Le nuove tecnologie non tuteleranno mai i posti di lavoro

Le premesse aiutano sempre, anche quando si parla di distretti. È la complementarietà a connotare questo modello: un luogo fisico dove convivono unità produttive che si relazionano tra loro non necessariamente sul piano della proprietà ma di certo su quello della interfunzionalità: tutti concorrono e contribuiscono perché ognuno di loro gestisce un anello della catena. Il […]

Le premesse aiutano sempre, anche quando si parla di distretti.
È la complementarietà a connotare questo modello: un luogo fisico dove convivono unità produttive che si relazionano tra loro non necessariamente sul piano della proprietà ma di certo su quello della interfunzionalità: tutti concorrono e contribuiscono perché ognuno di loro gestisce un anello della catena.

Il distretto produttivo è un modello di matrice italiana, ricordo bene l’entusiasmo di nomi come Michael Piore e Charles Sabel – tra i più noti ricercatori della distrettualistica mondiale del tempo – quando venivano da noi per studiarci da vicino. Era il 1984 e da lì a poco avrebbero raccontato i distretti italiani al mondo intero.
Fino a quel momento si erano studiati solo quelli che chiamavamo nuclei e che somigliavano ai distretti ma di fatto non lo erano: agglomerati di fabbriche focalizzate tutte sullo stesso prodotto. Basti pensare alla Brianza e al segmento del mobile: tanta produzione ma nessuna complementarietà. La forza dell’Italia, in quegli anni, fu capire che non conveniva ingrandire un’azienda, valeva invece la pena aprirne un’altra che si integrasse in quella stessa produzione, accendendola dall’interno di un territorio.

Ecco cos’è in fondo un distretto, una fabbrica immensa che unisce la forza dei grandi con la flessibilità dei piccoli fin quando quei piccoli si modulano talmente bene da diventare grandi anche loro.
Ciò che non dovrebbe mai mancare per garantire stabilità e continuità ai distretti è il supporto in chiave di ricerca e formazione ma il sistema italiano si è inceppato proprio lì, facendo l’errore di non concentrare i servizi all’interno o intorno a quelle aree. Va anche detto quanto non sia semplice creare un sistema istituzionale non solo in armonia su più fronti ma capace al tempo stesso di imporre una mano invisibile dall’alto.
La tecnologia è il concetto di snodo su cui bisogna ormai riflettere con onestà, senza cedere a facili promesse. Il Festival dell’Economia di Trento, appena concluso, mi ha confermato quanto sia pericoloso continuare ad illudere sulle aspettative di lavoro in relazione a sviluppi tecnologici.
Ricalando questo discorso sui distretti, se non vogliamo disperderli dobbiamo rinnovarli senza cadere nell’errore di concentrarci sui prodotti: serve un cambiamento nei processi produttivi che vuol dire accettare di sostituire le persone con le macchine.

C’è una grande verità che fatichiamo ad ammettere ma che non possiamo non vedere: l’aumento di produttività fa crescere la disoccupazione.
Le aziende più sane sul piano finanziario sono quelle che licenziano di più.
Le aziende con i fatturati migliori investono sempre più in tecnologie e sempre meno sulle persone.
La tecnologia ha turbato l’equilibrio precedente e le aziende che se ne sono accorte prima, si sono poi riconvertite meglio.
Niente di nuovo, del resto. Sono veri e propri cicli che ricorrono costantemente nella storia dell’uomo. Da sempre abbiamo cercato soluzioni per lavorare di meno e produrre di più e questo vale anche oggi ma il problema è che molti promettono scenari ormai irrealizzabili.
Da sempre abbiamo cercato di sostituire la fatica umana prima con quella animale, poi con quella meccanica, infine con quella tecnologica. Il vero peccato, soprattutto in Italia, è che poi non sappiamo mai come utilizzare quel progresso.
L’interpretazione di questi cambiamenti è ancora più sottile: la grandezza delle nuove tecnologie sta nel fatto che sottrae posti di lavoro pericolosi, faticosi, noiosi. Lo ha fatto con gli operai e con gli impiegati, a breve si tengano pronti i dirigenti.

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