Licenziati per cancro

Cronache da un paese incivile, dove si può essere licenziati per cancro: a volte la burocrazia vince sulla malattia. È quanto accaduto l’anno scorso a Vincenzo Giunta, guardia giurata di Brindisi, 46enne, cacciato dalla sua azienda perché si era assentato per un periodo superiore a quello concesso dal contratto di lavoro, il cosiddetto periodo di […]

Cronache da un paese incivile, dove si può essere licenziati per cancro: a volte la burocrazia vince sulla malattia. È quanto accaduto l’anno scorso a Vincenzo Giunta, guardia giurata di Brindisi, 46enne, cacciato dalla sua azienda perché si era assentato per un periodo superiore a quello concesso dal contratto di lavoro, il cosiddetto periodo di comporto.

La causa il macroadenoma, un tumore al cervello, per cui aveva subito tre interventi chirurgici e cicli di chemioterapia. L’uomo ha denunciato pubblicamente l’accaduto, rivolgendosi al sindacato ed alla fine è stato reintegrato nel suo posto di lavoro, dopo una ribalta mediatica nazionale. Alla fine la sua azienda ha addebitato il licenziamento al conteggio automatico delle ore di assenza. Se la legge Fornero in un caso simile prevedeva il reintegro del lavoratore, se licenziato in violazione delle norme, con il nuovo Jobs Act non si registra nessuna previsione in materia.

Le disposizioni sul reintegro per licenziamento ingiustificato

Nelle norme del decreto legge sul contratto a tutele crescenti, attuative della nuova disciplina in materia di lavoro, non esiste alcuna disposizione specifica, tanto che secondo gli esperti il licenziamento di un lavoratore per “eccessiva comorbilità”, se supera il periodo di comporto, può essere ritenuto legittimo. In questo caso il lavoratore non avrebbe diritto al reintegro nel posto di lavoro, ma ad un risarcimento quantificato in base all’anzianità di lavoro.

Il nuovo Jobs Act non ha colmato la lacuna nella tutela a questo tipo di lavoratori, come specifica Silvia Fernandez Martinez, della scuola di dottorato Adapt dell’Università di Bergamo, sul bollettino mensile: “Il Jobs Act non adotta una prospettiva di mercato del lavoro ma di diritto del lavoro nel trattamento della malattia, risultando del tutto carente la necessaria attenzione alle specifiche esigenze di questi lavoratori che, in quanto soggetti deboli, necessitano invece di una prospettiva di diritto per il mercato del lavoro, in grado di favorire il mantenimento e il ritorno al mercato del lavoro”.

In Italia sono numerosi i casi di malati che si ritrovano senza lavoro per aver superato il cosiddetto periodo di “comporto”, cioè il numero massimo di giornate di assenza consentita dal lavoro per malattia con diritto alla retribuzione, durante il quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. Superato il conteggio dei termini, che variano a seconda del tipo di contratto collettivo, da circa 180 a 300 giorni, dai quali devono obbligatoriamente essere tolte le ore dedicate a terapie salvavita, la legge consente alle aziende di licenziare i propri dipendenti, aggiungendo al dramma devastante di una malattia pesante – ed invalidante nella maggior parte dei casi – anche l’angoscia per l’incertezza del futuro, derivante dalla perdita del lavoro.

Un problema che potenzialmente può riguardare la vasta platea di 3 milioni di malati che in Italia, secondo i dati del 2015, si ritrovano a convivere con la patologia. Dopo la diagnosi, soltanto il 27 per cento tra questi guarisce, tornando ad una vita normale. Ogni anno sono circa 360 mila i nuovi casi di cancro, circa 177 mila i morti.

I casi di licenziamento giustificato

Non esiste, nel sistema giuridico, una norma effettiva che tuteli il malato dal rischio di perdere il lavoro se si assenta per troppo tempo, anche se la motivazione sono le cure per una malattia oncologica. Spesso l’unico modo per bloccare il licenziamento è per i malati quello di rivolgersi ai media per una denuncia pubblica, contando sull’azione dei sindacati.

È fondamentale distinguere tra il licenziamento per malattia come discriminatorio oppure nullo senza una causa giustificata, che presuppone il reintegro del lavoratore con la garanzia di avere conservato il posto di lavoro durante le cure e le somme della retribuzione a disposizione per curarsi e mantenersi. L’altro profilo che riguarda il licenziamento giustificato, prevede soltanto l’indennizzo del lavoratore, legato all’anzianità di lavoro. Il problema è che nel decreto 23 del 2015 sul contratto a tutele crescenti del Jobs Act, nessuna norma è riferita alla malattia prolungata: l’unica previsione presente riguarda la disabilità fisica e psichica del lavoratore.

Osserva ancora Silvia Martinez che l’unica via per permettere la conservazione del posto di lavoro è “equiparare la malattia di lunga durata all’handicap, aprendosi in questa maniera la possibilità di considerare discriminatorio il licenziamento fondato sulla malattia del lavoratore”. Resta sempre l’ultima spiaggia, l’aspettativa non retribuita dal lavoro, già prevista dalla legge. Il malato conserva il posto di lavoro, ma senza stipendio. Nel mare delle cronache giornalistiche, emerge come una favola bella la storia della Bb Holding di Calenzano (Fi), gruppo fondato da Marco Bartoletti, che per scelta del proprietario assume malati di tumore e disabili, con 250 addetti e 40 milioni di euro di fatturato, attiva nel settore accessori di alta qualità per la moda, al momento con un totale del 15 per cento di dipendenti delle categorie protette.

Il “protocollo Chiara” e il Jobs Act

Un altro caso emblematico riguarda la burocrazia che attanaglia un malato di cancro ed i familiari che lo seguono nel lungo calvario della malattia, dal riconoscimento dell’invalidità, alle richieste dei familiari per le norme sull’assistenza, l’indennità di accompagnamento e malattia, la richiesta di ausili terapeutici gratuiti. Un malato grave di cancro è soggetto anche alle visite fiscali dell’Inps ma, grazie alla tenacia di una giovane donna, questo obbligo è stato superato prima grazie ad un protocollo provvisorio, il “protocollo Chiara”, a cui si è poi aggiunta una specifica norma del Jobs Act che nel decreto attuativo dello scorso settembre (150/2015) prevede l’esonero anche per i dipendenti privati dall’obbligo di reperibilità per gli orari di visita fiscali, in caso di gravi patologie.

“Le revisioni vengono disposte caso per caso. Ho cercato il “protocollo Chiara” ma ho trovato di meglio; ormai quello che era già in essere per il pubblico lo è anche per il privato, credo manchi solo la circolare Inps”, spiega un impiegato dell’Inps che chiede di rimanere anonimo. “Ai lavoratori dipendenti vengono effettuate le visite fiscali perché la malattia è un onere a carico del datore di lavoro per i primi tre giorni e successivamente a carico dell’Inps; per i lavoratori autonomi non c’è reperibilità in quanto non esiste l’istituto della malattia”, conclude il dipendente dell’Istituto di previdenza.

L’Inps di Treviso aveva ideato il “Protocollo Chiara” dopo la denuncia di una giovane donna, Chiara Dossi 39enne in cura per il cancro. A seguito di una chemioterapia con violenta crisi di vomito, la giovane non aveva risposto al medico fiscale, giunto alla sua abitazione per la visita. Per tutta risposta era stata convocata alla sede Inps a 50 km di distanza.
È seguita una denuncia indignata sui social network e l’Inps ha fatto proprie le istanze manifestate dalla giovane, varando un protocollo che prevede lo stop alle visite domiciliari per i pazienti gravi certificati, ora definitivamente superato grazie alle previsioni del Jobs Act.

Fronte aperto per i lavoratori autonomi, per cui si attende la definitiva approvazione nelle prossime settimane del cosiddetto Jobs Act autonomi. Al momento sono riconosciute per alcune categorie l’indennità di malattia e la degenza ospedaliera, oltre a quelle specifiche della cassa previdenziale di appartenenza per le differenti tipologie di professionisti. Le novità per chi soffre di una grave malattia, da confermare con la versione definitiva del provvedimento, potrebbero essere l’esonero dal pagamento dei contributi previdenziali per due anni, la sospensione degli obblighi previdenziali e delle visite fiscali, per un massimo di venti mesi.

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