La sociolinguista Vera Gheno racconta la sua esperienza a Nobìlita, con il panel “Classi sociali o classi social?”, visto dall’altra parte del palco.
L’esercito dei settanta che non partecipa alla guerra
Vasto. È una sfida trovare a Napoli chi non associ il termine, con o senza pregiudizi, a un ghetto sotto scacco di faide tra immigrati per la gestione del territorio. Il Vasto è quartiere nel cuore di Napoli che va dalla stazione centrale di Piazza Garibaldi lungo Corso Novara, arteria principale del traffico cittadino, fino […]
Vasto. È una sfida trovare a Napoli chi non associ il termine, con o senza pregiudizi, a un ghetto sotto scacco di faide tra immigrati per la gestione del territorio. Il Vasto è quartiere nel cuore di Napoli che va dalla stazione centrale di Piazza Garibaldi lungo Corso Novara, arteria principale del traffico cittadino, fino al confine con la monumentale Porta Capuana. La zona è terra di nessuno, una polveriera dove l’aria che tira è di guerriglia perenne. Tutti contro tutti è l’unica regola che vige.
Per rendersene conto è sufficiente passeggiare un’oretta tra Via Bologna e Via Firenze o attraversare Corso Meridionale per lo shopping mordi e fuggi dei tipici articoli tecnologici low cost. Si è catapultati in una dimensione parallela, un po’ come quella che fa vivere Ernest Hemingway nel suo Per chi suona la campana, sulla guerra civile spagnola. L’area è un fortino presidiato dalle forze dell’ordine, ma troppo facile da espugnare. Sono poche per i vichi e vicarielli del Vasto, i cosiddetti vicoli angusti di Napoli che per antonomasia e conformazione rendono difficile il controllo della legalità.
La lotta per la sopravvivenza si trasforma in delinquenza, in bande di senegalesi contro bengalesi, in ritorsioni della microcriminalità locale, in rapine, ubriachezza molesta e risse continue con i residenti esasperati che arrivano a lanciare pietre dai balconi. Il Vasto è una vera e propria bomba a orologeria pronta ad esplodere. L’area conta 15.000 abitanti; i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, sono circa il 70% del totale, che tradotto significa praticamente 1000 immigrati in 800 metri quadrati. Una distribuzione folle, che ha reso il quartiere un ghetto e l’integrazione, con i napoletani e tra immigrati, un’amara utopia.
Vasto e immigrati, un esercito che non partecipa alla guerra
Eppure da questo spaccato western emerge anche un’altra realtà, figlia di un dio minore, e che potrebbe sostenere una lectio magistralis di cultura del lavoro. Sono l’esercito dei settanta, un gruppo di migranti che, armati di forbici da giardino, scopa, paletta e buona volontà, si sono dati un’unica missione: ripulire il Vasto, specchio di un degrado off limits. C’è chi nel suo Paese è ingegnere, chi ha neanche il nostro corrispettivo della terza media, chi stava studiando medicina, chi dell’italiano non ha nemmeno le basi elementari e si fa capire a gesti. Nessuno conosce le tecniche di giardinaggio, né ha il pollice verde, né sognava di venire in Italia per pulire le strade, però il concetto di lavorare per vivere lo ha.
È facile immaginare che tra gli immigrati in pochi conoscono il concetto di skills e knowledge o di soggetto attivo della microeconomia. Nessuno ha curato i rapporti con un’azienda per maturare un’esperienza di crescita professionale e per sentirsi parte integrante di una realtà; non hanno mai puntato in borsa; non li conoscono i Bitcoin. Loro conoscono l’arte di arrangiarsi, che è poi tutta napoletana, come gli avi degli attuali partenopei in America. I settanta migranti nella miseria hanno avuto la forza di dire no al soldo più facile e veloce, ma dannato, assurgendo a emblema pratico della teoria della cultura del lavoro nelle difficoltà vere della vita quotidiana.
Tutto è nato un mesetto fa con un gruppo di raccolta in Piazza Principe Umberto, la più sporca e abbandonata della zona. Prima hanno ripulito le aiuole dai rifiuti, poi diserbato i marciapiedi dalle erbacce e ripiantato fiori colorati con nel cuore una semplice metafora, come cantava De Andrè: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Piante e fiori sono stati così la prima tappa di un percorso di pulizia di bottiglie di plastica, cartacce ed escrementi a ridosso della stazione fino alla zona commerciale dell’Arenaccia. Come un dipendente si sente mente e braccio di un’azienda, per traslato gli immigrati si sono sentiti cittadini napoletani, si sono messi al fianco dei residenti proprio in quel quartiere polveriera dove un dipendente di una farmacia di Via Firenze è stato aggredito e colpito ferocemente alla testa da un extracomunitario che vendeva abusivamente merce contraffatta.
I volti del cambiamento: Zouma, Mamadou e quel selfie con Salvini
Al Vasto c’è anche un volto diverso del rapporto città-immigrazione, un volto pulito che si è affrancato scegliendo di lavorare con dignità e abnegazione, dimostrando che la cultura del lavoro non è solo una teorizzazione, né è solo circoscritta in ambito aziendale, ma è uno strumento di riscatto sociale. Zoumà, così lo chiamano gli amici, ha venticinque anni, ha studiato lingue da autodidatta, parla un inglese fluente e in italiano riesce a comunicare. Mamadou ha poco più di vent’anni ed è senegalese come Zoumà. Entrambi orfani, entrambi hanno negli occhi il dolore di chi ha vissuto una vita che li resi adulti troppo presto e li ha schiaffeggiati, ma non piegati. Entrambi hanno rifiutato di spacciare. Loro vogliono lavorare onestamente per sentirsi forti, per mangiare, per vivere. Sono i più giovani e i più arrabbiati, perché come i residenti sono vittime del sistema Vasto. Si sentono napoletani perché la città la vivono; sono tra quei migranti che hanno stupito tutti provando a scattarsi un selfie con Matteo Salvini, quando di recente il Ministro dell’Interno è tornato a far visita al quartiere.
Non solo l’esercito dei settanta vuole lavorare con dignità. Così a Napoli è nata la nuova frontiera dell’immigrazione ecosostenibile, sotto la lente di ingrandimento degli antropologi. Crearsi uno sbocco occupazionale da operatore ecologico, organizzato anche in squadre, che coadiuva e non sostituisce la categoria già esistente, è una scelta di vita; un fenomeno che viene già posto sotto osservazione dagli accademici. Il sostegno economico arriva da una sorta di crowdfunding dei cittadini napoletani delle zone che hanno più necessità di essere ripulite. Questo nuovo “impiego” dal Vasto si è esteso a macchia d’olio fino al Vomero, zona borghese della città. Gli immigrati, per lo più nigeriani, ripuliscono non solo i rifiuti del by night, si occupano anche del fogliame secco, potano gli alberi, soprattutto nella zona dello stadio Collana e di Via Cimarosa.
Anche Bagnoli, quartiere non centrale a ovest di Napoli, che si divide tra l’area a strapiombo sul mare delle mega discoteche estive e quella da anni ancora da bonificare, è stata una zona spesso ripulita da tre ragazzi nigeriani: Oligy, Tony e Osasi. Sono ragazzi tra i ventisei e i trent’anni, che non parlano italiano e si fanno capire in un inglese stentato. Sono sbarcati a Lampedusa un anno e mezzo fa. Il terzetto si è conquistato un posto nel mondo del lavoro grazie all’attività di giardinieri e operatori ecologici new age. La loro attività è stata immortalata anche in alcuni video che li ha resi virali sui social network, non senza polemiche nei confronti dell’amministrazione comunale.
La cultura del lavoro secondo gli immigrati
Il fenomeno a Napoli sta impazzando. La voce delle squadre di “immigrati spazzini” è un vero e proprio tam tam che porta ad allargare anche la propria attività con i meccanismi rudimentali di un’azienda in nuce. Oligy, Tony e Osasi, insieme ad altri che si sono aggregati, fanno base a Villa Literno e si spostano su segnalazione. Anche altri vengono assoldati su richiesta degli stessi residenti che vivono nelle zone in deficit di pulizia e che più necessitano di supporto. Dati alla mano, le aree verdi da diserbare sono le più gettonate. Fuorigrotta, quartiere all’ombra dello Stadio San Paolo dove già si adoperano il nigeriano trentanovenne Alfred e i suoi, è la nuova zona più redditizia.
Gli immigrati spazzini si mobilitano con l’occhio lungimirante di chi dimostra una lucidità di pensiero che evoca la mente aperta dell’imprenditoria per l’organizzazione interna, la gestione del lavoro e la capacità di previsione. Se si chiede a Zoumà o a Tony cos’è la cultura del lavoro non sanno rispondere. Se si chiede a Mamadou perché ha scelto di fare l’operatore ecologico risponde che lo fa per dignità, perché vuole guadagnarsi da vivere onestamente. Non sapranno teorizzarlo, non avranno studiato economia aziendale né inclusione sociale, però loro la cultura del lavoro la incarnano.
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