. In due ore di intervista intorno a un tavolo del suo Giannino in San Lorenzo, due passi dall’omonimo mercato cittadino oggi depredato da bancarelle ammassate e anonime, sature di borse, cinte e borselli. La storica concia fiorentina diventata sconcia. 

“Iniziai il 29 settembre del 1992, sono nato nel ’55 e quindi avevo 37 anni. Il primo vero progetto fu con un self service in un’altra parte di Firenze che era la stazione, passando da lì a un progetto sperimentale di ristorazione pre-discoteca negli anni che andavano dagli Ottanta ai Novanta. L’approdo fu alla fine questo in San Lorenzo che è ormai la mia seconda pelle, forse la prima”.

In quale traiettoria si è mossa la ristorazione fiorentina e cosa hai capito del suo carattere?

Osservo Firenze da sempre e il suo marchio è di essere una città molto chiusa però ascolta bene che tipo di chiusura. Parti dal presupposto che il fiorentino è chiuso, chiusissimo, ma nel momento in cui si fida e rompe la barriera di diffidenza, ti dà tutto tutto tutto. Il fiorentino non ha le mezze misure: o ti ama o ti odia. Prima ti deve conoscere, deve essere lui a decidere se aprirti o meno la porta. Una volta spalancata, non fargli un torto minimo che ti cancella a vita.

Qual è la cerniera tra apertura e chiusura fiorentina?

In una sola parola è il suo provincialismo. Il mondo è completamente trasformato in tutte le sue logiche e dinamiche e tu, Firenze, non puoi aprirti solo quando vuoi e come vuoi. Qui in centro non si conta quasi più un fiorentino residente, sono tutti nel circondario. Firenze ha avuto un grande slancio dal passato che da tempo è diventato un blocco. Attorno agli anni Duemila uscirono dalla città per andare a riempire i primi Comuni del circondario come Sesto Fiorentino e Scandicci. Una vera e propria migrazione che l’ha segnata.

Dimmi onestamente se tu oggi ci vivresti in pieno centro storico.

Io qui ci vivo per lavoro ma non ci starei mai per scelta. Non avrei grandi interessi da trovarci. Una volta sì che Firenze era viva, oggi in città non ci arrivi facilmente e la mobilità è tutto. La tramvia cambierà molte cose ma il dubbio grande è che la politica stia aprendo l’ovile dopo che le pecore sono scappate. Mentalmente il fiorentino si è allontanato dal suo cuore, come gli ricambi idea adesso? Il centro storico è un negozio dietro l’altro con logiche commerciali sempre più orientate all’online: sempre più negozi hanno il piano in cui provare e via, l’acquisto te lo fai da solo a casa. Solo la ristorazione resiste alla virtualità dei gesti, il cibo lo mangi ancora fisicamente con la bocca.

La cucina, più dell’arte, tiene strette la radici?

Ti rispondo con un paragone. Mia moglie è di Verona e ogni tanto ci andiamo: è una città splendida e piena d’arte, certo con flussi turistici ridotti rispetto a noi ma il livello di ristorazione è molto alto e i veronesi vivono tuttora la città nei suoi ristoranti. L’arte ci nutre come il cibo ma svolge una funzione diversa. Finché sarò vivo, ripeterò che soltanto la cucina ha la forza di legare l’uomo alla sua terra e alle sue origini, alle sue memorie, facendo in modo che non vadano disperse. Il cibo conserva e protegge la storia più di qualsiasi altra cosa, il cibo ci entra dentro.

Cosa rischiamo di perdere se i residenti non presidiano più i ristoranti cittadini?

Il rischio è altissimo nel centro storico. Fare resistenza, con una cucina di tradizione da una parte e solo turisti dall’altra, potrebbe diventare un gioco al massacro. Per esempio gli orientali non mangiano formaggi e come fai a offrirgli tutta quella gamma di formaggi stagionati che caratterizzano un pasto qui in Toscana? Gli inglesi non mangiano il coniglio perché lo associano al gatto. Non dare mai da mangiare trippa o frattaglie ai tedeschi o ai sassoni ma fallo invece coi sudamericani a occhi chiusi. Ora si iniziano a muovere i cinesi e ci sarà da ridere se pensiamo ai loro numeri. Siamo un’Italia che spara continuamente numeri senza dare i contesti, quando si parla di turismo poi siamo campioni del nulla: dire che a Firenze è aumentato del tot per cento il flusso dei turisti stranieri ha senso solo se specifichi da dove vengono perché dire un tot per cento dal Nord Europa è un conto, dalla Cina è tutta un’altra cosa vista la popolazione. Il giapponese a Firenze è invece un turista consolidato, lo conosciamo bene. L’americano ha andamenti diversi, è stagionale durante l’anno e quelli più stanziali sono anziani.

Quanto è stereotipato il cibo italiano per un turista.

Sì, lo è. La cucina italiana è sfaccettata in mille sfumature regionali che, a loro volta, si fanno sempre più locali. Il turista non ha mediamente la minima idea che una carbonara nasca a Roma o che una ribollita sia solo Toscana. Il turista arriva con sempre meno desiderio di innamorarsi del nostro cibo: mette il dito sul menù, chiede il solito, non intercetta storie e differenze, l’unica domanda che fa, orami, è se c’è il wifi.

Come scegli chi lavora con te, vista tutta questa sociologia che mi racconti? Un lavoro delicatissimo lo stare in sala, prima ancora che ai fornelli.

Non è vero che mancano posti di lavoro, manca la voglia. Se l’Albania chiudesse i rubinetti saremmo finiti noi ristoratori, non se ne parla mai e tutti fanno finta di essere italiani che mica è più tutto questi vanto. Gl albanesi sono lavoratori straordinari, hanno fame di arrivare e migliorare se stessi e stanno prendendo il nostro posto. Stanno imparando a diventare imprenditori e sono stati impeccabili nel coprire i nostri vuoti. In sala, poi, sono dei maestri e questo è il ruolo più prezioso di un ristorante, tanto quanto lo chef in cucina. Oggi il vero regno è la sala ma le scuole alberghiere non hanno capito nulla e continuano a rispondere ai modelli balordi dei talent televisivi.

Quindi quanti stranieri ci lavorano?

Il mio personale è quasi tutto straniero e la difficoltà è solo iniziale nell’educarli alla base sulla cultura italiana e fiorentina. Di certi piatti, se non tutti, non hanno né storia né cultura ma l’amore con cui imparano è enorme. Paolo Vannetti è il cuoco che mi tengo come oro, amico da una vita visto che andava a scuola con mia sorella, poi mio figlio e un altro collaboratore. Tutto il resto – 15 collaboratori in totale – è straniero. La mia cucina è una torre di Babele e me ne vanto: Bangladesh, Marocco, Tunisia, Egitto e Sri Lanka. Popoli umili, affamati di conoscenza e di rispetto e il mio rispetto per loro è infinito. Cuochi italiani, per dire cuochi veri, dove sono oggi? Io non ne vedo tra i giovani. Non se ne può più delle star e dei danni enormi che creano al modello italiano della ristorazione.

In pochi mettono in luce quanto la ristorazione, in una città così turistica, abbia bisogno di un progetto cittadino ben più ampio.

La città deve trovare il verso di soddisfare a pieno la richiesta che viene da fuori, una su tutti i servizi. Mica possiamo offrire solo da bere e da mangiare ai turisti. Io qualche anno fa lanciai un’idea che riprendeva quella di un Assessore, Giuliano Sottani, legata ai courtesy point per bar e ristoranti che potevano ristrutturare il proprio bagno con qualche sgravio a patto di farsi mappare per verificare che venissero aperti anche ai turisti. Io, ormai almeno due giunte comunali fa, proposi di far aderire volontariamente gli esercizi pubblici a diventare courtesy point per turisti purché i costi inevitabilmente derivanti dai maggiori consumi di acqua nei bagni non venissero caricati rispetto allo scaglione massimo dei costi previsti per quell’esercizio pubblico. Piuttosto che creare nuovi bagni in centro gravando su spese, spazi e senso estetico, avrebbero forse risolto il problema. Tutto è rimasto fermo, grande entusiasmo da parte di molti ma siamo rimasti una città d’arte senza bagni pubblici. Capisco bene che Firenze sia complessa ma, a maggior ragione, i politici dovrebbero ascoltare di più le proposte di noi commercianti che la viviamo ogni giorno sulla nostra pelle.

Che vita avrà Firenze nei prossimi anni?

Firenze vive attaccata al suo Rinascimento ma lo fa vivere sempre meno in città. Il turista prima o poi si stancherà di lei se continuerà a cedere solo ad esigenze commerciali e se non gli farà più sentire il gusto di muoversi dall’altra parte del mondo per venire fin qua. Il David prima o poi si accontenteranno di vederlo in tridimensionale dal computer. Ci stiamo facendo saccheggiare Firenze e tutta l’Italia intera.

Quale leva usare?

L’orgoglio dei fiorentini, piegandolo dal verso giusto.

Emerge uno sguardo troppo breve della città nei confronti del diverso, del lontano da sé.

Io negli anni Novanta andai 45 giorni in California e tornai che ero un altro. Spesi tutto quello che avevo ma quei giorni mi cambiarono la vita e il lavoro, mi fecero da spinta incredibile. Temo che i fiorentini girino poco, si guardino poco intorno, escano poco dal recinto che credono il migliore. Prima cosa che imparai dai ristoranti californiani fu la qualità nell’assistere il cliente, con la spinta delle mance è ovvio ma non era solo quello. Allo stesso modo, il cliente aveva più rispetto del cameriere e del ristorante: da noi gli italiani entrano in sala e vanno ai tavoli senza chiedere permesso, come tutto fosse dovuto.

Quale può essere la soglia di rischio per Firenze, a cosa deve stare attenta?

La prossima giunta arriverà a maggio 2019, ci siamo quasi. L’Aeroporto di Peretola e la tramvia erano le immense scommesse del mandato, bloccate da decenni per divisioni politiche senza senso: senza un pensiero ragionevole sul piano dei trasporti e della mobilità, che oggi più che mai vuol dire qualità della vita, Firenze rischia di entrare in uno stallo irreversibile. Firenze è in ponte ad una rivoluzione di grandi investimenti privati, spesso di fondi stranieri sul recupero di palazzi con scopo di accoglienza turistica, ma senza l’abbraccio dell’intervento pubblico sul piano dei servizi e della cultura dell’accoglienza non si va da nessuna parte.

Hai più visto un Lorenzo de’ Medici negli ultimi cinquant’anni?

Macché. Qui siamo bravi solo a dividerci in fazioni. Prima guelfi e ghibellini, poi i guelfi non bastarono e iniziarono con quelli bianchi e quelli neri. Sai qual è il grande limite di Firenze e dei toscani? che non si dividono mai al sessanta e quaranta ma sempre al cinquanta e cinquanta. Forse, dentro di sé, non vogliono proprio cambiare. Lo stadio e il calcio raccontano bene la città e come tifano. E poi vi siete mai chiesti perché è dovuto arrivare un Della Valle a fare il presidente della squadra? Perché qui sono tutti bravi a lamentarsi ma poi nessun imprenditore si prende la briga. Lorenzo fece grande Firenze con la congiura dei Pazzi, eliminando tutto alla radice: ho fatto un esempio estremo solo per far capire il tessuto della mentalità fiorentina, impossibile da gestire.

Ciò che fece a malo modo anche Renzi. O sbaglio? 

Non ci volevo arrivare ma tu mi ci porti. Renzi conosceva bene i limiti di Firenze e ha cercato giustamente di bypassare tutto e tutti però non gli si può perdonare quel protagonismo. Ha personalizzato troppo la sua ultima campagna, si è messo troppo in mostra, aveva capito il contesto in cui si muoveva ma è stato più forte di lui, più grande di lui. Di altri Lorenzo non se ne sono più visti e pensare che oggi basterebbe molto meno per cambiare rotta alla città.

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