La malattia del lavoro ha un romanzo per diagnosi

Due generazioni schiacciate dal cambiamento del lavoro. E il “non mestiere” di scrittore che lo ritrae, con un piede dentro e uno fuori. La recensione di “Ipotesi di una sconfitta”, di Giorgio Falco.

Vincitore di molti premi letterari, Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco, Einaudi Big, è un romanzo che mette a confronto due generazioni e due modi diversi di vivere e lavorare.

Da un lato un padre, proveniente da una famiglia di agricoltori siciliani, che si era trasferito a Milano diventando autista presso l’Azienda dei Trasporti Milanesi (ATM), “da lui chiamata l’Azienda”. Un padre che aveva quello che in gergo si chiamava un socio, Nino, ex soldato di stanza in Somalia, assunto in ATM al suo rientro. Entrambi con un lavoro stabile e un contratto a tempo indeterminato, che garantiva uno stipendio fisso e la possibilità di comprare “una Fiat Seicento, più per status sociale, che per necessità”.

Dall’altro lato invece Giorgio, appartenente alla generazione che ha solo sentito parlare di contratto a tempo indeterminato e che di lavori ne cambia in continuazione. Lavori che spesso non hanno nulla a che fare con il suo percorso di studi, né con le sue inclinazioni.

Padri contro figli: lo strappo del lavoro attraversa due generazioni

La generazione del padre di Giorgio e del suo socio Nino è capace di ascoltare, osservare, apprezzare anche il valore del silenzio. È una generazione di donne e di uomini che si spaccano la schiena, che hanno grandi valori, che credono nell’onestà e vivono ogni piccola conquista come un successo. I tranvieri vedono ogni giorno passare davanti ai loro occhi un’umanità in cammino, come se su quegli autobus andasse in scena lo spettacolo della vita quotidiana. “I passeggeri degli autobus mutavano in rapporto all’orario: dopo gli operai salivano gli impiegati, commessi, studenti”. I soldi che guadagnano sono frutto di tanto impegno, ma non bastano mai, e i sacrifici da affrontare sono sempre molti.

Giorgio fa diverse esperienze lavorative: stampatore di medagliette, assistenza a compratori stranieri, venditore porta a porta, attivatore di carte SIM, raccoglitore di reclami, con un continuo cambiamento di ambienti, di ritmi di produzione, di colleghi. Un processo inesorabile, che investe un’intera generazione, diversamente da quella dei padri, che ha vissuto la crisi solo nella fase del prepensionamento: “La fine della sua vita automobilistica aveva accelerato la fine della sua vita biologica (…). Si era compiuta così la corrispondenza temporale tra la morte di un uomo e la fine del suo lavoro. Mio padre sarebbe morto a causa di una questione clinica, certo, (…) ma sarebbe morto anche perché la sua frase ossessiva, oscura pur nella sua semplicità – sta diventando impossibile – si era concretizzata, diventando anche la morte di mio padre, oltre che il nostro vivere contemporaneo”.

I figli crescono osservando l’immagine dei genitori piegati dalla stanchezza, sognano di ripagarli delle loro fatiche, ma sognano anche di non doversi sporcare le mani. In pochi anni infatti si è sviluppata una mentalità per cui ancor prima della stabilità nella posizione lavorativa si ambisce a una sorta di prestigio, per cui le più gettonate diventano le professioni da scrivania.

“Qualora mio padre manifestasse un interessamento per la mia situazione lavorativa, Nino si dilegua; a quel punto interveniva mia madre, ideologa occulta della mia sconfitta lavorativa, contraria al fatto che lavorassi in ATM (…). Mia madre, senza volerlo, mi spingeva dentro il percorso accidentato grazie al quale sarei diventato uno scrittore.”

Il male di scrivere, il male del lavoro

Un mestiere nobile, quello dello scrittore, considerato però da molti fuori dalle righe, un non mestiere. “Nino aveva chiesto se lavorassi. Eh, ho saputo dei libri. Aveva usato il tono con cui si condivide la pena per una disgrazia. Poi, per tornare a qualcosa di più concreto e al tempo stesso evanescente, aveva aggiunto: se sapevo che eri senza lavoro, potevo fare qualcosa, mi informavo per un posto all’ATM, fino all’anno scorso potevo fare qualcosa. Fino all’anno scorso potevo fare qualcosa. Una frase sentita tante altre volte, molto tempo fa”.

Il protagonista arriva a cercare una clinica del lavoro, con la consapevolezza però, di non essere lui il vero malato. “Il malato è il lavoro ed è questo che deve essere curato, non l’individuo”. Giorgio si fa visitare, dialoga con i medici, che alla fine gli diagnosticano una “personalità compensata e un interesse limitato, con risorse progettuali limitate”. Scrive in modo quasi compulsivo, cancella ciò che scrive, pubblica tre libri in quindici mesi e si dà anche alle scommesse.

“Quando ti rifugi così nella scrittura, dubiti della vita. Mi sentivo convalescente, ma non ero deluso del lavoro. Soffrivo, dall’età di diciassette anni, di una nevrosi politica ed economica, più che individuale.”

Perché leggere Ipotesi di una sconfitta

Il romanzo di Giorgio Falco restituisce la fotografia di due generazioni che si confrontano sul tema del lavoro, rivelando un cambiamento graduale ed epocale, che ha coinvolto l’approccio stesso al mondo lavorativo.

La conclusione di questo confronto è triste, amara. La generazione dei giovani ne esce come spenta, demotivata: “La risata collettiva si era trasformata nella maschera individuale della finzione, che si sarebbe inchiodata ai loro volti lavorativi abituali, accompagnandoli, sempre più isolati, fino alle scrivanie. Non credevano in niente, solo alla propria sconfitta che arrivava ogni giorno”. Ma è il lavoro che appare svuotato del suo significato.

L’opera è un’autobiografia e al tempo stesso un’indagine antropologica e sociale. Ipotesi di una sconfitta immortala un momento storico importante, a cavallo tra due epoche irripetibili e al tempo stesso defunte. Un libro che la prossima generazione dovrà leggere, per capire dove ha gradualmente portato un capitalismo tossico e disumanizzante.

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